Ghislain Mayaud

Il mediatore artistico: Ghislain Mayaud

Qualcuno mi ha detto un giorno che i condomìni sono un’invenzione del diavolo. Non sbagliava. Ne ho avuto la prova quest’estate, non tanto per i rumori molesti degli altri – sotto il mio palazzo c’è una discoteca sotto le mentite spoglie di una pizzeria – fortunatamente silenziati dalle misure emergenziali, quanto a causa dei miei. Pare infatti che i movimenti delle sedie della mia sala da pranzo arrecassero disturbo a un vicino sottostante, salito in processione alla soglia di casa in più di un’occasione a protestare. Peccato che, nella maggior parte dei casi, io fossi nell’appartamento accanto, da mia madre, rendendo i suoi lamenti proverbiali. I miei figli, che coi soprannomi non scherzano, lo hanno ribattezzato Feltrinelli: non come il famoso editore, ma come le spugnette antirumore da applicare alle sedute da lui tanto lodate. Che, a pensarci bene, non valgono i tappi per le orecchie, tipo quelli che si usano in piscina. Scherzi a parte, posto che i dialoghi tra le arti oggi somigliano a quelli tra me e il mio vicino, ho pensato di discuterne con l’amico Ghislain Mayaud: critico, poeta, curatore, docente di Accademia. Non vorrei essere nei panni dell’amministratore del condominio, ma se c’è qualcuno che per cultura, educazione, larghezza di vedute possa tentare una mediazione, questo è lui.

In che modo nozioni antiche come l’idea di morte e del suo superamento si declinano al presente, magari aiutandoci nella comprensione dei dilemmi più urgenti della società umana? 
Perché nozioni antiche? Direi, piuttosto, nozioni nascoste. Nell’immediato dopoguerra, in risposta agli orrori lucidamente programmati dal nazismo, l’Europa intera decide di pianificare per il futuro la cancellazione di tutte le gestualità legate al dolore. Il sacrificio, la morte, le loro simbologie, scompaiono dal tavolo dei futuri equilibri sociali. Si compra il petto di pollo tagliato a fette al supermercato come se fosse lattuga, ma si ignora volutamente l’autentico massacro industrializzato negli allevamenti. Artisti non indifferenti verso questo atteggiamento ipocrita, come Hermann Nitsch, maestro di performance abitate da numerosi rituali insanguinati, pronti nel richiamare sull’altare pittorico la crudeltà del sacrificio, evidenzia sulle pareti di gallerie o musei le testimonianze di atti oscuri, bagnati di inaudita crudeltà, svolti durante gli happening. Da non dimenticare il lavoro di Damien Hirst Il vitello d’oro, che consacra simbolicamente la morte ufficializzandone la sacralità. Ma esistono certamente atteggiamenti meno sonori, meno clamorosi, più intimi nella convivenza con la morte. È il caso di Salvatore Anelli, che insiste con le sue asciutte muraglie di crani dalle lingue d’oro nella speranza di raggiungere intimi dialoghi sepolti. Un’artista milanese, ma di origine tedesca, Gretel Fehr, fluidifica con la sua tipica ironia dell’assurdo legata alla patafisica di Ubu Roi la nozione di morte. Si tratta di una prima donna che sfida l’abisso con il sorriso delle sue opere. Sono rimasto profondamente colpito dal lavoro di Sonia Bellezza che provoca, con la sua pittura, ritratti di personaggi immaginari, che non esistono, che non possono morire, onde evitare ulteriori tremendi lutti. Il silenzio dei suoi luoghi immersi nella natura sopra il golfo dl Lamezia si mescola al silenzio spirituale corteggiato da urlanti sguardi dipinti. Ho la certezza che chi si preoccupa di creatività ha un sano dialogo con la morte versandone il dramma nelle proprie opere. 

Cos’altro sono in effetti le arti – tutte le arti – se non aspetti di un’unica conoscenza sensibile, di un sapere con il cuore? 
Tutto nasce dal cuore. Perfino la brutta pittura nasce dal cuore. Ma è necessaria l’elaborazione delle emozioni, la costruzione di un progetto sensibile e colto per installare dei segni che siano degni di un linguaggio artistico. Ma nella vita non vi è una sola tipologia di cuore, ve ne sono bensì innumerevoli, che dipendono dalla preparazione culturale, dalla spiritualità, dalla religione, dalla struttura psicosomatica dei singoli individui. Lo scontro dello spettatore con l’opera d’arte deve conservare uno stato di autenticità nelle sue emozioni meno epidermiche, visto che il lavoro artistico è soprattutto un grande laboratorio emotivo. 

Come tra gli uomini, anche tra arte e arte si stabiliscono particolari affinità; storicamente, giusto per fare un esempio, il doppio della poesia è la pittura.
Viviamo tutti nello stesso condominio: il pittore, lo scultore, il compositore, il poeta. Usiamo tutti lo stesso ascensore, le stesse scale. Abbiamo tolto i nostri muri. Giulio Carlo Argan sosteneva che la ritmica di un verso di Michelangelo era paragonabile alla ritmica delle sue facciate. Il fondatore della mimica contemporanea Etienne Decroux paragonava la tensione del braccio del David di Michelangelo alla tensione di un verso scritto da un poeta contemporaneo. La pittura di Henri Michaux non è installata sulla carta come la sua scrittura? La straordinaria produzione visiva di Victor Hugo non è degna della sua produzione letteraria? Quasi tutti i pittori del Novecento hanno vissuto la scrittura, da Matisse a Mondrian, da Kandinskij a De Chirico o Dalí. Da notare che a Parigi esistono delle librerie destinate ad accogliere unicamente libri scritti da artisti. Però non dimentichiamo che ciò che è il colore per l’Italia diventa parola scritta per il francese. In Italia nelle case non esistono salotti senza quadri. In Francia, di contro, non esistono salotti sprovvisti di librerie.

Il Trecento è stato il secolo della poesia, il Quattrocento della pittura, il Seicento della scultura, il Settecento della musica, il Novecento del cinema. E il secolo che abbiamo appena varcato?
Noto che nella tua domanda non è stato citato l’Ottocento, e hai fatto bene. Il nostro secolo ha nel Dna la frattura tipicamente ottocentesca per cui la nostalgia di vecchi equilibri va a urtare l’azzardo del presente e del prossimo futuro. Sembra che la rivoluzione industriale sposti i destini quanto la rivoluzione delle nuove tecnologie. Ho la netta sensazione che un uragano di convulsioni e lacerazioni assetato di cambiamenti radicali sia pronto a cancellare il passato. Lo stesso Enzo Sperone, in una intervista, è in attesa di risposte. Ovviamente la pittura rimane la volontà dell’epoca tradotta in segno e colore. 

Oggi è convinzione diffusa che tutto faccia arte. Ma questo non significa forse che l’arte in sé non esiste, essendo indistinguibile dal tutto?
Nietzsche sosteneva che Dio è morto. Aveva ragione, perché estromesso dalla nuova élite industriale. Argan teorizzava la morte dell’arte perché esclusa da una crescita sociale. Aveva ragione. L’artista rimane il testimone di sottili coincidenze che lo coinvolgono. È investito dalla fondamentale ossessione dell’inutile, come direbbe Duchamp. Ho scritto recentemente il testo del catalogo per la mostra di Auro & Celso Ceccobelli nel nuovo spazio &Art Gallery di Vicenza. Non si avverte più l’oggetto di partenza che dava garanzia e sicurezza al visitatore, ma ci si sente vicinissimi all’appartenenza dell’infinito. L’opera d’arte deve essere un divino passaggio di energia ed emozioni per assumere uno stato di risurrezione. 

Il vecchio Mao scriveva: “l’arte per l’arte, l’arte al di sopra delle classi, l’arte al di fuori della politica e indipendentemente da essa in realtà non esiste”. Passare dall’attuale sistema di speculatori e prostitute al pensiero unico e all’arte di regime non mi pare un gran guadagno.
Mao Zedong, per fronteggiare le urgenze del suo paese aveva bisogno di tutte le energie sociali disponibili. Dunque addio alle affermazioni di Nietzsche, au revoir alle certezze di Argan. Buongiorno compagno Giotto! 

Quali i lasciti – in positivo e in negativo – per il mondo dell’arte della crisi epidemica in cui ci dibattiamo?
André Gide, nei suoi diari di circa 2500 pagine, formato biblico, composti da due volumi nellaPléiade sfiora appena le gravi lacerazioni provocate della Prima e dalla Seconda guerra mondiale. La sua mente è altrove, nelle piccole cose del quotidiano. Non sono mancate le iniziative artistiche sui social, e non ho mai voluto partecipare a nessuna di queste manifestazioni virtuali, preferendo di gran lunga un distacco “gidiano”. Vivo già l’incubo della pandemia come padre e mi basta ampiamente. Tra l’altro coltivo da tempo a distanza i miei rapporti con artisti in tutta l’Italia (ma vivendo nel profondo Sud, dove tutto è già geograficamente a distanza), perciò l’isolamento non ha stravolto la mia vita più di tanto. Certo si viaggia poco, mi dispiace solamente la mancanza di fisicità nei contatti con l’artista e la sua opera. Sul piano collettivo, il conteggio quotidiano dei defunti da coronavirus nei telegiornali ha sicuramente risvegliato la consapevolezza della vita e della morte come atto sociale e non individuale, fuori dai suoi automatismi. Paradossalmente ciò può essere un bene, una spinta per la gente a uscire dai propri torpori. 

Come interpreti il tuo doppio ruolo di critico e poeta (o artista in proprio)? Vai spesso incontro a conflitti di interesse?
Non mi considero affatto un critico, ma reagisco di fronte a un’opera con la scrittura da cui scaturiscono queste forme di racconti, di novelle ottocentesche. Non ti nascondo che molti amici artisti preferiscono questo genere di scrittura alla schematizzata critica. Ho sempre reagito con la scrittura per organizzare le mie emozioni. La “penna” ha, infatti, il potere di guarire le lacerazioni dell’anima. 

Nel titolo del suo ultimo pamphlet, Pablo Echaurren ci invita ad adottare un artista e a convincerlo a smettere per il suo bene. Tu cosa ci consiglieresti per il nostro?
Pablo Echaurren ama il gusto del paradosso. È figlio d’arte, ha sempre vissuto nell’inquietudine della creatività. Ho provato ad adottare Bruno Ceccobelli, ma mi ha religiosamente risposto: “Ce n’est pas possible”.