Gianmaria De Lisio

Gianmaria Delisio intervistato da Lorenzo Kamerlengo per The Hermit Purple, Luoghi remoti e arte contemporanea su Segnonline.

Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.

Personalmente ritengo il/la maestro/a un pressupposto fondamentale alla crescita. Per alcuni di loro (da qui parlerò al maschile ma mi riferirò ad entrambi i sessi) non è necessario (o in alcuni casi impossibile) conoscerli o incontrarli. D’altra parte chiunque o qualsiasi cosa ha un insegnamento da dare. E’ impossibile parlare di un solo maestro senza fare un torto interiore a tutti gli altri. In generale nel corso degli anni si sono palesati a me almeno due tipi di maestri. Quelli che per semplicità definirò positivi o buoni sono legati al passaggio di conoscenze inizialmente pratiche (come disegno, pittura, suonare uno strumento, battere una punizione, attaccare un chiodo, trovare un proprio linguaggio) che poi si diffono su più piani. Questi maestri consentono un reale sviluppo e permettono una crescita armonica ed esponenziale. Dall’altra parte ci sono i cattivi maestri e i loro precetti più o meno distruttivi, la cui gestione interiore ritengo personalmente estremamente interessante. Questi maestri, loro malgrado, sono tendenzialmente volti ad una lezione di vitale importanza. Comprendere il loro insegnamento profondo permette un salto profondo e di divenire altro attraverso uno scarto altrimenti impensabile. Non avviene tramite riflessione ma come conseguenza ad altre circostanze.

Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore? E perché?

La mostra finale del workshop di Franko B. E’ entrambe le cose. Mi stimola idee diverse e varianti possibili che avrei potuto mettere in atto ma, d’altra parte, lavoro ancora sulle riflessioni da cui è nata. Stavo cercando una sorta di punto 0 della performance. Non produrre oggetti ma compiere un’azione che mi ponesse al limite delle possibilità del linguaggio. Che mi portasse su un piano di astrazione dalla realtà pur rimanendovi. Espolare una sorta di spazio super-reale dato dall’azione performativa. Per tutto il tempo della mostra ho girato negli spazi mentre gli altri artisti realizzavano le loro performance. Avevo il volto coperto di terra. Un pò militare, un pò weird. La questione è legata ad una ricerca di totale semplicità che ribalti la realtà e la rifletta nella sua assurdità performativa.  L’idea era quella di girare soltanto, camminare negli spazi della Foundry e non parlare con nessuno. Era un’idea rischiosa che poteva avere diverse reazioni. Volevo espormi e mettermi in difficoltà, attraverso la vulnerabilità e l’ambiguità di un gesto effimero.

Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?

La ricerca è strutturale e attiva. La ricerca è ovunque, sempre. Le difficoltà date da un’isola deserta sarebbero quindi il materiale. Un ottimo materiale. La cosa interessante è sempre innescare in qualche modo un processo trasformativo. La questione sarebbe comprendere le possibilità comunicative e, di conseguenza, se avesse ancora senso innescare un processo di esternazione artistico o cercare di viverlo e basta.

In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?

Vivere tra crisi, totale libertà e impossibilità a muoversi significa confrontarsi con la propria ombra. All’inzio sono stato male, strano. Avevo bisogno di uscire ogni giorno. Poi ho ritrovato il mio tempo, un tempo più disteso, calmo e disciplinato. Ho letto tanto, suonato, ascoltato musica e visto film come mai prima. Ho meditato e mi sono ubriacato, perchè bisogna essere equilibrati. In generale, come è successo a molti (almeno da quello che ho letto un po’ ovunque), questa interruzione (come una piccola morte) mi ha riportato a me stesso, ha tolto dai miei bisogni tante cose inutili e compulsioni societarie varie. Il domani è incerto come mai prima e allora qualsiasi pensiero controproducente cade. L’unica cosa che conta sono le relazioni e la propria forza di volontà. Fare, fare ciò che conta… che ci spinge, ci tiene vivi… e, in fin dei conti, fottersene un pò. il resto sono chiacchiere.