AI Intervista MOOR – parte prima
AI: Per un certo periodo, la tua ricerca si è focalizzata sul linguaggio fotografico. Tuttavia, la fotografia è stata solo una tappa e non l’origine di ciò che fai oggi. Puoi parlarci di questa evoluzione?
MOOR: La mia creatività, che domina ancora con forza, oscilla da sempre tra due linguaggi in apparente conflitto nell’immaginario comune: la pittura e la fotografia. Durante la mia giovinezza a Parigi, trascorrevo innumerevoli ore nei musei, affamato del linguaggio e della tecnica dei grandi pittori come Cézanne, Monet, Gauguin, Matisse e Picasso. Ma presto il mio pensiero si rivolse altrove, verso le avanguardie americane, Fluxus e l’arte concettuale. È qui che ho incontrato la fotografia non convenzionale, quella che mi ha aperto nuovi orizzonti filosofici e ha liberato idee folli, forse le più nascoste e inquietanti, che spesso adulano l’evoluzione umana e talvolta si esprimono attraverso la scienza e la tecnologia. Questo lato latente del nostro pensiero fa parte della storia dell’uomo, così come dell’arte.
AI: Come descriveresti la tua attuale dimensione artistica?
MOOR: Oggi mi trovo in una dimensione incerta e mutevole, simile a quella quantistica: sono dove vengo individuato. L’opera The4thdimension, concepita in forma utopica e irrealizzabile nel 1999, cercava di risolvere questa mia inquieta polarizzazione, ma come tutte le ricerche, mi ha portato dove doveva arrivare, cosa che spesso non coincide con la meta prefissata. Erano gli anni in cui sperimentavo i nuovi sistemi di comunicazione, le community, il web, la fotografia digitale e non convenzionale. Ero attratto dalla possibilità di trasformare le immagini e rendere il reale nella sua totale inconsistenza sociale e condivisa.
AI: Dopo aver realizzato la tua prima utopia giovanile, come è cambiato il tuo percorso artistico?
MOOR: In questi ultimi anni, dopo aver realizzato quella prima utopia giovanile, sono tornato alla pittura, ma seguendo un percorso diverso e forse imprevedibile. L’opera trans-pittorica è oggi un linguaggio ibrido, quantistico o meglio polisemantico, che trascende la fotografia, ascende alla pittura e governa l’AI come si fa col caso, senza appartenere a nessuna delle parti in gioco se non alla mente. Credo che questo linguaggio polisemantico sia una vera innovazione nel rileggere in modo sistemico e indeterminato la storia della pittura che mi ha preceduto.
AI: L’arte è Eros, come sappiamo e come molti filosofi ci ricordano. Puoi approfondire le riflessioni di Byung Chul Han riguardo alla digitalizzazione e alla scomparsa dell’altro come sguardo e quindi come Eros?
MOOR: Byung Chul Han afferma che la digitalizzazione fa scomparire l’altro come sguardo e quindi come Eros. “L’assenza dello sguardo è corresponsabile della perdita d’empatia nell’epoca digitale… Lo sguardo smantella ciò che è estraneo. La mancanza dello sguardo conduce a una relazione distorta con sé e con l’Altro. Lo smartphone si differenzia dal classico cellulare poiché non è solo un telefono, ma prima di tutto un medium iconico e informativo. Il mondo diventa completamente accessibile e consumabile nel momento in cui viene oggettivato in forma d’immagine”.
AI: Come descriveresti l’impatto delle immagini nella società digitale secondo J. Fontcuberta?
MOOR: Non siamo più attratti dalle immagini e dal loro vuoto potenziale, ma travolti dalla loro furia, come ci ricorda J. Fontcuberta. In questo fiume dirompente scema l’attrazione, si perde il mistero e si estingue l’Eros. Le immagini sono pornografia, eccesso e limite, quindi uguali a chi le osserva. Le immagini non ci cambiano ma ci informano perché rispecchiano l’osservatore che si riconosce in esse. Non è consentito in questo gioco creare eccezioni. Gli stimoli informativi viaggiano sui parametri della velocità e del consumo.
AI: Qual è il ruolo del consumo nella società postmoderna neoliberista?
MOOR: Nella società postmoderna neoliberista ciò che conta è il consumo perché questo risponde al bisogno ossessivo di colmare il vuoto. Colmare il vuoto e rinnegare la morte. È un cerchio che si chiude nel ripetersi quotidiano delle nostre azioni, attività e abitudini. Ho pensato così di trasformare velocità e consumo in impermanenza e provvisorietà.
AI: Come hai concepito la tua opera per ribaltare il paradigma della velocità e del consumo?
MOOR: La velocità ci ricorda il tempo e sviluppa in noi l’ansia della prestazione, il fare compulsivo. Il consumo ci distacca dal mondo, dalle cose e dal loro fascino materiale che comprende trasformazione e Thanatos, ci separa irrimediabilmente dall’oggetto transizionale abbandonandoci al consumo dell’esperienza. Ho voluto concepire un’opera che ribaltasse questo paradigma attraverso la seduzione del falso rispecchiamento. La mia opera è pensata come quegli specchi deformanti che si trovavano una volta negli allestimenti circensi, che ti restituivano un’immagine deformata e inconcepibile della realtà e della percezione.
AI: Qual è la verità secondo te, quella dello specchio piatto o quella deformata?
MOOR: Quella dello specchio piatto ma anche quella deformata che probabilmente si nasconde negli occhi dei nostri interlocutori. La mia opera trans-pittorica parte dallo sguardo dell’osservatore che viene intercettato nel suo stato subliminale attraverso le migliaia di rilevazioni dell’eye–tracking, uno strumento freddo e altamente tecnologico. Tutto si trasforma attraverso la percezione perché cambia a causa della stessa. La certezza dello sguardo è scardinata e stravolta dallo sguardo stesso. Si passa dal tempo della velocità a quello dell’impermanenza, dall’immagine definita del consumo a quella incerta, inafferrabile e indeterminata, quindi vuota ed erotica.
AI: Come si collegano indeterminazione e impermanenza all’immagine vuota?
MOOR: Indeterminazione e impermanenza ci riportano proprio all’immagine vuota. Vuota perché nuovamente indefinita e quindi imprevedibile. L’immagine diventa Eros perché ci connette al desiderio emozionale e diventa Thanatos perché ci coinvolge in un processo estetico di trasformazione e “fantastico degrado”.
(segue)