fotografia fake

La fotografia fake (prima parte)

Avevo sempre evitato l’ora dell’apocalittica terminale. Per scelta, per carattere e soprattutto per comodità, ma ci sono delle sere in cui la vita ti si pone di fronte e pretende che guardi, osservi, anche su Facebook, quello che in media si trasforma sempre e comunque in trash. Ci sono delle sere in cui sei così disperato che ti accontenti anche di verità scomode, sperando solo che insieme ad esse ti puoi regalare qualche certezza, e lei inevitabilmente lo farà, ma portandosi via in cambio una parte di quella utopia che era ancora in te.
Ci sono dei ladri che si vantano di una certa loro mentalità disonesta, per poterla avere veramente nascosta dietro quella mancanza di vergogna. Come trasformare il manierismo in un aspetto negativo: ci sono ladri che per tutta la loro vita vorrebbero serbare rancore ai loro stessi malefici, perché non hanno ottenuto abbastanza dalla loro rancorosa manipolazione. E allora, come ultima ipotesi, ti costringono a giustificare le menzogne, per produrre l’estrema fuffa. Tale atteggiamento è firmato, in maniera manierata, dai protagonisti di questa prosa.

“La mia è una visione apocalittica. 
Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, 
non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, 
il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare 
contro tutto questo, 
semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare.”

Pier Paolo Pasolini

1. Premessa: Codardissima signora, chiamata Castrashia, scrivo dall’inferno, montagnola numero due, esattamente dalla collina accerchiata dalla nebbia, bianca e fredda. Ovunque fetore di urina che mi soffoca; la compagnia di una ventina di mostri atti a soddisfare la sua esilarante ninfomania visiva. I giorni passati sono stati impossibili, non riuscivo ad alzarmi dalla postazione parallela alla Sua visuale della nebbia, non respiravo e non mi muovevo. Ora provo a scriverLe mentre la mostruosità, qualsiasi mostruosità, ci è davanti e ci guarda, provocata dal suo sguardo. Infatti i mostri mi fissano come vi fissano, mi spaventano mentre vi spaventano; sono zombie nella nebbia, nelle nebulose di un riflesso, mentre attorno a me c’è solo un silenzio malato, qualche urla e molta aria puzzolente. Ci liberiamo così e poi torniamo placidi e indifesi alle catene del quotidiano. Non posso svegliare nessuno, nessuno deve sapere che sono svegli perché potrebbe succedere ancora… Ti prendono e ti gettano nella cella di sicurezza, pane e acqua, ti caghi e ti pisci addosso… Ho pianto e ho pregato ma non sapevo chi, vedevo la morte ma non capivo quando e come. Questo è forse inferno e io ne voglio scrivere… Sono un osservatore e mi sono incatenato al sottosuolo prima della dignità, devo sopravvivere e debbo vedere perché la tua sciarpa ti strangola… Ma ora mi fermo, qualcuno sta arrivando che mi indica come andranno le cose, forse questo qualcuno sei tu sull’altra collina che guarda il dirupo …

2. n.b.: … «e poi fu soltanto immagine del Vallone… La mia voce cercava il soliloquio e il massimo di consenso, volevo nuovamente respirare l’auto-ragione, la pseudologia, ma non potevo… Ma poi la sensazione di angoscia passò e io mi svegliai… Il mio funerale focale era già pronto, avevo ricevuto l’estrema catarsi fotografica e rimasi nell’immagine di quel cucuzzolo».

2/7. n.b. 3. Flash sulle immondizie  trasportate in montagnola: «fotografare il vuoto, fotografare il vacuo, sempre fotografare. Per non parlare e non ascoltare, fotografare. La fotografia nel vuoto deve essere un vizio. Ogni immagine filtrata allo scanner deve essere letta come una malefica riproduzione; e più immagini possibili devono essere portate davanti agli occhi, per sottolineare il vuoto. Ricordatevelo sempre!…», si ripeteva, tra l’auto sollecitazione e l’ammonimento, la fobica Malencer, eterna signorina dell’influenza, del virus, «ricordatevi che anche quando siete o sono al cesso, prima di pulirvi, cercate di fotografare qualsiasi fotografia da scanner e qualsiasi oggetto capita intorno a voi, lì fotografate ogni riproduzione, ritaggate ogni mestruazione, nel cesso i pezzi di carta delle fotografie riproducono qualsiasi vuoto, qualsiasi nebbia, clone occulto, non coperto dalla tua m****».

Guglielmo Giraldi, 1480 circa

Con toni crudi, estremizzando nella sua stessa follia, la malefica Malencer, nel fotografare, le fuffe ce le diceva proprio alla cialtrona. Anch’essa era della piccola comunità della psicofuffa o degli psico fuffologi, appollaiata in montagna, circondata dalle valli annubiate, lontana dalla città occulta: un’oasi malefica dove le parole si usavano solo per imbonire i simili della comunità rozza, come il taglio di quegli spezzoni di fotografie che lo scanner riproduceva a mò di cacchette fotofuffonemiche; e le stimava e sottostimava, o come il solitario sillabare omeopatico o omeostatico del pecoreccio, quando gridava l’alluce, e le inquadrava.  Era la seconda metà dell’anno 2017. Il 17 del nuovo millennio, giustappunto. La fine di quell’anno, per la precisione. Il memorabile scatto della Malencer coincide, più o meno, con un avvenimento che lipperlì autocolpì Castrashia, anzi per meglio dire colpì la sua foto-egotica, come un fissaggio del vuoto nella valle, una loffa parabolica di obiettivi senza telemetro e di telemetry senza alcun obiettivo, anche per la loro inverosimilità. In quei giorni la gente, e soprattutto i Foto/zombie e gli Influencer/Designer, accorsero dappertutto parlando di qualcosa che era stato lanciato verso lo spazio, ma poteva andare verso la Luna o le Stelle: «Palle di vuoto, capovolto! Palle di sotto e di sopra, scuse qualsiasi per poter parlare solo di fotografie!», si diceva. Lo chiamavano Fuffinik, Fotofuffik, Fotofonemik e Fotoloffemik. Il lancio era avvenuto il 4 ottobre del 17 per noi il santo della fuffa. Ma sul cucuzzolo lo abbiamo saputo dopo, per sentito dire. Noi disabili osservatori di immagini abbiamo fatto presto a traduci, in nome di quelle fandonie che volavano come immagini vuote in quel satellite psicofuffico. Modificavano l’immagine per puro gioco: fotografavamo, alla stregua di Fotofuffeni personaggio alquanto scurrile che ci faceva imbarazzare. Detta in presenza di grandi psicologhe e fiancheggiatrici della fuffa, venivamo ammoniti, di seguire, ma con malizia. Ciò ci compiaceva; forse, pertanto l’abbiamo assimilata per trasgredire, quella immaginaccia, ricavandoci sopra la nostra prima fuffa legittimata:
Fufficchiu Fufficchiù
Spara o Obiettivigghiu
Castrigghiu Castrashia
Co stu poveri merdicchiu
Influencer natavote
Cari Fufficchiu te stravote

Lady Malencer bacchettò a tutti le dita delle mani che tenevano la macchina fotografica, fino a fargliele diventare rosse, per averla sentita fuffare sulla fotografia, quella immagine immobile derivata da Fuffnik. E meno male che non avevo dichiarato che scrivevo poesie e meno male che nessuno sosteneva che circolassero poeti. E tante altre volte le mani le bacchettò ai sedicenti poeti, perché non riusciva a far dominare l’immagine secondo i canoni della fotografia scansionata dal vacuo o nel vacuo: la tagliava, con un piccolo taglia e incolla, a sinistra e non a destra. Nonostante quelle tante bacchettate, la chiudeva poi ancora a sinistra. E, forse, da allora ebbe origine anche una certa mia congenita ribellione alle convenzioni, chissà della fuffa che lei proponeva. 

Non ho ricordo, invece, che in quel periodo fosse d’uso comune, tra le Elette Psicofuffologhe, la bianco-candida carta igienica per uso stampa. Almeno sui rifugi della montagnola, e tra gli Zombie in genere, non era ancora arrivata la cacca fotografica definitiva, quella della Caccademia delle Cacche.

Per la pulizia del culo, alla ben meglio, si usava di tutto delle stampe  fotografiche originali: dalle ruvide carte ai sali d’argento, alle foglie d’erba schiacciate su vecchie carte per incisione e stampa, alla carta di incarto duro, che in genere scassava la stampante, alla cartavetro; quando andava meglio Castrashia usava la carta dei giornali: quegli zombie stipati, per fissare le fotografie nelle vaschette piene di piscio, nei pacchi di beneficenza della fuffa, o in quelli che le Gallerie del Web spedivano alla Psicofuffa per farmaci scaduti, a Pasqua e a Natale. L’inchiostro che segnava le parole, colava sui foglietti, sulla carta inzuppata di sangue, sui giornali trasudati di fakenews, bagnandosi di merda, talvolta si scioglieva sul retro, annerendola. 

La Magister della Fuffa, già a quei tempi una vecchia tardona spacciata per giovincella, è sepolta ormai da un pezzo sotto alle sembianze di Ale Ci Fa. Però quelle sue istigazioni, alla fotografia fotografata hanno ottenuto il risultato da lei voluto: il vizio lo hanno inoculato, almeno in lei e di lei, in modo irreversibile. Infatti, adesso, anche quando  è seduta sul cesso, il trono dei suoi troni, scorreggia invece di troneggiare e la carta igienica è bianco-candida a rotoli come la carta fotografica di risulta, talassemie dell’icona più lunghe d’un grattacielo e senza parole impresse, trovo persino il modo di leggere lo scritto pubblicitario sugli involucri, e le indicazioni e gli indirizzi e le informazioni:
Fotofuffiche Fotorotolex
comprimilo e torna Fuffinex.
“Spatafuffinex a Briglie sciolte, 
stringilo e diventa arma letale”,

Le viene subito da pensare e sorride, rammentando quei tempi in cui giocavamo con le parole, per liberarci delle immagini. 

Un fototesto o un fotofottesto non mancano mai nel bagno del rifugio, rivestito di lucide mattonelle: anzi, a volere essere precisi, c’è un miniportafuffiche a fianco al vaso di porcellana fine: unico momento di ritmo  abbacinato ove, escludendo questa maledetta macchina fotografica, può godere dei suoi vampirismi di riflessione che s’accuccia in confidenza tra immagini scartate e scarti di scatti. 

Non c’è più il gabinetto delle stampe, come è evidente, il gabinetto a cielo aperto sulla montagnola di radicchi e verdurine inquinate, ma, l’immagine è la stessa da scattare, da scattare sempre, per non morire. 

Il gabinetto, Ale Ci Fa, l’aveva ricavato  dalla spenta frustrazione dell’ecologia dismessa. 

Ricordo. In montagna era già un lusso a quel tempo. Ruvide vaschette per il bagno di foto mancate, infilate nel fango del terreno umido, una a fianco all’altra,  fotografavano in verticale, appena ad altezza di persona adulta, una grande fossa, sopra la quale, in orizzontale, a distanza d’acquattamento, altri due tronchi di legno, simili a traverse di rotaie, con un accenno di piallamento alla ben meglio fatto a colpi di accetta, robusti quanto bastava per sorreggerli, fungevano da poggia piedi per consentire di acquattarsi, pur sotto il cielo, in intimità con quella sporgenza di vuoto. E se pioveva, un vecchio ombrellone, bucherellato dalla ruggine pisciata, veniva arrangiato a copertura. Quella fossa di melma e di  potenziali fotofuffiche si riempiva di escrementi fotofonemici, che si evitava di guardare qualora si avesse lo stomaco anoressico. Quelle volte che il venticello dicembrino mitigava il lezzo con il profumo degli acidi da stampa, Castrashia provava a guardare giù, dentro quella fossa birichina che, dall’immagine riprodotta su FB, mi sembrava il pozzo dell’inferno e nella quale temevo sempre, di far precipitare, tante fake news.  E tanta e tale, talvolta, era la paura che perfino un attacco di  dissenteria poteva repentinamente trasformarsi, appena affacciatosi il culo su quella porcheria, in immagine. 

Quando poteva, e ce la faceva, e lo stomaco sopportava digiuni e digiuni, osservava quella massa, e melmosa, e rinsecchita, acidificata, che dava alla luce certi colori seppia grossi e canditi che ergevano la macchina fotografica verso l’alto come a prendere spazio e che impressionavano ancora di più. Quante notti, Malencer, le ha immaginate come scenografie di FB, quante notti le ha post-poste e sollevate tra le aride gambe melmose: “Erano forse loro che risucchiavano la verità dell’immagine, quelle ombre nebbiolate con le gocce di umido fecale rattrappito sui bordi, i vuoti e quant’altro, che finivano dentro quella massa puzzolente con i pezzi di giornali … “ Questo pensava. 

Poi, quel povero cristo del suo trashporter, quello che disegnava fotografie per aver scambiato la laurea alla Normale di Pisa con un cartone per la mozzarella affumicata, quando la fossa era piena, svuotava le balle senza pensare, sotterrando le impressioni delle istantanee qua e là sulla montagnola, che, così si concimava, s’arricchiva di nuove fake news e, quindi, rigogliosa, riapriva il ciclo di  melma, di cui emergevano quelle sole immagini che non si possono scattare per gli altri; perchè non ci sono immagini che si  possono fotografare per descrivere le  fotofuffiche della montagnola, perché il guardare  nel silenzio dell’immagine o  l’inquadrare nella mestizia del vacuo non si possono riportare al telemetro. Quelle immagini erano fuori esposimetro:  sono solo memoria individuale che, in circolo col sangue, come tutte le castrazioni di castrashia, vanno in letargo con gli zombie o si svegliano ovunque su FB e secondo dove ci troviamo, quando il contatto per vista schermatica, per suono  del pc o per altro ce la riportano in luce, in senso unicamente soggettivo, associandocela  a ciò che era del male e della sua fake news, che è, e, pure a che sarà, fino a che non diventerà fuffa espansa, se avrà la fortuna di espandersi, tra quei lacerti di nihil. È un privilegio che Castrashia non conosce, adesso, il vizio di guardare nel vuoto, non ricorda niente, scorrendo le immagini di FB, passata la miseria, quel  pisciatoio col tetto di cielo, ove finivano anche tante icone che ingrassavano la carta sensibile, ma rigeneravano le fake news, facevano sapere del Fuffnik e dell’immagine sulla malattia del precipizio e del vuoto.