L’Arte Astratta negli anni ’50 era uno scandalo in Italia; chi la comperava era un pazzo che non capiva niente e che buttava via i soldi per acquistare cose di nessun valore. I più refrattari erano proprio i più interessati alla cultura e non potevano sopportare che fossero considerate opere d’arte esempi che ne erano la negazione stessa. Proprio in questo clima si stavano formando giovani generazioni di artisti che nei decenni successivi ruppero definitivamente l’antico legame con la bottega delle belle arti per dedicarsi al calore o alla freddezza della materia viva.
Proprio negli anni ’60 iniziarono a dilagarsi in Europa tutta una serie di tendenze e gruppi artistici che negavano la pittura. La Minimal Art americana “riduceva al minimo” la realtà che diventava anti espressiva, impersonale, emozionalmente fredda e oggettivamente elementare. Poi in Francia, il Nouveau Realisme che utilizzava materiali usati quotidianamente nella vita di tutti i giorni per fare arte. A differenza del Dada storico e del concetto duchampiano di ready-made, gli oggetti non venivano mantenuti integri, ma venivano riassemblati, impacchettati o frantumati dando loro nuova forma e nuovo significato. In Germania, il Gruppo Zero per le sue caratteriste poteva rientrare nell’ambito delle tendenze ottico-cinetiche che si stavano sviluppando anche in Italia. Zero si allontanava dalla pittura e scultura tradizionali per servirsi di nuovi mezzi espressivi offerti dal progresso scientifico e tecnologico. Ai colori a olio degli artisti astratto-informali, sostituirono metalli, plastica, superfici riflettenti e dispositivi meccanici. Infine, in Italia, si formò l’Arte Povera alla cui base si fondava la presa di coscienza delle possibilità espressive insite nella materia vegetale, animale, minerale e nei processi mentali elementari.
Nel momento in cui la pittura sembrava essere morta per sempre, come l’araba fenice, rinacque dalle sue ceneri. Infatti, all’inizio degli anni ’70, in Italia si formò la tendenza analitica che puntava a salvaguardare la pittura tuttavia ridefinendola se non addirittura rifondandola strutturalmente. Tutta la materia è viva, dunque l’artista si deve mettere al servizio della materia ed essa costituisce anche il semplice colore che viene steso sulla tela.
Giorgio Griffa e Riccardo Guarneri, se pur attraverso due linguaggi profondamente diversi, analizzarono le componenti materiali della pittura (tela, cornice, materia, colore e segno) e del rapporto materiale che intercorre fra l’opera come oggetto fisico e il suo autore. La differenza tra i due linguaggi appare lampante all’interno del ben riuscito allestimento presso gli spazi della galleria Kromya di Lugano.
Giorgio Griffa ha sempre creduto nell’intelligenza della pittura e ha messo la sua mano al servizio dei colori che non sono però più stesi su il comune supporto della tela. Essa viene completamente smembrata, destrutturata e liberata dal telaio diventando per così dire metafora della pittura come scelta razionale di liberazione. L’artista studia attentamente i colori che vengono stesi creando segni ancestrali, tribali, divenendo in sostanza puro gesto. La sua pittura è il simbolo dell’incontro tra ragione e libertà. Egli infatti non vuole rappresentare nulla, vuole soltanto dipingere al di fuori dei confini. Quest’ultimi non sono altro che dei costrutti mentali che impoveriscono le potenzialità umane. Giorgio Griffa fonde totalmente il segno e il colore ma questa unione non va a creare caos, al contrario le tele sono pervase da un forte ritmo musicale. Caratteristica che lo accomuna se pur in maniera diversa, alle opere del coprotagonista di questa mostra.
Riccardo Guarneri parte proprio dalla formazione musicale. Inizia a dipingere per caso e per caso trova quindi la strada che avrebbe poi perseguito tutta la vita. Egli nasce a Firenze e dalla storia della sua terra sarà sempre influenzato. Infatti, la sua prima tavolozza cromatica pervasa dai nordici grigi e bruni freddi, si scalda, nel ricordo dei maestri del ‘300-‘400 toscano, quali il Beato Angelico, Piero della Francesca e Masaccio, solo per citarne alcuni. Si noterà che alcuni tra i suoi quadri più ricercati ed evocativi, sono quelli che Riccardo Guarneri dedica proprio al Beato Angelico.
Opere definite “a lento consumo” dallo stesso artista. Le geometrie che caratterizzano i suoi lavori non saranno mai matematicamente simmetriche e mai poste al centro della tela. Esse si dissolvono evanescenti, lasciando il posto al vuoto e trasformandosi in pure trasparenze luminose, in tracce cromaticamente e segniche appena visibili. Le delicate figure si dirigono verso i margini, fino a tratti a uscire dal telaio, caratterista tra l’altro in comune con i lavori di Giorgio Griffa.
Quando ci si trova davanti alle opere di Giorgio Griffa e di Riccardo Guarneri, si riconosce la cosiddetta “Grande Arte”. Due linguaggi che si sono evoluti fino a oggi rimanendo sempre attuali ma coerenti, seguendo come recita il titolo del catalogo dedicato alla mostra, il principio del cambiare per rimanere se stessi.
Siamo davanti a due autori che hanno dato vita a dei veri e propri “paesaggi dell’anima”, dove ognuno di noi potrà riconoscere sé stesso in una diversa sfumatura.