Nel piano espositivo della Galleria Ceravento, giovane gemma incastonata nella città di Aterno, Porta degli Abruzzi e prossima alla seducente Pineta D’Avalos, è conservato quel soffio del mare che, dalle sue rive, avvolge i luoghi dell’anima marini di Giuseppe Vassallo.
Il ginepraio del tempo aggomitola il tortuoso aggregato uomo-natura per dipanarlo nella tacita liricità delle idilliache vedute, in cui lo sguardo melanconico-romantico della vita abita paesaggi pre-selenici. Sembra che, sin da prima della costruzione del Tempio del Re Salomone, sia stato segnato il termine dell’armonica unione tra l’individuo e i terreni floreali e faunistici, tanto cari a Venere. Forse il Custode del tempo (l’epilogo) segna la fine di quella tanto mirabile ecloga?
La risposta desiderata è nello sguardo bendato del primo uomo in Le conseguenze di una Chimera (Ritratto di Dafni). Nel processo ciclico dell’eterno ritorno, si rivolge il ciglio verso il disco portatore di energia onirica che interroga l’inconscio nella solitudine del desiderio dell’oltre. Il suo niveo chiarore, archetipo della Grande Madre, è principio di vita che scandaglia l’io nel suo rapporto con le proprie radici e con le relazioni con gli altri esseri.
Sotto l’universo magico e gnostico della luna, come in sogno, si rivela l’immagine di Dafni, figlio di Ermete e di una ninfa che si gettò, per amore non corrisposto, dall’alto di una roccia, come narrato dal Sommo poeta latino. Simbolicamente possiamo confinarne l’anima nella sua simbiosi con alti speroni rocciosi del paesaggio bucolico e idealizzato dell’Arcadia, in cui la natura era partecipe e solidale con gli uomini. Nel canto virgiliano, viene rievocato il dolore degli uomini e della natura dopo la morte di Dafni, nume tutelare di ogni comunità pastorale. Nella mostruosità ibrida tra uomo e macchina, è stoltezza dell’uomo attribuirsi la manipolazione genetica – consentita unicamente agli dèi – in segno di una violazione preoccupante di un equilibrio dalle conseguenze non prevedibili. Dunque, hybris (ὕβρις). Quale è il limite?
Certamente lo sguardo bendato non è riferimento limitato alla corrispondenza amorosa ma dilatato nel suo significato storico, secondo cui il legame tra la giustizia e l’occhio era innato, in quanto quest’ultimo raffigurava – come descritto da Diodoro Siculo – «il custode della giustizia» che lo stesso Cesare Ripa, nella sua Iconologia, effigiava con bilancia, spada e occhi bendati. L’uomo è poderoso nella sua nudità.
Olio su tela, 100×70 cm, Courtesy dell’artista
Olio su tavola, 35,5×22 cm, Courtesy dell’artista
Il nudo – che stava vivendo una nuova eclissi, come scrisse Berenson – ha ritrovato quel fiato tra realtà e idea che riesce a corroborare e trasmettere la convenzione rappresentativa della figura umana, seppur la lente praticata è quella della conoscenza attraverso l’analisi del pensiero per vie meditative che espongono i luoghi del ricordo e della vita quotidiani a una trasgressione privata, intima e distesa di uno sguardo silenzioso verso l’indomani.
Il canale, infatti, non è quello della perpetuazione sterile del classico, in quanto le pose sono pura trascrizione dei movimenti di un corpo malinconico e tutto teso verso l’osservazione del presente, in cui l’attitudine a un pacato raccoglimento, regolato dalla costante disciplina, veicola solo una similitudine con quella ieraticità armoniosa dell’età classica e neoclassica, rimembrando l’impossibilità di trascinare analoghe emozioni, oramai dissolte.
E sempre Berenson, in Vedere e sapere, sostiene: “… A parer mio, il nostro compromesso, il nostro canone riguardo alla figura umana sopravviverà alla ribellione che oggi infuria contro di esso”. Tuttavia, se questo discorso è praticabile in relazione all’azione avanguardista che frantumava e ricomponeva impietosamente il canone del corpo, oggi assistiamo semmai alla sua deformazione, a un suo sdoppiamento, e a tutto ciò che le intemperie del nostro contemporaneo stanno cercando di imprimere, anche attraverso il disfacimento della solidità del corpo arte, attraverso l’arte stessa. Si arriva, inconfondibilmente, alla distruzione del modello del passato per segnare una nuova corporalità che accoglie l’uomo post-pandemico e vicino alla nuova divergenza generazionale.
Così, quello del Nostro non può essere un corpo che recupera, in maniera asettica, il paradigma classico, neoclassico o romantico, quanto un corpo svuotato dal senso di piccolezza-grandezza delle epoche passate e collocato in un ‘non tempo’, in cui lo sguardo verso l’esterno è l’unico varco vitale. Il corpo è, dunque, un tramite per uscir fuori e poter togliere il velo che inebria l’interiore per aprirsi al mondo, in cui la propria sfera e stasi si attivano in un dialogo con l’altro.
Olio su tela, 45×35 cm, Courtesy dell’artista
Galleria Ceravento, Pescara 2024, ph. Iacopo Pasqui
In questi termini, acquista valore il fermo immagine della fotografia analogica che, senza essere riferimento pedissequo, è cristallizzato per poterne trarre il dettaglio ricercato come fertile fonte di atmosfere mentali fantastiche, dipoi concretizzate con una resa metafisica, non aliena dell’istantaneo sentire del proprio io.
È, invero, una fotografia in bianco e nero concettualizzante e che strappa dalla figura qualsiasi orpello. I paesaggi, fondali verosimili e immersivi ove si installano le finestre immaginifiche, sono dovuti ai suoi spostamenti lungo le coste della città natale, nel momento in cui avviene la contemplazione del mare e del suo orizzonte che il segno trascrive nella fluidità dell’inventiva, dando tangibilità a un mondo a sé stante.
L’artista afferma che la fotografia è come “un’esposizione interspaziale tra mondi ed epoche differenti, tra familiarità e disorientamento, e collocate come sospese in assenza di gravità”. Fondamentale è il rigore nell’impiego della luce che forgia, come in Vermeer, le sagome corporee, viene riflessa dalle stesse e modulata, secondo l’effetto che riproduce in natura a contatto con le diverse superfici.
Si riconoscono ora i corpi e i volti di opere (2024) come Dai silenzi acuti, Se potessi un giorno, tu, l’aria ed io, Zona d’ambra e Studio per una figura bagnante.
In posa serafica, si distende Nomos (2024), l’uomo che giace a metà tra realtà e olimpico raccoglimento introspettivo. Ma lo spirito delle leggi, degli statuti e delle ordinanze prende forma rispetto ai costumi dei popoli e di un tempo che, oggigiorno, sfugge alle regole sovrane. D’altra parte, già Erodoto nelle Storie (III, 38) testimonia come Pindaro associò il nomos al sommo sovrano, colui detiene il potere che nel tempo e a suo piacimento. Ma qui giungiamo ad interrogarci su chi sia l’abitante di Tra i preseleni, il più saggio (2024).
In un continuo vacillare tra i depositi delle tradizioni e la quiete di nuova meditazione è la gravità a cui è posta Sedimentarea, donna china su sé stessa e in dialogo tra la sua luce e la sua ombra.
Arriviamo ai due dipinti ovali che potrebbero formare un dittico contemplativo, in cui si sdoppia l’anima di Sedimentarea: se in Quel fuoco teme solo il ricordo, la donna deve distaccarsi dal passato per rivivere intensamente la fiamma di un nuovo cammino, in Un canto prima del nome, l’uomo sogna ad occhi aperti la beatitudine del suo presente.
Di superlativo splendore è Un giglio e la portata massima, in cui l’uomo sorregge il peso di una verginità innocente, consapevole che presto diverrà vestigia, di cui nutrire memoria e nostalgia, come quel “mare remoto e slavato” che vaneggiava dietro ogni malinconia di Cesare Pavese. La poesia della ricordanza assume una veste taumaturgica verso i travagli contemporanei, fino ad avvertire la disposizione nel licenziare quel velame di denuncia verso la dimenticanza del rispetto della favola della natura. Ed ecco che una Luna Parlafiore mormora l’oscura decadenza e la rifioritura come risveglio seguente Il giorno della metamorfosi.
Olio su tela, 40,5×22,5 cm, Courtesy dell’artista
Olio su tela, 70×60 cm, Courtesy dell’artista
(da sinistra: Un canto prima del nome; Quel fuoco teme solo il ricordo)
Galleria Ceravento, Pescara 2024, ph. Iacopo Pasqui
Orbene, su un piedistallo marmoreo, si erge, stretto in sé stesso, il suggello In sogno era una sfera bianca.
Olio su tela, 40×50 cm, Courtesy dell’artista
Olio su tela, 60×30 cm, Courtesy dell’artista