Attilio Scimone, Terra

Fotografare il tempo: Attilio Scimone

Prosegue il colloquio con Attilio Scimone in margine alla sua mostra La terra metafisica, presso palazzo Moncada a Caltanissetta sino al 23 gennaio 2022.

Possiedi un grandissimo archivio. Ti è mai capitato di confrontare foto vecchie e nuove del medesimo paesaggio?

Tra il 1989 e il 1993 ho prodotto, per un lavoro paesaggistico, una serie di immagini con apparecchi fotografici di grande formato, 1500 fotografie in bianco e nero e a colori. 

In quel periodo non era ancora possibile utilizzare il sistema GPS, che mi avrebbe permesso di verificare con assoluta precisione le coordinate di ogni scatto; ho quindi segnato gli angoli di ripresa delle singole fotografie su carte topografiche IGM 1:25000. Sarebbe adesso possibile ripetere esattamente e dallo stesso punto di ripresa tutte le immagini di allora. Non penso però che il paesaggio del centro Sicilia sia cambiato molto, la vocazione cerealicola è rimasta pressoché invariata, le aree coltivavate a carciofeto sono sempre quelle e così è per il resto del terreno agrario. Anche a livello infrastrutturale i cambiamenti sono minimi. Solo in prossimità dei centri urbani le varianti si fanno consistenti.

Per quanto riguarda invece le mie immagini di archeologia industriale delle miniere di zolfo dismesse della Sicilia, molte strutture fotografate tra il 1986 e il 1994 sono ormai dismesse, saccheggiate, collassate o addirittura inesistenti. Il confronto non sarebbe quindi che un inventario di ciò che è rimasto in piedi. 

Sia come sia, i paragoni non sembrano interessarti più di tanto.

Ti faccio un esempio. Ho fotografato negli stessi anni, 1986-1994, la valle del Fiume Salso Imera Meridionale, il più importante fiume siciliano che nasce nelle Madonie per finire il suo percorso nella città di Licata, dopo avere attraversato gran parte del territorio della ex Provincia di Caltanissetta. Le fotografie sono state realizzate per ricostruire esattamente quel territorio: puntuali nelle descrizioni, nelle tonalità e perfettamente a fuoco.

Adesso è in fase di realizzazione un nuovo lavoro dal titolo La Valle del Fiume Salso-Imera Meridionale. Sto realizzando questo progetto utilizzando sempre apparecchi analogici, ma la mia visione è completamente nuova. Questo è il senso della mia fotografia: non esiste qualcosa di ripetitivo, tutto è in evoluzione.

Guardare significa “prestare attenzione”. La scelta del bianco e nero può essere d’aiuto?

Farei subito una distinzione tra guardare nel senso che non include necessariamente l’idea di vedere e la parola stessa vedere nel suo significato di ricevere stimoli esterni per mezzo della funzione visiva. Vedere significa percepire e ciò ci porta subito all’idea di prestare attenzione e riflettere. La fotografia in bianco e nero è perfetta per questa prima considerazione in quanto, per leggerla, siamo costretti a un’astrazione, dal momento che il reale noi non lo vediamo in bianco e nero, ma a colori. Tra l’altro le possibilità di intervento nella stampa in bianco e nero sono quasi infinite. Per esempio: ampia facoltà di scegliere il tipo di pellicola da utilizzare, di selezionare la qualità della luce, di intervenire su sviluppi della pellicola o della carta differenziati, di utilizzare carte di stampa con varie tipologie di contrasto o addirittura di emulsionare carte particolari, di differenziare le temperature di lavoro per lo sviluppo delle carte e delle pellicole e il tipo di luce dell’ingranditore da utilizzare per stampe più o meno morbide, etc. 

Certe tue foto in bianco e nero sembrano simili a dipinti, a incisioni.

Da un certo momento in poi ho iniziato a ragionare da incisore. Voglio puntualizzare che per il tipo di fotografia che esprimo adopero pellicole di grande formato ed apparecchi fotografici a visione diretta. È la pellicola di grande formato che mi permette di intervenire direttamente su di essa, incidendola come una lastra di zinco. Da qui il mio concetto di pellicola/tavolozza.

Dopo un lungo periodo di sperimentazione, ho iniziato a praticare un procedimento chimico-fotografico che ho battezzato grignotage.

In cosa consiste?

Si tratta di asportare e quindi togliere dalla carta fotografica stampata le zone molto esposte alla luce, quelle visivamente più scure e nere. Il risultato finale è un’immagine molto simile ad un monotipo, in quanto unica e non editabile.

Questa pratica sperimentale mi ha consentito di veicolare una nuova idea di immagine fotografica, non legata al momento che normalmente coincide con l’idea stessa dello scatto fotografico. 

Nelle mie fotografie di Still life, paesaggio, architettura e ambiente cerco di vedere quello che voglio vedere (mi scuso per questa ripetizione). In un certo senso vado sempre alla ricerca di immagini che ho già in mente e che nella mia visione sono già fotografate.

Che cosa consiglieresti a un giovane che intenda intraprendere la tua stessa professione?

Oggi non ho più le certezze che potevo avere sino a qualche tempo fa. Passare da un sistema analogico ad uno digitale inizialmente sembrava un percorso lento e anche poco credibile per via della scarsa qualità dei file; e tuttavia, come sappiamo, le cose sono andate diversamente. Fotografare sarà anche più facile, ma la professione di fotografo era e resta un’altra cosa. Pertanto, fatta la tara degli appassionati, i consigli che darei a chi vuole intraprendere un percorso professionale sono essenzialmente questi: scegliere una scuola di fotografia molto qualificata; non dimenticare che la fotografia ha una sua storia analogica e che il digitale deve essere assolutamente dominato e sottostare all’idea progettuale del fotografo; valutare con attenzione le opportunità professionali offerte dal territorio dove si vuole operare; scegliere accuratamente un settore o più settori compatibili tra di loro; sfruttare al massimo le piattaforme digitali; guardare sempre al mondo della fotografia artistica in tutte le sue forme (vedi ad esempio il nuovo mondo NFT). 

Attilio Scimone, Untitled