Thea Djordjadze, oneissopublicandtheothersoprivate, 2019. Thea Djordjadze / VG Bild-Kunst, Bonn Courtesy Kunst Museum Winterthur and Sprüth Magers, Photo: Reto Kaufmann

Thea Djordjadze: all building as making

Il Gropis Bau dedica una personale all’artista berlinese Thea Djordjadze.

Il Gropius Bau ha presentato Thea Djordjadze: all building as making, una vasta mostra personale che esplora la mutabilità dello spazio, della memoria e dei materiali.

Questo settembre il Gropius Bau ha aperto la grande mostra della rinomata artista internazionale. Per la sua prima mostra personale nella città dove vive e lavora (Berlino), la Djordjadze presenta una serie di installazioni e interventi scultorei nello spazio che articolano il suo linguaggio materico distintivo e la sua precisa semiologia delle forme. Prendendo un’ala storica del Gropius Bau, il suo progetto ripercorre gli effetti duraturi, spesso inconsci, della memoria materiale così come viene rifratta attraverso le arti applicate, dall’architettura costruita attraverso tecniche di visualizzazione come vetrine. Nei suoi lavori, contraddistinti da una grande sottigliezza e da una sorprendente giustapposizione di materiali, la Djordjadze utilizza sia forme autonome, come nella scultura modernista, che tecniche di applicazione: moduli architettonici, plinti, piedistalli, vetrine e cornici. L’artista combina materiali come il legno, il metallo, il gesso e materiali tessili, creando degli ambienti spaziali frammentari che riformula secondo la sua ispirazione. Trasfigura le forme che riconosciamo nello spazio di tutti i giorni, oltre alle tradizioni artistiche e architettoniche. La sua nuova sequenza di lavori tocca la storia poco esaminata della Schliemann Hall del Gropius Bau, che dal 1881 al 1885 ospitò gli scavi archeologici dell’antichità del vicino oriente dell’archeologo del XIX secolo Heinrich Schliemann. Il nuovo progetto della Djordjadze si imbarca in una simultanea costruzione e decostruzione delle sensibilità formali che riconosciamo dalle arti applicate.

Il lavoro della Djordjadze, che solitamente non comprende riferimenti autobiografici, prende come punto di partenza le sue frequenti visite, negli anni ’80 e ’90, al Simon Janashia Museum nella sua città natale Tblisi, in Georgia. Lì, la Djordjadze è venuta in contatto con vetrine fatte a mano costruite dall’antropologo Alexander Javakhishvili e dal pittore Avto Varazi negli anni ’50. Queste vetrine museali sono poi diventate un importante punto di riferimento visuale per l’artista, soprattutto per via della sua attenzione alla scala dello spettatore all’interno di un contesto istituzionale altrimenti impersonale. In queste vetrine storiche la Djordjadze ha visto un’attitudine verso la rappresentazione visuale all’interno di istituzioni che comunicassero modestia, umiltà, provvisorietà e umanità, contro l’oppressione e la distanza istituzionale tipica dell’architettura dell’era sovietica. La decostruzione del potere, attraverso un’estetica della modestia, della limitazione e addirittura di stranezza, è il punto di partenza dell’artista per la sua ricerca sulla forma. Presso il Gropius Bau, la Djordjadze continua il proprio lavoro sul posto, in situ, portato avanti tramite un’intuitiva, distintiva e precisa considerazione del materiale e delle contingenze ambientali, come l’atmosfera o la luce. Nelle sue installazioni, ognuna delle quali è unica, nessun elemento è insignificante. È una scavatrice di stati d’animo, che mostra come rappresentazione visiva e sensibilità siano collegati. Se il lavoro della Djordjadze coinvolge attivamente il luogo della presentazione dell’opera d’arte, le sue installazioni non sono site-specific nel senso più comune del termine: piuttosto, l’artista cerca di creare una tensione tra contenitore e contenuto, spesso realizzando lei stessa le cornici o le teche. Quando vengono posizionati in un’istituzione come il Gropius Bau, i suoi lavori vanno a sfidare quelle che sono le convenzioni e le tradizioni delle esposizioni museali e dell’istituzione in generale.  

L’artista mette in atto forme fragili, mutabili: tutte quante sono soggette all’entropia, al decadimento e al tempo. Nelle mostre precedenti, la Djordjadze aveva spesso costruito le proprie installazioni isolando i propri lavori nello spazio. In questo caso, ci sono modi simultanei attraverso i quali lo spazio viene attivato e sfidato, messo in discussione. Il gesso sopra le finestre di vetro, le vetrine e gli altri elementi di cui sopra, l’utilizzo di elementi architettonici sui muri o negli spazi di una stanza. I suoi lavori mostrano le modalità tramite cui l’arte può mostrarsi e ritirarsi allo stesso tempo e come il passato, tramite il materiale, può essere proiettato nel presente. Parallelamente alla mostra vi è, dal 18 settembre, l’esposizione dell’installazione site-specific Ámà: The Gathering Place di Emeka Ogboh. Elementi scultorei e audio trasformano l’atrio della location in uno spazio di pausa e rituale.  

Dal 18 settembre 2021 al 16 gennaio 2022