Giovanni Fontana
© 1991 Giovanni Fontana, Xeroscrittura

Giovanni Fontana. Scritture asemantiche, scritture asemiche

Il lavoro verbovisivo di Giovanni Fontana, dagli esperimenti sonori all’idea di scrittura illeggibile come elemento fra altri della “poesia totale” teorizzata da Adriano Spatola

In quali anni si è occupato di scrittura asemantica? È possibile vedere alcuni suoi lavori che seguivano questo percorso? Lo seguono tutt’ora?

Nel mio lavoro ho sempre seguito percorsi disparati. Praticando diverse tecniche e utilizzando differenti media. Testo, suono, gesto, immagine hanno indifferentemente impegnato la mia attività artistica a partire dalla fine degli anni Sessanta, quando ho cominciato a sperimentare articolazioni e combinazioni di segni, spesso forzando il rapporto tra significante e significato, in pratiche laboratoriali dove la forma significante poteva tendere a provocare squilibri nel rapporto col significato. Mi interessava il gioco delle oscillazioni tra le facce del segno, ben conscio, tuttavia, della necessità del loro rapporto e delle possibilità di agire sui livelli di arbitrarietà. Mi interessava forzare la mano sul significante per costringere il pensiero ad uscire dal luogo comune. Ma nello stesso tempo mi interessava organizzare parole e immagini in sistemi chiusi, dove il significante valesse di per sé, come nella musica, che significa solo se stessa, al contrario del linguaggio, che è un sistema aperto in cui il significante rimanda sempre ad un significato.

Ho agito in questo senso quando ho cominciato a realizzare montaggi sonori su nastro, con suoni, rumori, frammenti di parole, inoltrandomi talora, attraverso l’adozione di tecniche e l’applicazione di processi operativi, in territori oscuri, caratterizzati dalla produzione di ciò che poi ho specchiato nel concetto di “significante fluttuante”, di significante vuoto come espresso da Claude Lévi-Strauss, un significante privo di referente che sarebbe potuto approdare su chissà quale sponda. Ciò accadeva tra la fine degli anni Sessanta ed i primi anni Settanta.

Successivamente, negli anni Ottanta, ho provato a cimentarmi con scritture senza un corrispondente fonico, a cui attraverso associazioni arbitrarie (in realtà suggerite dalle stratificazioni profonde dell’esperienza) si potevano associare suoni, per cui quei segni diventavano i significanti di un significante fonico. E in queste ipotetiche trasposizioni aveva gran parte il caso, che in sequenze vertiginose poteva aprire nuove porte. Il caso: che poi è il motore di tutto ciò che passa in rapida successione nella moviola del cervello, della memoria.

Si tratta di occorrenze isolate, nella sua produzione verbovisiva, o hanno / avevano un ruolo di rilievo, in termini di quantità di materiali prodotti, scambiati, collezionati, e in termini di occasioni di esposizione?

© 1972 Giovanni Fontana, 
A come quaglia



© 1972 Giovanni Fontana,
A come quaglia

Non si è trattato di occorrenze isolate, anche se il riferimento a questo ambito non è stato esclusivo. Del resto non è nelle mie corde la pratica unidirezionale o univoca. Ho amato frequentare spazi sempre diversi, semmai confermando come denominatore comune l’intermedialità. In ogni modo, ho praticato scritture asemantiche con costante periodicità. A parte le ricerche acustiche (che pure rientrano per molti versi in quest’ambito), ciò è avvenuto sul fronte visivo in numerosi lavori, a partire dai primi esperimenti di poesia concreta (ricordo per esempio A come quaglia, pubblicato nel 1972). Successivamente l’esperienza si è ripetuta nei dattilopoemi, nella seconda metà degli anni Settanta, nelle composizioni calligrafiche e nelle scritture astratte, liberatorie, degli anni Ottanta, nelle xerografie degli anni Novanta, negli inchiostri degli anni Duemila, senza considerare le pratiche sugli zeroglifici spatoliani, varate su suo suggerimento nel 1983, e alcuni altri fatti episodici. Il tutto ha impegnato una discreta parte della mia produzione, ahimé, non sempre documentata fotograficamente e in parte dispersa ai quattro angoli del mondo, ma fortunatamente raccolta in numerose pubblicazioni e conservata negli archivi di compagni di cordata o in benemerite istituzioni, come la Fondazione Bonotto o come la Fondazione Berardelli, che, da sola, avrà più o meno cinquecento pezzi. Esposizioni? Di esposizioni ne ho fatte tante. Almeno settecento, direi.

Quelli meno recenti, i primi testi suoi che lei considera “asemantici” o asemici, rientravano in un clima largamente condiviso nella ricerca verbovisiva (solo italiana?), ossia erano in sintonia con correnti percettibilmente forti/diffuse di scrittura, oppure a suo giudizio si trattava di esempi isolati all’interno di un contesto che – al contrario – si esprimeva più spesso entro i margini di una poesia visiva e concreta interamente “semantica”?

Senz’altro rientravano in un clima condiviso. Basti pensare alle esperienze concrete di Adriano Spatola, con i suoi zeroglifici, o di Franco Verdi; basti pensare a Luciano Caruso, ad una parte della produzione di Stelio Maria Martini; ma anche a Carlo Marcello Conti, a Gigliola Fazzini, ad una artista come Irma Blank.


Rispetto al lavoro di una artista come Irma Blank, e a quanto ne scriveva Gillo Dorfles in questo articolo [http://gammm.org/index.php/2007/07/18/blank-dorfles/], qual era la sua posizione, la sua poetica? Si sentiva in sintonia con altri sodali, in questo senso?

© 1985 Giovanni Fontana, 
Scrittura
© 1985 Giovanni Fontana,
Scrittura

Giustamente Gillo Dorfles parla di segno «divenuto non più veicolo d’un concetto, ma veicolo di se stesso; e, come tale, da costituire quasi al ritorno dell’artista alle sue radici prime, al proprio io indifferenziato, colto in uno studio pre-linguistico e pre-semantico». Ma più che di «messaggi segreti e criptici» io in questo caso farei riferimento al concetto di tempo e a ciò che ne sembrerebbe conseguire. Nel lavoro di Irma Blank il gesto scorre con uniformità sulla carta, senza divagazioni, senza soluzione di continuità, e ripete un movimento ordinato, composto, omogeneo, che richiama soprattutto la concezione lineare dello scorrere del tempo. Ma in modo che direi asettico. Volendo infatti paragonare queste scritture a tracciati cardiografici o encefalografici, non si osservano picchi o anomalie, non si registrano salti di dinamica. Tutto procede comme il faut. Senza sorprese. Ma forse si potrebbe intravedere un distacco dal reale a favore della pratica meditativa, a sostegno di una estrema concentrazione. Potrebbe trattarsi di una sorta di mantra gestuale, uno strumento di pensiero o un incantamento che favorisce la discesa verso i misteri dell’essenza più profonda di noi stessi. Non conosco le ragioni che spingono l’artista ad orientarsi su questo binario. So che è elegante e prezioso; ma so anche che dal suo gesto traspare una concezione del tempo diametralmente opposta alla mia. Per me l’atto creativo è al di fuori di una concezione lineare del tempo. Per me è zigzagante, pieno di salti e sconquassi, di intrecci e di diversioni, dove passato, presente e futuro si confondono. Con riferimento alla ben nota concezione proustiana ho composto libri d’artista intitolati Alla ricerca del tempo perduto, dove montaggi di ritagli di calendari (le cifre e le lettere di questi quotidiani strumenti di orientamento, che un po’ banalmente rappresenterebbero la misura del tempo) costituiscono le tracce di un evento creativo gratuito, fuori dalle righe, che trascende il referente, dove passato e futuro si intrecciano senza scopo, ad indicare una presenza, frutto di un gesto materiale che sta semplicemente a specificare un’intelligenza attiva. È il risultato di un’azione. Il momento conclusivo di un processo dinamico, dove la mobilità degli elementi è condizione fondamentale per la definizione del metodo compositivo. È un ricercare forme. È tutto un formare. Dove, per dirla con Pareyson, un tal fare, mentre fa, inventa il modo di fare.    

C’erano contatti con artisti verbovisivi e sperimentatori non italiani della stessa area? Ricorda alcuni nomi in particolare?

Certo che c’erano contatti. Non erano i tempi delle reti web, ma l’intreccio degli scambi era molto fitto. Si pubblicavano molte riviste, bollettini, fogli d’informazione. Ci si incontrava nelle mostre e nei festival, negli spazi laboratoriali, negli atelier, ma anche nelle osterie. Ci si appoggiava alle reti della mail-art internazionale e, comunque, si privilegiava la convivialità. Occasioni d’incontro venivano ricercate in viaggi lunghi e difficili. L’atteggiamento nomade favoriva il dialogo, specialmente nei festival performativi, dove generalmente era assegnato ampio spazio ad esposizioni di opere, di libri, di dischi e audiocassette. Praticamente si potevano tenere contatti che favorivano l’operatività e la ricerca teorica. Contatti reali, materiali, caratterizzati dalla reciproca attenzione, talvolta da profonda amicizia tra gli altri artisti e il loro pubblico. I nomi? Certo che li ricordo. Ricercatori sempre pronti a muoversi tra immagine, gesto e voce, tra installazioni e performance. Potrei elencarne centinaia: dai padri della scrittura verbovisiva e sonora francesi, come Ilse e Pierre Garnier, Henri Chopin, Bernard Heidsieck, Julien Blaine, Jean-François Bory, al teorico dell’intermedialità Dick Higgins,  dai brasiliani del gruppo Noigandres al catalano Joan Brossa, dagli austriaci Gerhard Rühm e Heinz Gappmayr, ai tedeschi Max Bense, Timm Ulrichs,  Klaus Peter Dencker e Klaus Groh e agli artisti dell’allora Germania Orientale, come Carlfriedrich Claus, Robert e Ruth Wolf Rehfeldt, Klaus e Rolf Staeck, dagli inglesi John Furnival e Paula Claire agli ungheresi Gyorgy Galantai e Endre Szkarosi, dal brasiliano Paulo Bruscky all’uruguayano Clemente Padin, allora ancora in carcere per la sua opposizione alla dittatura che soffocava il suo paese, fino ai canadesi Steve Mc Caffery e Richard Martel, agli americani Richard Kostelanetz, Mary Ellen Solt, Patty e David Arnold, Karl Kempton, John Bennett, Bern Porter, Ronald Prost, Ernst Robson, Larry Wendt, all’australiano Pete Spence e tanti altri; alcuni sono scomparsi, come Garnier, Chopin, Heidsieck, Higgins, Brossa e come il belga Paul De Vree, la raffinata Amelia Etlinger, Jiří Kolář, Hans Clavin, Ladislav Novak, Bob Cobbing, l’argentino Edgardo Antonio Vigo e il fantastico sound performer b.p. Nichol. E poi ci sono i poeti delle generazioni successive. Per esempio Bartolomé Ferrando, Fernando Aguiar, Luc Fierens o Andrew Topel.

Il lavoro asemantico si accompagnava a (o negava e si distanziava da) materiali testuali esplicativi? Una teorizzazione precisa era espressa, da critici o artisti? Più in generale, la definizione di scrittura “asemantica” o asemica la trova d’accordo? Era questo il vocabolario in uso, in effetti? (Per Bianca Menna / Tomaso Binga si parlava p.es. di “scritture desemantizzate”, invece: cfr. https://www.rivistasegno.eu/le-scritture-desemantizzate-di-tomaso-binga/).

In realtà l’aggettivo «asemantico» applicato alla pratica poetica, o comunque più generalmente artistica, mi ha sempre lasciato molto perplesso. Non sono un linguista, sono un artista e, in quanto tale, so che ogni gesto, ogni segno, tracciato in libertà assoluta, senza un collegamento referenziale, dopo un primo stadio caratterizzato da vaghezza e indeterminazione, espande la sua energia potenziale in una dimensione flottante che finisce però per sedimentarsi, fino a ritrovare un equilibrio semantico. Quel gesto o quel segno senza referente sono la forma del pensiero, sono il pensiero che controlla la forma, costituiscono lo spessore del fare che si fa pensiero che fa, facendo. Citavo prima Lévi-Strauss e il suo concetto di significante fluttuante che può essere ricondotto alla nozione di mana e che, pertanto, non è altro che una forma vuota con valore simbolico uguale a zero. Forma che tuttavia si può caricare di qualsiasi contenuto.

Ma al di là di tutto ciò, la cosa interessante è che, in quanto contenitore vuoto, il significante fluttuante si trova necessariamente ad impegnare gli spazi di confine tra i codici, in ambiti di disordine semantico che spesso finiscono per favorire scariche energetiche in zone intermediali, dove l’opera parla di sé in termini fisici (rapporto tra materia, gesto, spazio, colore, testo); nello stesso tempo si dispone a dimensioni interpretabili, con labili riferimenti a codici differenti, che assumono di volta in volta maggior peso in relazione alla sensibilità e alle competenze del lettore. È il caso della musica per gli occhi che emana dagli zeroglifici di Spatola. Musica mentale, ma anche musica reale, come nel caso del flautista Severino Gazzelloni che era in grado di “leggere” musicalmente qualsiasi tipo di immagine lasciandosi trascinare dalla suggestione delle forme. I grafemi, per esempio, ogni volta sembrano costruire nuovi codici di lettura. Del resto questo è accaduto più volte. Basti citare (uno per tutti) il caso di Paula Claire che leggeva le fibre vegetali dei fogli di carta fatta a mano.

Il fatto è che l’osservatore non guarda con occhio sprovveduto e che, anche di fronte ad un contenitore vuoto, come il significante fluttuante, tende immediatamente a riempire di valori tale vuoto. Valori figurali e/o valori simbolici.

Nel testo per il catalogo di una mostra curata da Francesco Aprile e Cristiano Caggiula (Asemic?, in Francesco Aprile e Cristiano Caggiula [a cura di] Asemic writing, Archimuseo Adriano Accattino, Ivrea, 2018) scrissi che le scritture asemantiche costituiscono comunque dei libri aperti offerti «ad un lettore che osserva. E osserva. Secondo il suo bagaglio ponderale. Che carica e scarica pesi e peso. Per sensibilità e sensualità. Per organicità. Lucidità secondo senso. Ed è significativo a tal proposito osservare come l’occhio umano riesca addirittura a individuare rappresentazioni in formazioni casuali. Si guarda su. Si cerca dentro. Si parla di. Pareidolia. Quando elementi noti s’individuano laddove non c’è a monte volontà di rappresentazione alcuna. Come in figurazioni aleatorie frutto di natura. Come nelle cosiddette “pietre figurate”. Le “pietre fiorentine”. I “marmi ruiniformi”. “Polimorfiti” e simili. Assolutamente naturali. Frutto del caso. Dove le forme però richiamano alla mente figurazioni disparate. Ne dà ampia illustrazione Jurgis Baltrušaitis. Aberrazioni. Adelphi. Millenovecentottantatré. E ci rammenta Leonardo da par suo «Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l’ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di varî misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lí vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tu t’immaginerai».

© 1986 Giovanni Fontana,  Conoscenza
© 1986 Giovanni Fontana,
Conoscenza

Insomma, non ho mai usato quell’aggettivo perché definiva un ambito che costituiva soltanto uno degli infiniti aspetti della poesia, che nel secolo scorso molti di noi preferivano ricollegare direttamente al concetto di totalità messo a punto da Spatola.  Nel suo famoso saggio (Verso la poesia totale) egli indica chiaramente la vastità e la complessità della ricerca poetica in atto, che si poneva al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico, disciplinare, mediatico. Egli teorizzava una poesia che procedeva verso la totalità ponendosi come atto creativo inglobante. Pertanto ogni aspetto coinvolto in tale atto non poteva non essere inteso come mezzo e non come fine. Ecco allora che anche la presunta asemanticità doveva essere considerata come un aspetto dell’opera totale che tutto può includere. Ivi compresa la tendenza all’asemanticità.

La natura asemantica dei lavori (non solo suoi) del periodo si affidava ai territori della spezzatura dell’alfabeto, come negli zeroglifici di Spatola, oppure si muoveva esclusivamente (o principalmente) nell’area del segno grafico, della grafia? (Come in certe tavole di Vincenzo Accame o Magdalo Mussio).

Il laboratorio sperimentale della poesia ha sempre fatto riferimento a tecniche diverse. Da una parte i frammenti testuali nell’opera di Franz Mon, di Spatola o di Verdi, dall’altro le ipergrafie informali di Claus o la scrittura di Caruso, la grafia ordinata di Accame o quella onirica e impulsiva di Mussio.

Spesso si parla di scrittura asemantica come generatrice di un vero e proprio movimento artistico, cosciente di essere tale soprattutto dalla fine degli anni ‘90 tra Stati Uniti, Canada e Australia (i nomi che spesso si fanno sono quelli di Jim Leftwich e Tim Gaze). A lei sembra che al contrario in Italia già lo stesso percorso delle ricerche verbovisive sia interrotto o fortemente ridotto, in tempi recenti? (A prescindere dal discorso asemantico, intendo).

Lontano da me l’intenzione di aprire polemiche, ma credo che ci sia in atto una sopravvalutazione del settore, che per molti versi ripete il già fatto. Per altri versi, invece, credo che le ricerche verbo-visive siano ancora vive e vegete, anche se, spesso, al di fuori di un autocontrollo teorico o, altrettanto spesso, proliferanti senza adeguati riferimenti storici.

  • Giovanni Fontana
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Giovanni Fontana (1946), poliartista, creatore di romanzi sonori, tra i quali Tarocco Meccanico (1990) e Chorus (2000), è autore di pubblicazioni intermediali. Tra le recenti opere, la pièce radiofonica Le droghe di Gardone e il video Poema Bonotto commissionati rispettivamente dalla Fondation Louis Vuitton di Parigi e dalla Fondazione Bonotto. La sua produzione acustica è documentata in una vasta discografia. L’ultimo disco è Epigenetic Poetry (LP Recital, Los Angeles 2016). Il suo primo libro di poesia è il testo-partitura Radio/Dramma (Geiger 1977). Tra le più recenti scritture creative si collocano Déchets (Dernier Télégramme 2014), Questioni di scarti (Polìmata 2012 – Premio Feronia 2013), Fonemi (Peccolo, 2017), Discrasie (Novecento, 2018), La voix et l’absence (2019). Teorico della poesia epigenetica, ha scritto vari saggi, tra cui La voce in movimento (2003) e Poesia della voce e del gesto (2004). Ha curato per “il verri” l’antologia in CD Verbivocovisual (2004) e ha dedicato alla performance il volume Italian Performance Art (2015). Ha fatto parte delle redazioni di “Tam Tam”, “Baobab” e “Altri Termini”. Ha fondato la rivista di poetiche intermediali “La Taverna di Auerbach” e l’audiorivista “Momo”. Lavora nelle redazioni di “Doc(k)s”, “Inter-Art actuel”, “Bérénice” e “Le Arti del Suono”. È direttore di “Territori”, rivista di architettura e altri linguaggi.

Ha scritto per molti musicisti, fra i quali Ennio Morricone e Roman Vlad. Tra i suoi testi per musica c’è una nuova versione dell’Histoire du soldat di Igor Stravinsky. È intervenuto in centinaia di festival di nuova poesia e di arti elettroniche in Austria, Belgio, Canada, Cina, Cipro, Francia, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Lituania, Messico, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria, USA, ecc. Tra le ultime partecipazioni, quelle a La voix liberée (Palais de Tokyo, Paris), Le poème en actes (Maison de la poésie, Paris), VI Performance na dźwięki (MIK, Varsavia), Räume für notizen (Alte Schmiede, Vienna). Con opere verbo-visive ha preso parte a oltre settecento mostre; tra queste la Quadriennale di Roma e la Biennale di Venezia. Il suo lavoro è ripercorso nella monografia Testi e pre-testi (Fondazione Berardelli, 2009).

Marco Giovenale

Marco Giovenale è tra i fondatori di gammm.org (2006). Vive a Roma dove lavora come lettore per case editrici, traduttore e, talvolta, libraio freelance. È redattore di spazi web italiani e anglofoni. Cura la collana “SYN – scritture di ricerca” per le edizioni IkonaLíber. Suoi scritti critici e testi in prosa e in poesia sono usciti in riviste tra cui «il verri», «alfabeta2», «l’immaginazione», «il manifesto», «Nuovi argomenti», «Semicerchio»; e, in inglese, «Aufgabe», «Journal of Italian Translation», «Or», «Capitalism, Nature, Socialism». Tra i libri di poesia: La casa esposta (Le Lettere, 2007), Shelter (Donzelli, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), Maniera nera (Aragno, 2015), Strettoie (Arcipelago Itaca, 2017). In prosa: Quasi tutti (Polìmata, 2010; Miraggi, 2018) e Il paziente crede di essere (Gorilla Sapiens, 2016). Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Per Sossella nel 2008 ha curato una ampia raccolta antologica di testi di Roberto Roversi. Ha tradotto Billy the Kid, di Jack Spicer (La camera verde, 2014). Come artista e asemic writer ha esposto in Italia e fuori, è presente in cataloghi di mostre collettive, e ha pubblicato libri di materiali asemici. Il suo sito è slowforward.net.

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