ARCO Lisboa
Luisa Lanarca
Luisa Lanarca, Trilogia Voyeur, 1987, tessitura a due licci con tecniche miste compiute durante la tessitura, 118 x 111 cm ciascuno. Cortesia della Maja Galleria di Arte Contemporanea

La nitida bellezza delle sue parole

Quando filo, colore, parola s’intrecciano, una mostra di Luisa Lanarca a cura di Giovanna dalla Chiesa tenutasi presso Maja Galleria di Arte Contemporanea, in via Monserrato 30, a Roma.

Bring me the sunset in a cup, si legge in una delle più celebri poesie di Emily Dickinson – e lo si legge, nella traduzione italiana (Portami il tramonto in una tazza), in una delle opere di Luisa Lanarca esposte fino a pochi giorni fa nella Galleria Maja Arte Contemporanea, nell’ambito di una mostra curata da Giovanna Dalla Chiesa.

Ho scritto opera, senza specificare la tecnica, in ossequio proprio a quanto annotato dalla curatrice: «Non definirei i lavori di Luisa attraverso il riferimento alla loro tecnica – come arazzi, ad esempio – per quanto la modalità di fattura abbia la sua importanza, ma tout court come opere, perché è molto evidente che l’artista, con il suo sguardo, va otre la tecnica».

Ho voluto soffermarmi su questa analisi critica di Giovanna Dalla Chiesa perché vi ritrovo un termine di paragone con la poetica di Emily Dickinson. La grande poetessa americana ha infatti varcato la soglia della modernità grazie al carattere rivoluzionario della sua scrittura. Isolata dal mondo accademico – per non dire semplicemente dal mondo – ignorata fino alla morte dai circoli letterari e dall’industria editoriale, Dickinson costruì una lingua di potente nitore, corredata di soluzioni sintattiche e perfino ortografiche che oggi ci appaiono in anticipo sul suo secolo di anagrafica appartenenza.

Luisa Lanarca domina certamente la tecnica: ha approfondito tanto la tessitura quanto la pittura – rispettivamente con Laura Marcucci Cambellotti e con Luigi Veronesi – e possiede un ricco bagaglio teorico, che spazia dalla Gestalt alla psicologia. Ha avuto tuttavia, come sottolinea la curatrice, la capacità di sublimare quest’abbondanza di tecniche e conoscenze realizzando opere essenziali, pure, di una linearità e sobrietà che colpiscono come un uppercut sfoderato sul ring da un pugile danzante.

Nelle opere degli anni Ottanta selezionate da Giovanna Dalla Chiesa – si veda il trittico Conscio, Preconscio e Inconscio – la monocromia azzurra dello sfondo, i segmenti e gli zigzag dei fili intessuti statuiscono con la loro pulcritudine la condizione dell’esistenza umana: i pensieri e i movimenti della coscienza hanno luogo in uno spazio apparentemente vuoto, in una desolante solitudine che si accende a intermittenza con il collegarsi delle sinapsi. Oggi le scienze neurologiche vivono fasti inediti e sono divenute il dernier cri dell’intellettualità, ma Luisa Lanarca già nel 1982, anno di creazione del trittico, tracciava quasi l’impronta di circuiti integrati che orientano i nostri pensieri e i nostri sentimenti più profondi.

Quei segmenti, che in un altro trittico del 1987, Trilogia Voyeur, esplodono in ramificazioni neuroniche, assomigliano in modo singolare ai trattini quasi telegrafici che Emily Dickinson, nella clausura della propria vita domestica, aveva introdotto sulla pagina, destrutturando e riformulando la morfologia dei versi decenni prima degli esperimenti futuristi o dei calligrammi di Huidobro e Apollinaire. 

Then Space – began to toll è un altro verso di Emily Dickinson, segnato sempre dal trattino orizzontale: Lo spazio cominciò a rintoccare, riprende e scrive tessendo Luisa Lanarca in una delle opere più recenti, realizzate tra il 2024 e questo 2025 e che segnano il definito incontro con la poetessa americana, l’esplicito riferimento al suo nome e ai suoi testi. La mostra è stata del resto a sua volta la conclusione di un trittico che Giovanna Dalla Chiesa ha concepito proprio con il titolo Quando filo, colore, parola s’intrecciano, e che in precedenza aveva visto protagoniste Alice Schivardi e Luciana Pretta.

E qui si celebra appunto l’incontro con la parola, che diventa protagonista nelle opere del 2024 e del 2025 fondendosi o facendo da base al disegno – adesso elaborato, fiorito dall’essenzialità delle opere degli anni Ottanta a un rigoglio quasi barocco, che accompagna una scrittura, quella di Dickinson, fattasi in certi momenti della sua vita liturgica, pressoché apocalittica:
poi lo Spazio – iniziò a rintoccare, 
come se si fossero fatti Campana tutti i Cieli, 
e la Creazione nient’altro che un Orecchio, 
ed io, e il Silenzio, una Razza straniera, 
qui naufragata in solitario esilio – 
Poi si spezzò una Trave nella mia coscienza, 
e sentii sprofondarmi giù, e poi più giù ancora – 
ad ogni tuffo urtando contro un Mondo, 
e nella conoscenza tutto ebbe Fine – allora.

Called Back è il titolo dell’opera più recente di Luisa Lanarca, che riproduce le ultime due parole attribuibili alla poetessa, incise oggi sulla sua pietra tombale, nel West Cemetery di Amherst, in Massachusetts, invece di Died, morta. Come raccontò la scrittrice americana Casey N. Cep in un fondamentale articolo apparso il 30 ottobre 2013 sulla Paris Review: «Queste due parole furono le ultime che scrisse, in una lettera ai cugini, ma anche il titolo di una novella di Hugh Conway che amava leggere. Ma significano anche che noi possiamo richiamarla ogni volta che lo desideriamo, che siano le prime ore del mattino o quelle oscure della notte». 

Luisa Lanarca ha scelto di farlo, di richiamare Emily Dickinson in vita restituendole – e restituendoci – la bellezza nitida e severa delle sue parole.

×