Walter Bortolossi

Intelligente come un pittore: Walter Bortolossi

Gli artisti da frequentare sono quelli che, andando oltre il presente, sanno vedere il futuro. Ci riescono perché sono proprio le loro intuizioni a renderlo attuale. E poco importa che, come di solito accade, in un primo momento quasi nessuno se ne accorga. Così, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, mentre i più sembrano “spinti da una necessità quasi fisica di trattare le questioni razziali, la sessualità e il multiculturalismo, ma soprattutto la globalizzazione” e “gli artisti più rappresentativi dell’epoca abbandonano progressivamente il lavoro incentrato su un unico medium per iniziare a dialogare trasversalmente su più discipline, tecniche e strumenti” (Edoardo Di Mauro), Walter Bortolossi, pur non trascurando le nuove frontiere dell’informatica, specie per quanto concerne la distorsione delle immagini, si concentra da subito su questioni radicali: “l’eclisse delle ideologie, il termine di un secolo improntato al progetto politico e la sua sostituzione con l’amministrazione tecnica dell’esistente, la centralità dell’apparato tecnico scientifico oltre che di quello economico”. Il risultato è una pittura colta, densa di sensi secondi, sebbene rivestita di forme popolari, che avrebbe incuriosito persino Duchamp. Studio come un pittore? L’esatto contrario.

Perché dipingi?

Per “fare” l’immagine (ed eventualmente anche il suo testo).

La pittura non è un’arte “superata”?

Se non ci fosse un oltrepassamento le singole cose non ci sarebbero, quindi se la pittura si è “superata” la pittura esiste. Piuttosto è una superstizione trarre una qualche legge dall’osservazione di un superamento: in quanto precondizione il superamento è ovvio, le conseguenze sono invece puramente contingenti. 

D’accordo, c’è ancora chi dipinge. Ma, a meno di non essere Jenny Saville o Peter Doig, si riesce a vendere qualcosa?

Sì se non si frequentano solo artisti e poeti. 

Se per vivere di pittura bisogna indulgere in cattive compagnie, perché mai giovani idealisti dovrebbero scegliere di iscriversi in un Liceo Artistico o di andare in Accademia?

Generalmente quelli che scelgono questo genere di scuole lo fanno perché l’ambiente per loro è migliore di quello delle altre ma solo una piccola parte pensa davvero di diventare artista. Infatti oggi mi pare molto più frequente trovare ambizioni artistiche in chi non ha una formazione artistica piuttosto che in chi ce l’ha.  Raramente ho comunque incontrato qualcuno che si sia pentito di aver frequentato la scuola dove insegno, anche nel caso abbia poi seguito altre strade nella vita. L’istruzione è qualcosa di più profondo e complesso del fornire forza lavoro dato che è produzione già in se stessa e non solo innesto nella produzione esistente: capita che le persone crescano anche con idee e desideri propri e credo che oggi per la maggior parte dei casi non ci si faccia troppe illusioni e si sappia bene che ci siano dei conti da pagare. Ma è pure vero che anche se fai quello che è più conveniente fare, paghi comunque dei conti.

Che la formazione artistica oggi sia in crisi, mi sembra indiscutibile. Non viviamo forse in un mondo estetizzato, in cui pratici strumenti rendono banale ciò che prima richiedeva un paziente apprendistato?

Talvolta succede che opere realizzate con strumenti che richiedono un lungo apprendistato siano banali e poco stimolanti ma in numeri maggiori banalità e inconsistenza dominano nella cosiddetta “estetica diffusa”. Ci sarebbe però qualcosa da dire sull’uso improprio del termine “estetica”, spogliato com’è dal substrato della riflessione filosofica che lo ha storicamente strutturato. Buona parte di quello che viene descritto come “estetica diffusa” è in realtà riducibile, perlopiù, alla pubblicità e alla comunicazione. 

Mi riannodo a polemiche recenti: e la pittura “italiana”?

Per la pittura italiana l’unico problema è che non viene, salvo rare eccezioni, trattata dalle nostre poche gallerie di livello internazionale, per cui è stata sempre in mano a gallerie di mercato basso, con un’idea dozzinale del commercio, poco colte ed avulse da problematiche impegnative. 

Causa della situazione sta anche nell’immobilismo della società italiana che nell’arte si è tradotto in una persistente influenza di esperienze nate tra gli anni ‘60 e ‘70, contrarie alla pittura di rappresentazione.

Una chiosa: sino a qualche tempo fa eravamo noi gli esotici. Oggi siamo semplicemente fuori moda.

Purtroppo abbiamo seguito troppo la moda, sia in un senso che nell’altro. 

Dirò di più: a giudicare da recenti mostre, le nostre città d’arte non ti sembrano il bel palazzo della nonna dove organizzare le feste del liceo?

Se fossero davvero feste selvagge parteciperei volentieri: si vive una sola volta. Questo l’aveva capito anche Tiziano. 

Viceversa, all’estero esportiamo souvenir in formato gigante come il David pudico di Dubai, senza neanche aspettare che i turisti vengano a cercarli qui da noi. Tanto varrebbe venderli per corrispondenza su Alibaba.

Dovremmo fare un sito noi per venderli, però. E pagare le tasse qui. 

Al di là del confronto, spesso eluso o semplificato, con la tradizione, l’artista reagisce al presente. Tu come rispondi, con la tua arte, ai suoi appelli?

Ho cominciato tra fine anni Ottanta e Novanta. Per me il problema era l’eclisse delle ideologie, il termine di un secolo improntato al progetto politico e la sua sostituzione con l’amministrazione tecnica dell’esistente, la centralità dell’apparato tecnico scientifico oltre che di quello economico. 

Sono i problemi nei quali oggi siamo immersi con tutta la testa. 

Impossibile negarlo. Nelle tue tavole warburghiane su fondo blu elettrico, tanti potenti (e impotenti) ci guardano in silenzio. Che mai vorranno dirci?

Quello che dicono è quasi sempre chiaro ma il fatto di dipingerli rende la cosa molto più ambigua e dà da pensare. 

In effetti la tua è una pittura manifesto. Quanto di più simile all’arte pubblica, ma senza le semplificazioni dell’arte pubblica. O sbaglio?

Apparentemente semplice è in realtà molto densa: infatti un quadro non basta mica guardarlo. Non si tratta di una pittura manifesto quanto una pittura contro il manifesto. Risulta complicatissima per chi si è coltivato poco e per chi non si informa, per alcuni è semplicissima. Per un premio Nobel sarebbe troppo semplice. 

Saperlo mi rincuora. Tra curatori che dipingono e artisti che curano Biennali, la specificità dei ruoli è una legge decaduta. Un bene o un male?

Siamo nel caos. Bisogna distinguere tra chi fa semplicemente promozione di se stesso utilizzando qualsiasi mezzo e chi sta davvero facendo qualcosa di serio, anche se può avere le parvenze del comico. 

Un libro che vorresti leggessimo?

Almeno 500 o niente.

…e una mostra – a parte le tue: a consigliarle ci penso io – che dovremmo visitare?

La sequenza di visioni che si succedono in punto di morte così come sono descritte nel Bardo Thötröl con le sue schiere di divinità pacifiche e irate. Sarebbe una mostra indimenticabile, ammesso che la si possa ricordare dopo morti.

Walter Bortolossi, I tavoli, 2021 olio su tela 110×180 cm