Nello spazio di Curva Pura, nel cui grembo pulsa il simbolo emblematico del quartiere Ostiense, è ospitata la mostra Un azzurro filare a gocce di Giulia Barone e di Livia Giuliani, curata da Serena Santoni, con un’attitudine a indagare filologicamente le calligrafie interiori dell’anima, per esplicitarne l’origine.
Come cardine della nostra essenza, in un volteggiare della vita, si presentano le opere delle artiste Giulia Barone e Livia Giuliani nella mostra curata da Serena Santoni, con una spinta che si connota per il suo essere crocevia tra il desiderio di rilevare ciò che ostico e una modalità che sposa il poetico e l’ironico. Come afferma la curatrice: il progetto di questa mostra è nato dal desiderio di portare attivamente nella scena culturale narrazioni e temi spesso considerati scomodi nella società contemporanea. Tutto il progetto della mostra è stato scandito da una ricerca poetica in cui le pratiche artistiche sono state mezzo per arrivare a conclusioni più intime e profonde spesso faticose da elaborare, ma necessarie nell’ottica del benessere dell’individuo… . Il visitatore si riscopre come soggetto sensibile, non solo in procinto di togliere il velo ai lavori ma anche per il suo essere coinvolto come fruitore per interrogare i suoi sé più reconditi, secondo un processo di attivazione richiamato dall’esposizione. Il dialogo ideale tra i due linguaggi si compenetra attraverso un andamento che pone, ai terminali di una linea immaginaria, le opere di Giulia e al suo opposto, tra cimasa e piede, quelle di Livia, tracciando un percorso che, inconsciamente, si potenzia nella parte centrale come punto focale di osservazione. La diramazione verso snodi individuali è dunque complice di obiettivi comuni, sorti durante un preliminare laboratorio arteterapeutico, condotto da Viola Marano, in cui si è sollevata l’importanza della materia acqua e di tutte le sue implicazioni nel nostro presente. Ambedue hanno riscontrato l’esigenza di trattare la goccia come espulsione, rigenerativa per Giulia Barone e distruttiva per Livia Giuliani. Dalla frase Cadi sopra completa, all’inizio tutto è azzurro, chissà cosa pensa il mare dentro di me, scaturita a quattro mani durante il corso, erano già stati rilevati gli elementi del corpo, dell’azzurro, della goccia e del mare come bacino di informazioni che, ricorrentemente, torna nella loro vita. Dall’incontro tra la genesi espositiva con le opere e le loro caratteristiche nasce il titolo Un azzurro filare a gocce, come meccanismo giocoso di disposizione delle parole, così originate. Nell’azzurro profondo, è dichiarata una sottile sinfonia tra l’utilizzo del vetro e del filo, nella loro duale consistenza materica e compositiva, che si tinge tanto di robustezza e di durezza quanto di fragilità e di duttilità.


La traccia di un’azione performativa di Giulia Barone apre alla prima fase di scoprimento dell’installazione Di sale, di seta, in cui la nostra stabilisce una congiunzione simbiotica tra l’animale razionale, l’uomo, e la più generale specie animale, producendo un dispositivo di protezione che, ontologicamente, collega i due generi in un unico cerchio d’azione o modus agendi. È in un abbandono del pensiero occidentale e di quanto Theodor W. Adorno sostiene nella Dialettica dell’Illuminismo che l’artista attua un approccio di confronto inclusivo, tramite un’immersione nella categoria che denota gli altri esseri viventi. In un’ottica relativa e diseredante la visione univoca e assoluta, tesa a riconosce la potenza nell’umano e il limite nel non umano, si sviluppa un’intenzionalità che assurge al metodo empatico per rimescolare le idee. Seguendo un disegno metafisico, vengono annullate le differenze strutturali e i rapporti di dominazione tra le specie, riflettendo sull’istinto consapevole. Gli istinti vengono classificati in due categorie, quelli della conservazione dell’individuo e quelli della preservazione della specie, di cui alcuni sono perfetti automatismi, mentre altri dimostrano di seguire un’adattabilità a diverse circostanze dovute a un ragionamento e a una consapevolezza da parte dell’animale. Già George John Romanes, abbracciando l’assunto, secondo cui le facoltà psichiche di grado superiore nascono dall’evoluzione degli istinti, asserisce che l’istinto è un atto riflesso in cui c’è un elemento di coscienza. Il termine è dunque generico e comprende tutte le facoltà dell’anima ch’entrano in gioco nell’atto cosciente e adeguato, anteriormente all’esperienza personale… . La metamorfosi dell’individuo, in una società altamente eterogenea e multiforme, è assimilata a quella animale, come lo sono i diversi comportamenti derivati. Il nostro atto di creare è pari a quello della secrezione di un filamento di seta della falena Bombyx mori, formato dai venti ai trenta strati concentrici di un unico filamento ininterrotto. Liberandosi dalle paure e dalle imposizioni proprie dei dettami di una società educata in specifici paradigmi, l’artista si misura su un piano meditativo con la struttura spaziale e protettiva del baco, apportando un parallelo tra i confini fisici dell’habitat umano e animale che talvolta, coerentemente con quelli mentali, subisce uno spostamento reso con la rotazione dell’opera che appare sempre diversa e in crescita. Tuttavia, il raffronto ricercato si muove all’interno del civilizzato per intercettare l’io interiore che, similmente al bozzolo, opera un accrescimento silenzioso e impercettibile agli occhi. Proprio come la seta grezza è rafforzata dalla sericina per garantire la resistenza del filamento, così il sale è componente, sin dall’antichità, per il mantenimento nel tempo di materiali serbati dall’uomo. Nell’opera, è la parte fotografica a restituire l’idea di persistenza nel tempo, e in particolare la carta warmtone della Ilford che trattiene, al suo interno, un alto numero di sali d’argento, rendendo possibili le diverse tonalità dei grigi, i loro contrasti e un bianco mai assoluto. Come documentato dalle cinque fotografie analogiche, il procedimento di costruzione è avvenuto con il coinvolgimento interno del corpo e con l’impiego di ventotto rotoli di fili di cotone, in relazione ai 300/900 metri di seta intessuti dall’insetto. Gli altri materiali sono il legno e i fili di ferro, anch’essi scelti per la loro duttilità e per la predisposizione alla trasformazione. La struttura scheletrica è stata tagliata, al fine di permettere l’ingresso dell’artista, un suo conseguente isolamento e distanziamento dal mondo per ingenerare la riflessione. La volontà dell’utilizzo del bianco e del nero, oltre a ricordare il colore chiaro della falena, esprime una poetica che mira a un’essenza tematica e a un’essenzialità formale, in cui i tagli, le luci e le ombre chiariscono i passaggi elaborativi del prima, del mentre e della fine. Successivamente, la presenza della fisicità corporea è eliminata per essere ricordata solamente nell’atto creativo, stabilendo un invito all’interazione con i visitatori.


L’azione performativa che interviene, all’interno del processo creativo, è intuibile anche dalla sottile linea blu dell’orizzonte marino di Sospeso, opera composta da cinquanta cianotipie in vetro, retroilluminate e installate su un supporto di legno. Il titolo fa riferimento alle cianotipie, idealmente sospese, per dare forma al tempo lungo che hanno guadato prima di essere state scelte, e al ripristino concettuale della sospensione del baco. Il vetro solidifica e cristallizza la fugacità della sostanza dell’acqua in movimento, pur non trattenendo una certa alternanza di differenziazione di texture che, contrariamente, la rievoca. Le fotografie sono state eseguite in Puglia, in un tratto di fondale marino lungo approssimativamente un chilometro. L’artista diventa coreografa di un’esperienza visiva che trasforma la strada esplorata in un momento di ricerca di immagini astratte e fantastiche, al livello formale ed espressivo, per il fruitore. Come un sinuoso filamento di lacrime che si disperde dalla terra, si rapprende la materia basale in tutta la sua carica simbolica rigenerativa. Avvicinandoci al blu dell’antico procedimento di stampa fotografica, tendiamo subconsciamente a ricondurre oggetti dal profilo casuale a forme conosciute, per l’illusione pareidolitica. La scelta del vetro, al posto del classico supporto per la cianotipia, deriva dal voler ammettere, nel risultato finale, l’errore come testimonianza della manualità, anche inclusa nella fase di stampa a mano. Ossimoricamente dialogano le due opere, ambo sospese ma in cui nell’una la micro-forza trova espressione nel suo aspetto ciclopico, nell’altra la macro-forza viene rinchiusa in un piccolissimo formato, ribaltando così la prospettiva della loro potenza intrinseca. Il luogo invita, ancora una volta, alla contemplazione.
Analogamente a Di sale, di seta e Sospeso di Giulia Barone, le opere di Livia Giuliani sono trattate secondo l’Estetica relazionale – teorizzata da Nicolas Bourriaud – per il metodo critico e per il modo di approcciarsi all’arte, condiviso dalle due artiste. Il criterio, maggiormente esperito, è quello di coesistenza che permette ai visitatori di esistere nello spazio dell’opera, praticando l’arte come luogo di immagini, oggetti e di un attraversamento fisico ed emotivo, legato all’uomo che partecipa alla stessa vita del lavoro, come in Morsi e Rimorsi. Nella progettualità dell’opera, infatti, pur se non nella fase di creazione ma in quella di interazione, è richiesto l’intervento esplicito dell’osservatore che, seguendo le indicazioni trascritte dall’artista e visibili nell’installazione ove sono state collocate anche le forbici, è spinto a compiere l’azione di tagliare un filo. Nello spazio del lavoro si intrecciano, secondo un’inclinazione stabilita site-specific dall’artista, una selva di fili di nylon tesi a voler evocare quello stato di eccitabilità che causa malessere, se procrastinato nel tempo. Con un realismo grottesco e con un riso amaro, seguendo le parole Pensa a un rimorso, taglia un filo, si procede verso la logica dell’effimero, in opposizione a ciò che permane, esibisce un ordine e una conformità apparenti. La natura dell’intenzionalità che prevede l’annichilimento dei lavori, contro l’idea più ampia che l’opera conclusa debba essere conservata, restaurata e commercializzata, modifica tutta una serie di valori, tra i quali la fruizione stessa.


Sfruttando un archivio iconografico atemporale, attraverso la tecnica digitale, l’artista fonde le immagini rappresentative dei soggetti con la scrittura frammentaria, su lastre di vetro dal perimetro sinuoso e difforme tra loro. Sul piano della pavimentazione, si distende una giocosa processione di minuti e azzurri coccodrilli che portano in salvo, nel loro ventre, il prezioso tesoro di una lacrima solidificata, stabilendo il moto di ingresso e di uscita, pertinente all’area installativa. Il rimorso è un’emozione provata nell’istante in cui ci si attribuisce un’azione incoerente, rispetto al codice morale personale. Tuttavia, provare un senso di colpa è indice di uno stato d’animo adattivo che rivela la salute psicologica del soggetto, suggerisce di rivedere e modificare il comportamento, le azioni e i valori. È quindi una pausa temporale di ragguardevole e impegnativa autoriflessione. Ciò comporta lo sviluppo dell’autoconsapevolezza nell’assestamento della personalità, volto principalmente alla socializzazione. Differentemente dal rimpianto, causato dal non aver agito e connotato dall’esperienza della perdita, il rimorso si manifesta a seguito di ciò che è stato fatto, e qualora non venga provato, è sintomatico di un disturbo antisociale di personalità. Quando il medesimo tramuta in una vergogna paralizzante, ne deriva un vortice che trattiene la persona dall’agire nel presente. La nostra, dunque, adduce la recisione di un filo che si distingue per il suo essere invisibile come i moti dell’anima. L’irriverenza dell’opera ragiona sulla finzione del senso di pentimento, rammentando il mito delle lacrime di coccodrillo, diffuso nella cultura popolare europea, secondo cui i rettili, dopo aver divorato le prede, fingerebbero di provare rimorso. La loro lacrimazione, invece, è dovuta a motivi puramente fisiologici per facilitare il movimento della seconda palpebra che li protegge in immersione, e per espellere i sali accumulati nel loro organismo. Gli elementi dell’acqua-lacrima solidificata in vetro, del sale e dell’ammissione della vulnerabilità umana come motivo di crescita continua e di conseguente rafforzamento dell’essere mettono, in parallelo, le opere in mostra. Il tema scomodo dell’autoriconoscimento di un errore commesso, durante il corso dell’esistenza, e il lavoro che si dovrebbe conseguire per il miglioramento personale sono argomenti che cagionano un turbamento tale da ritenersi timidi e deboli, due aggettivi decisamente sconvenienti per l’odierna società. Livia Giuliani usa il collage digitale, tecnica flessibile nella realizzazione di ciò che si propone come risultato estetico finale. Sulla stampa su vetro sono riportate le filastrocche in un testo sempre scomposto, smembrato e mai completo, con la finalità di voler omettere parte del racconto, per lasciare una personale comprensione al visitatore. Quando il filo si spezza e il vetro cade, rompendo l’immagine e la scritta, si mette in moto un processo che verte a risolvere il rimorso. Tra i soggetti rappresentati vi sono statue classiche, il mare, il sangue ma anche parti del corpo umano dislocate e tratte sia da Internet sia da foto scattate dall’artista che li trasforma, fino a renderli non riconoscibili e a concentrare l’attenzione su un singolo dettaglio. L’azzurro è il ricordo, il sogno, la parte più eterea e liquida come lo sono le lacrime viste al microscopio e che hanno strutture differenti tra loro, in base alla causa che le ha generate. Il bianco e il nero segnalano, invece, la parte tangibile, fisica dell’uomo, i sensi con cui si esplora e si elabora l’esterno, nel mondo reale. All’interno della composizione si riconosce un’assenza del colore che richiama una sottrazione mentale, rispetto al ricordo. Un pugno chiuso vicino a una mano aperta, i denti come unica parte visibile dello scheletro umano e somiglianti a un ponte, un uovo che si rompe, un corpo che abbraccia una lacrima gigante, un fiore ribaltato i cui pistilli sono lacrime autonome che ascendono invece di discendere, sfidando la gravità, sono tutti simboli onirici che viaggiano nell’immaginario della nostra. Il repertorio non è solo attuale ma anche classico, come nel caso del recupero della fiaba L’usignolo e la rosa di Oscar Wilde, in cui si racconta che l’usignolo, pungendosi il petto, tinge le rose di rosso.


Su una mensola, installata sulla parete di ingresso, il rumore del cadere delle gocce, all’interno delle cinque scatole cubiche in plexiglass trasparente, è tanto silente quanto lacerante e autodistruttivo per la materia in pasta di zucchero che compone l’opera. Il modulo del cubo ha permesso all’artista di poter agire, sia nella verticalità sia nell’orizzontalità, fino al termine del lavoro. L’apertura sul lato maggiormente esposto al visitatore dona una limpidezza al ciglio. Come i canali lacrimali, piccoli fori praticati sul lato superiore, lacrimano. Lo scorrere delle gocce, inizialmente forte e incalzante, rallenta sul finale, proprio come avviene durante il pianto. Tra le immagini sulle cialde, scorgiamo le mani di un’anziana con lacrime e altre mani che, prolungandosi, sono accostate all’enunciato, e anche titolo dell’opera, Asciugami sempre ti prego, per far riaffiorare il potere consolatorio della mano della figura femminile che, nella nostra esistenza, ci ha dato conforto. Il disfacimento della pasta, operato dal centro, non vuole avere una valenza negativa, quanto piuttosto una significazione liberatoria e mirata alla trasmutazione in qualcos’altro. Il pianto senza soluzione, né rimedio, è ironicamente descritto nella filastrocca, in cui la nostra racconta che da bambina piangeva più del dovuto, tanto da procurarsi una grande stalattite sul mento, fino a quando un signore anziano le suggerisce di non pensare alla protuberanza ma alla lacrima: perché, per come e quando ha avuto inizio?/ È sempre nel principio che si individua il vizio. Quanto trascritto, in questo singolare gioco di parole, chiude l’andamento dell’allestimento in maniera ciclica, portando alla luce quanto sia fondamentale indagare l’origine-causa di un problema, piuttosto che ignorarlo o protrarlo.
GIULIA BARONE E LIVIA GIULIANI | UN AZZURRO FILARE A GOCCE
a cura di Serena Santoni
fino all’8 settembre 2023
CURVA PURA – Via Giuseppe Acerbi 1A – Roma
Aperto il giovedì dalle 18.30 alle 21.00; altri giorni su appuntamento
Mail: curvapura@gmail.com
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