In ciò che brilla: Leukòs [1]

Mi terrò sui bordi geologici della Lucania in un senso del tutto particolare. Descriverò un percorso apparentemente distante dal tema ma che tuttavia potrà introdurre, in guisa di soglie (di creta), verso ulteriori riflessioni su l’estetico e il politico. Si tratta qui di abbordare la società Lucana nei primi momenti dell’agire e del camminare, in quanto sorgente di suolo ma anche origine-ambiente (habitat). Per definizione l’originario di un territorio è colui che non parla, ovvero il suolo, la terra. Occorre dire che è parlato? In che senso questo è accettabile? La dialettica del duro e del molle governa tutte le immagini che ci facciamo della materia (Lucana) delle cose. Questa dialettica anima (dato che il suo vero significato risiede solo in un’animazione) tutte le immagini con le quali partecipiamo attivamente e intensamente alla vita profonda delle «sostanze». Duro e molle sono le prime qualificazioni ricevute dalla resistenza scultorea, la prima forma di esistenza dinamica del mondo Lucano. Niente è comprensibile nella conoscenza della materia Lucana se non vengono posti anzitutto i due termini dello spazio cretoso e della duttilità scultorea di quel territorio. Che cosa sarebbe una resistenza se non avesse persistenza e profondità sostanziale, la profondità stessa della materia contadina? La materia contadina ci fa conoscere le nostre forze, suggerisce una loro categorizzazione dinamica. Va da sé, che la realtà materiale che la rappresenta ci istruisce.

Noi siamo circondati da territori che non abbiamo creato e che hanno una vita e una struttura diversa dalla nostra: alberi, fiori, erbe, fiumi, colline, nubi, montagne, rilievi calcarei, sassi, caverne, crateri, territori. Per secoli essi ci hanno ispirato curiosità e timore e sono stati fonte di speculazione e di approfondimento. Li abbiamo ridisegnati nella nostra immaginazione per riflettervi la nostra condizione estetica, geografica e politica. Siamo giunti a considerarli come elementi costitutivi di un’idea che abbiamo chiamato: natura, territorio, geologia, ecologia, equilibrio omeostatico.

La terra è spazio, immensa estensione, un quadro generale: carta geografica che fornisce l’orientamento per muoversi nelle località più concrete della vita vissuta. Non è stato sempre così. Quando il mondo era sempre più piccolo, quando era in gran parte sconosciuto, e dunque i territori noti erano solo un parziale anticipo di un altrove terreno misterioso, le rappresentazioni della terra svolgevano probabilmente un’altra funzione, o la stessa in modi diversi. Erano mappe, ma di cosa? Si può dire che la terra di Lucania, per esempio, è ancora cosmo e, quindi, raffigurabile più come un ordine fortuito di un senso geologico, che come una mera estensione. 

L’immagine della Terra Lucana procede, dunque, per via autonoma (eteronoma; geognostica), cioè ponendo – a tratti (soprattutto nell’itinerario dei Calanchi) – la forma terrestre sopra il logos, la superficie bucata e riemersa che Gregory Bateson avrebbe chiamato la “struttura che connette”, che cioè ordina, comprende gli elementi e li seleziona, tirandoli con ciò fuori dall’informe: la distesa biblica imposta prima tra le acque, cioè tra il cielo e la terra e poi nella “scoscesità” del suolo stesso. Si tratta di una evoluzione che è allo stesso tempo ideale e materiale, perché è proprio della natura del logos, della matrice geognostica, presentare tale duplicità. Il termine ebraico per dire creazione, “baral”, significa sezionare e intagliare, comporta un processo che coinvolge sia la mente del viaggiatore che la mano del contadino, è appunto allo stesso tempo sia materiale che ideale: il presepe in Pietra di Altobello (nella Cattedrale di Matera); Il Polittico di Maglionico realizzato da Cima di Conegliano, il Polittico di Giovanni Bellini (custodito nella Chiesa di Santa Maria della Platea a Genzano di Lucania); l’anonimità della statua di Sant’Eufemia (di una incerta attribuzione); le parole di Leonardo Sinisgalli, Rocco Scotellaro, Albino Pierro, Vito Riviello, Carlo Levi; la tomba di Scotellaro del 1957 dello studio BBPR, etc.

Ci sono dei film che sono dei saggi di geografia sociale. A patto che non ci si faccia distrarre dalle sole vicende emotive dei protagonisti e si osservino con attenzione anche i territori di sfondo, gli esterni fotografici e ambientali e/o abitativi, i mezzi di trasporto, gli arnesi del lavoro contadino, gli arredamenti, gli oggetti sociali dello sfruttamento, gli abiti, le acconciature femminili e maschili, i volti granitici che risalgono dalla terra. Certo anche la sceneggiatura può essere significativa quando evidenzia tipologie di relazione sociale: su quanto contino le terre, il territorio e il colore delle espressioni antropologiche. Uno dei film italiani (proiettati sulla Lucania) è Rocco e i suoi fratelli (1960, regia di Luchino Visconti), che mostra uno spaccato dell’Italia del secondo dopoguerra, segnato dalla massiccia emigrazione dal sud al Nord del paese. Nello specifico si racconta la storia di una famiglia della Lucania, che mostra la «terra del rimorso» (Ernesto De Martino, 1961; l’etno-antropologo napoletano aveva cominciato le sue ricerche in Lucania e nel resto del Sud intorno alla fine della seconda guerra mondiale; e quindi rappresenta quello che avvia più che assorbire questo sguardo), segnata dalla poderosa emigrazione del Sud al Nord dell’Italia. L’iconografia è composta da una vedova rocciosa, granitica e dai suoi quattro figli adulti (solo l’ultimo preadolescente come del resto la Lucania stessa), che raggiungono il primogenito, già emigrato a Milano. La sceneggiatura è trasparente e forte (come la scrittura di Albino Pierro) e i personaggi, tutti di spessore terragno, innescano diverse storie personali interconnesse dal legame familiare; un legame messo sempre più alla prova dello “spaesamento territoriale”, dovuto al trasferimento improvviso da un ambiente fortemente poroso a quello urbano, nella capitale dello sfruttamento capitalistico e commerciale. L’apparente paradosso è che questo ritratto della metamorfosi di spaesamento, dovuto all’emigrazione improvvisa, sia stato individuato e costruito dalla coscienza borghese in crisi, che proveniva da quella concezione di dominio del territorio (i Visconti di Modrone hanno retto Milano dal 1277 al 1447). Il viaggio in Basilicata, in particolare a Matera e Pisticci, compiuto da Visconti, al culmine di una carriera artistica, si presentò necessario per prendere coscienza della materia territoriale del film, per selezionare tipologie terragne e soprattutto per fissare i tratti geognostici. Nel viaggio – solo apparentemente medializzato dal film ma interiorizzato in profondità e, dunque, molto più presente nella sua fisica abitazionale (ambientale) – Visconti fece emergere in pieno quella sua idea di «arte antropomorfica» che aveva già esplicitato nel 1943, tra le pagine della rivista Cinema. Ad attrarre la troupe di Visconti, e in particolare il direttore della fotografia Giuseppe Rotunno, sono i 236 scatti conservati nel fondo Luchino Visconti, della Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Visconti e Rotunno visitarono Matera e sovrapposero i loro occhi, in particolare, offrendo attenzione al «sasso caveoso», da cui emerge l’immenso materiale argilloso ritratto nelle tele di Carlo Levi, e si soffermarono nel «rione Dirupo», esempio di architettura spontanea contadina, grande balcone sul paesaggio geognostico. Doveva essere una location che nella sua territorialità smentisse l’in/territorialità dell’«orizzonte meridiano borghese», già smascherato da Rocco Scotellaro. Rocco e i suoi fratelli è pregno di «cretositá lucana»: il pane di Matera, la collana di aglio appeso nella cucina di Rosaria, il suo vestito nero pieno di spilli e spilloni, che memorializzano le nature morte da fattucchiera allaErnesto De Martino. La terra, insomma, vive nella mediazione mortifera della fotografia (direbbe Roland Barthes), una mediazione evocata da Visconti, nei 12 punti di illustrazione della “terragnità” neo-realistica: “Nella scena del medico […] a casa di Rocco […] si potrà mettere senz’altro quella formula magica, che è forse più il forte richiamo a un legame non sospinto con la terra d’origine” (vedi Cinema antropomorfico, in Cinema, nn. 173-174, 25 sett. 1943; Rocco e i suoi fratelli, a cura di G. Aristarco e G. Carancini, Cappelli, Bologna, 1960 e Visconti e la Basilicata, a cura di Teresa Megale, Marsilio, Venezia, 2007). 

La letteratura e il cinema della sfida deve essere associato al film e alla sceneggiatura della paura. Basta un’immagine per far tremare l’universo? Che dramma cosmico si apre davanti a noi in una sola riga di Rocco Scotellaro? Il cuore del vecchio demone lucano si mette a tremare. La funzione della sua roccia è di seminare interrogazione nel paesaggio: «io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia patria è dove l’erba trema». L’intellighenzia terragna della Lucania e di una nuova geologia. Nella sua storia di antichità ed esitazione allo sviluppo la terra Lucana s’è “avvicinata all’ideale messianico che la gioventù della resistenza conteneva potenzialmente in sé“, perché «impegnata» sul fronte più decostruito e ricostruito della «lotta sociale e sul piano più qualificato della cultura letteraria nazionale» (la riflessione è sulle parole di Calvino per Scotellaro). Una profonda contraddizione sentimentale, che rispecchia quella della società, solca lo sguardo del mio recente viaggio in Lucania e diventa motivo ricorrente dell’iter percorso tra le campagne e i calanchi: il contrasto tra origine e sviluppo, rassegnazione e insofferenza, paese e città, mondo degli sfruttati e degli sfruttatori, affezione e disaffezione. E anche nel rilievo dato dalla «parola geologica» delle «lucanie del mondo» al valore dell’armonia tra persone e natura, insito nella civiltà della terra, nel cammino del territorio, risulta evidente la dirompente attualità del sito Lucano. A queste condizioni, la contemplazione e il coraggio e il mondo contemplato è lo scenario di una vita da camminatore. 

La fotografia di esplorazione naturale segna le tappe della nostra idea di natura, le sue origini, il suo sviluppo a partire dall’affermazione della stessa macchina fotografica, si collocano in una nuova fase di documentazione, in cui, ancora una volta, lo spirito umano tenta di creare un’armonia con l’ambiente che lo circonda. Così, ad esempio, l’atteggiamento del Petrarca nei confronti della natura. Egli fu probabilmente uno dei primi intellettuali a descrivere quella relazione che spiega l’esistenza dell’occhio artistico di paesaggio: il desiderio di evadere dal caos cittadino, per trovare la serenità e la solitudine della terra. “Vorrei che tu potessi sapere” scrive in una piccola missiva, “con quale gioia io erro libero e solo tra montagne, foreste e ruscelli”.

I paesaggi come specchio di atterraggio lunare diventano arte grazie all’amore che li unifica e li solleva a un piano più alto di realtà, oltre l’occhio dei fotografi che sono passati per la Lucania. E, nel paesaggio naturale dei Calanchi, l’amore che tutto abbraccia è espresso dalla luce e dalle ombre dei piccoli canyon, che la fotografia non è in grado di tradurre. Non è casuale che questo senso della luce tragga origine da una scuola di “alluminatori” e appaia nelle iconografie del camminare che ritroviamo nell’andare a ridosso di Ferrandina, Craco, Stigliano, Aliano, Sant’Arcangelo, Senise, Valsini, Tursi e la riserva di Montalbano Ionico. L’unità di tono geoartistica, infatti, si raggiunge molto più facilmente in immagini letterarie, e l’intera scena può giungere alla lucentezza concentrata di un oggetto riflesso in un cristallo. In tutta la storia della letteratura, i paesaggi nati dall’osservazione diretta della natura sono di piccole dimensioni. Per diventare un esercizio autonomo, lo sguardo del viatico, al di là della fotografia, doveva conformarsi a quel concetto ideale che ogni artista e scrittore d’arte aveva professato al di là della riproduzione, a partire dal Rinascimento. Le intuizioni poetiche, così largamente coltivate nell’età antica e moderna, riprendevano e razionalizzavano l’atavica simpatia tra occhio umano e natura, un tema ricorrente nel viaggio in Basilicata. Un’espressione singolarmente pregnante della “corrispondenza” che postula la mentalità purovisibilista dell’osservazione “colta” si trova nel celebre sonetto di Ch. Baudelaire:

«La natura è un tempio, ove viventi colonne
Sprigionano a volte parole confuse
L’uomo attraversa come una foresta di simboli
Che l’osservano con sguardo familiare …» .

Nei contesti storico-archeologici più diversi, concezioni e pratiche di visionarietà poetica si fondano sul principio delle corrispondenze. I Calanchi o tutta la Basilicata,sono un’entità arcana, combinazione intelligente e dinamica di forze vive, che si esprimono in linguaggi naturali caotici. Posta tra la Campania, la Puglia, la Calabria ed affacciata per circa 15 km sul Mar Tirreno e per circa 50 km sul Mar Ionio, la regione deriva il nome dal fatto che al tempo dei Bizantini, una parte era retta ed amministrata da un funzionario Basilikos. Essa è anche detta Lucania, in greco λευκός leukòs (“bianco, brillante, chiaro”), in latino lux (“luce”) e in indoeuropeo leuk-, nonché “terra della luce”, lýkos (“lupo”), «hirpos» (“lupo”, o regione dei boschi). Per superficie (km 9.991) è una delle regioni con un indice di densità di popolazione bassissimo. Regione per il 47% montuosa, per il 45% collinosa e per il restante 8% pianeggiante, si trova adagiata – si può dire – sull’Appennino Lucano, e volge dolcemente al Sud, verso il mar Jonio, a mo di anfiteatro (dal greco anfi, intorno a – e teatro). Le cime della Basilicata sono poco elevate, brulle, dalla sommità quasi sempre tondeggiante e scosse talora da frane, prodotte dai bradisismi che qui sono molto frequenti. I Calanchi, selvaggi, affascinanti, scolpiti dal tempo,  sono cumuli montuosi argillosi, che si creano a causa di agenti atmosferici e, col passare del tempo, assumono un’espressione rugosa e tridimensionale, che testimonia di una terra prettamente arida, ma produttrice di naturali costruzioni scultoree. Nella regione lucana è possibile vedere i calanchi argillosi in più zone, tra cui: Montalbano Ionico, Aliano, Tursi e Pisticci. 

Nella letteratura e nell’arte si trovano innumerevoli tracce del grande sogno di appartenere non al mondo, bensì alla terra e alla roccia. Quante opere e quanti viaggi raccontano la gloria dell’architettura costruita sulla roccia e danno coraggio a chi vive fra le pietre.

Clemens Brentano ha partecipato anch’egli all’immaginazione del granito:

«Se disprezzi leggi eterne,
granito originario della società,
allora offendi il nocciolo della terra
che nelle montagne tende verso la luce».

Per Hegel, il granito è il nocciolo delle montagne, è il principio concreto per eccellenza. I metalli sono “meno concreti del granito”, “il granito è l’elemento più essenziale, la sostanza fondamentale alla quale si ricollegano le altre formazioni rocciose”. Questa preferenza per una sostanza formante in divenire, in quanto giudizio arbitrario, prova che Hegel si rifà a delle immagini. Craco: la città fantasma, è stata set di numerosi film come “Cristo si è Fermato a Eboli” del 1979, “La Passione di Cristo” del 2004, “Agente 007 – Quantum of Solace” del 2008, “Basilicata coast to Coast” del 2010 e altri, dove è stato istituito un Parco Museale Scenografico. Aliano: il paesino dove lo scrittore Carlo Levi trascorse il suo periodo di confino durante il fascismo, ambientandovi il suo più celebre romanzo “Cristo si è fermato a Eboli”, è il luogo in cui volle essere sepolto; un piccolo borgo arroccato su di un costolone d’argilla, che domina tutta la valle, offrendo una vista privilegiata sui calanchi. Invaso di Monte Cotugno: paesaggio naturale di verdi colline che si estendono a perdita d’occhio, che brillano sotto la luce calda del sole. Senise: un borgo a poco più di 300 metri di altitudine, che si sviluppa ai piedi di un castello medievale, in un intreccio di vicoli e gradinate che salgono e scendono, una cittadina, pietrosa, sospesa nel tempo. Ai confini tra i territori di Montalbano, Craco e Pisticci, si erge a strapiombo sulla campagna circostante un curioso e spettacolare sperone di roccia, denominato “Tempa Petrolla” (in dialetto P’trodd). Si tratta di un frammento di successione calciclastica disposto come un dolmen naturale in posizione verticale, in un bacino di mare profondo nell’era Terziaria, emerso in seguito all’orogenesi appenninica. La Tempa Petrolla sfida qualsiasi interpretazione, qualsiasi traccia universale, qualsiasi tempo che verrà. Nascono allora tutta una serie di relazioni con il materico, che giocano un ruolo importante nell’educazione di una volontà. Immaginare la pietra, come faceva Goethe, non vuol dire soltanto ergersi a essere incrollabile, ma vuol dire anche promettere di rimanere intimamente insensibile a tutti i colpi, a tutte le offese del tempo. Ogni grande espressione geologica è il modello di un territorio. Nella brevità di un viaggio nei Calanchi Lucani si può entrare a passo lento nel cuore della regione, nel suo paesaggio ancestrale, primordiale! In un solo verso un poeta può comunicare la nobiltà della materia dura: “Alcune parole preferite dalla mano: granito”, così scrive Janette Deletag-Tardif. Ecco una frase nella quale Georges Buffon indica le sostanze originarie del nostro viaggio nell’itinerario dei calanchi: “Bisogna comprendervi la roccia viva, il quarzo, il diaspro, il feldspato, la tormalina, la mica, l’arenaria, il porfido, il granito”. Viaggiando, l’occhio umano vuole conservare l’esperienza delle sue mani. Con queste parole sulle labbra, ascoltiamo il geologo Abraham G. Werner, che non esitava ad affermare che i nomi delle pietre sono le radici linguistiche primitive. Le rocce ci insegnano il linguaggio del territorio.

Sotto la polvere magica dello spirito dei Calanchi si compiono strane metamorfosi. Come scrive Ernesto De Martino: “Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale. E a questo villaggio terreno bisogna tornare non solo con il ricordo, ma qualche volta in pellegrinaggio (“ritornavo al paese/ col treno dimenticato …”), onde poter ritrovare “il fondo stabile” che strappa alla vera morte, a quella che colpisce in un mondo “che non è paese/il mio paese”: quella vera morte che inaridisce la sillaba sul labbro, e che solo il “paese del ricordo” può vincere, aiutando a parlarne nel discorso poetico e scientifico” (L’etnologo e il poeta, in Mondo popolare e magia in Lucania, a cura e con una prefazione di Rocco Brienza, Basilicata, ed. Roma-Matera, 1975, p. 97).

Carlo Levi confrontandosi con il territorio di Aliano scrive: “ … e d’ogni intorno altra argilla bianca senz’alberi e senza erba, scavata dalle acque in bocche, in cani, in piogge d’aspetto maligno, come un paesaggio lunare … e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come liberate nell’aria”. 

Luce, colore, boschi, rocce a picco sul mare, dolci colline che cedono il passo a bruschi calanchi, borghi arroccati sui colli e fermi nel tempo, castelli, torri, cattedrali e abbazie sono le inviolate e preziose testimonianze della storia umana e naturale, di una terra tutta da svelare come scultura spontanea.