Elena Bellantoni. La terre est bleue comme une orange

Fino all’8 dicembre lo spazio indipendente 16Civico di Pescara propone al pubblico la mostra “La terre est bleue comme une orange” di Elena Bellantoni

Il mare si è scocciato

16 Civico è uno spazio non profit diretto da Christian Ciampoli a Pescara: un appartamento saturo di vite, con angoli domestici alternati a spazi per l’arte contemporanea. In questa cornice così intima, dopo le prolungate chiusure, Elena Bellantoni ha inaugurato la sua personale La terre est bleue comme une orange (fino all’8 dicembre), un titolo tratto da una poesia del surrealista Paul Éluard.

La mostra presenta quattro video-performance nel quale il mare è un alter-ego, co-protagonista nelle azioni condotte dall’artista. Per l’inaugurazione, Bellantoni ha presentato anche una performance inedita dal titolo “Il mare si è scocciato”. Nella stanza vuota, Bellantoni gioca con una palla di gomma arancione (palese riferimento all’arancio eluardiano), indossando bracciali/rotoli di scotch che le disegnano braccia costruttiviste. La palla impazza per la stanza, con rimbalzi imprevedibili nello spazio: la metafora della terra fuori controllo. Ma a un tratto l’artista la posa, domata, sull’ideale disco del calcio di rigore e sfila i bracciali. Qualcosa sta per accadere. I rotoli sono di scotch blu del tipo anti-infrangimento, materiali da registrar per le movimentazioni e i prestiti, iconico oggetto di protezione delle opere. Compaiono anche rotoli di scotch giallo. Sulla pagina bianca della parete, Bellantoni stende scotch a righe orizzontali e parallele.

Il naturale gesto fuori-bolla della mano ne disegna delle onde. Ma la risultante linea dell’orizzonte, che è di mare, non si contiene ed esonda sulle altre pareti, accede alla cucina, agli spazi di vita domestica, agli arredi e avvolge tutto, inclusa la palla, che diventa blu. La linea contiene e protegge da una parte, dall’altra separa e segrega come sulla scena di un crimine. Un segno che crea uno spazio tridimensionale o forse irrompe in nuove dimensioni. Lo scotch giallo è alfabetizzato e scrive un testo rispettando le righe incerte: “Il mare si è scocciato”. Semanticamente il soggetto non può reggere questa emozione. È un cortocircuito tanto quanto la similitudine della terra blu come un arancio. Ma nella costruzione grammaticale, funziona perfettamente. Su questo registro ci porta Elena Bellantoni: sulla rottura dei rapporti di forza della lingua, che in un attimo diventano rapporti di relazione fra le persone, rapporti spaziali, ma anche prevaricazioni, privazioni di libertà di movimento e immaginazione e sul rapporto appassionato fra la parola e il gesto, fra l’intelletto e il corpo. L’azione inedita è preludio al viaggio nella quadrilogia del mare, che si articola in un arco temporale di sette anni di carriera (2013-2020), fra la Patagonia e la Puglia.

Quattro volti del mare

Il mare, elemento estetico centrale, protagonista indiscusso delle quattro opere, è un soggetto agìto, in qualche modo antropizzato, con il quale Bellantoni si relaziona rispettosamente e dolorosamente, compiendo in parallelo un viaggio nel proprio Io, che è singolo ma anche collettivo, cogliendo spunti dall’attualità della storia del nostro Paese. Bellantoni ha prodotto quattro video-performance, senza legarle volontariamente fra loro, per poi rendersi conto negli anni che il confronto con l’elemento naturale è una sua costante. Il mare sottolinea la fragilità dell’essere umano, il suo affanno nel sopravvivere, la sua violenza usurpatrice, la sua paradossale ricerca di superamento che si tramuta in virulento parassitismo distruttore, ma anche il suo rimpianto di creatura squilibrata fuori dalla natura. Le diverse angolature con le quali l’artista si rapporta al mare sono coerenti fra loro: un mare ritratto come estremo, minaccioso, nero, selvatico, incombente – che richiama Il dialogo della Natura e di un islandese di Giacomo Leopardi – in Patagonia (HALA, YELLA adiòs/addio, 2013, Capo Horn), dove nessun essere vivente compare aldilà dell’elemento e dove il fruitore vive un’esperienza di devozione e rispetto attraverso gli occhi dell’artista.  Un mare melodrammatico (Maremoto, 2016, costa siciliana), colorato alle prime luci dell’alba, che diventa testimone di un incontro impossibile fra una donna, che insensatamente vuole attraversarlo in bicicletta, perdendosi fra i flutti in cerca di qualcosa/qualcuno, e un uomo, dalla bellezza esotica e straniante, che recita una litania incomprensibile (babelica) cercando risposte che non ci sono. Un mare in lutto (Ho annegato il mare, 2018, Palermo), che legge la cronaca nera di una città che si è venduta al calcestruzzo e alla violenza, privato del respiro, il quale fronteggia una piccola pellegrina che cerca il riscatto attraverso il rito della memoria su una torre di avvistamento, spingendo faticosamente – come un novello Prometeo – il suo grave fra le fratture della costa negata. Infine, il corpo a corpo fra la donna e il mare (Corpo morto, 2020, Tricase), inedita versione di Hemingway, dove l’ancoraggio è placenta che rimette in connessione i piani dell’Io, travolto dalla storia e dalla cronaca della sua ambigua malvagità di Caino.

Il risultato sono messaggi chiusi nella bottiglia, che giungono fino alle mani del visitatore per destarlo, con la grazia del moto circolare delle onde, con il sospiro del mare nella conchiglia, “che a pensarci ti vien voglia di pensare” come gli occhi pieni di sale che cantava Rino Gaetano. E forse dalla Calabria degli Anni Settanta, durante le estati d’infanzia, arriva questa educazione del mare, fatta di luci abbacinanti, di magnifica natura, ma anche di brutture delle speculazioni edilizie e disparità sociali. Già nel 2014 con l’opera La città sale, eseguita sul litorale salernitano, Bellantoni sperimentava l’assurdo, nel tentare di raccogliere il sale dal mare, creando una montagna. Il riferimento del titolo a Boccioni traduce la riflessione sulla brulicante volontà di trasformazione ed elevazione dell’uomo rispetto alla natura.

Il linguaggio

Il gioco delle parole è il grimaldello rivelatore, in coerenza con la cifra stilistica di Bellantoni, per la quale il linguaggio è un giacimento inesauribile di immaginari e significati. L’artista ricorre ai giochi di senso, ai salti semantici, alle figure retoriche. La parola contribuisce ad ampliare lo straniamento verso l’azione di cui si è testimoni. Questo procurato disagio apre gli occhi sull’affanno dell’esistenza, sui rapporti di forza, sulle brutture antropomorfe contro la meraviglia della natura. È una parola incarnata, fisica, visiva, che procura fatica, sosta, ripensamento, sia che sia suscitata nel gioco della relazione con il fruitore, sia che sia data dall’artista in prima persona. Bellantoni vuole preservare le parole dall’estinzione, fermarne l’omologazione, metterle in sicurezza tramite la loro incarnazione agìta col suo corpo, con il quale si sottopone a prove coraggiose e disperate, nello stesso modo di un’eroina epica incaricata di un’alta missione. Nel mare patagonico, l’ellissi di àntropos aumenta la bellezza della natura sovrana; la declamazione alienata sortisce l’effetto dello straniamento, per il quale noi sulla costa rimaniamo attoniti di fronte al naufrago/profugo che emerge con estrema naturalezza dalle spume del mare, inforcando la bicicletta per andarsene, forse a lavorare. La confessione corale in cima alla torre o nel fuoricampo, di fronte al silenzio profondo dell’interlocutore in ascolto, acuisce la litote di ciò che “non c’è più”, del paradosso di annegare ciò che non può essere annegato. Le voluminose lettere di materiale espanso color arancio sgargiante sono metonimia di corpi galleggianti, che i media ci hanno disumanamente “abituati” a vedere nei servizi televisivi, intorno ai quali si cerca di ridare poesia e significato.

La performance

La performance di Bellantoni è debitrice del cinema delle origini, dove l’azione si drammatizza nell’assenza di parola e nell’espressività eccessiva dei corpi e dei gesti. Nel caso dei quattro video performance della quadrilogia del mare, si assiste all’escamotage espressivo del paradosso: l’artista si sottopone a sfide sproporzionate, dove la fatica e il fallimento sono compagne di avventura, che da un momento all’altro potrebbero prendere il sopravvento, aiutata anche da oggetti inusuali: l’abbecedario di HALA YELLA; la bicicletta di Maremoto; la torretta di Ho annegato il mare; il gozzo di Corpo Morto. I rimandi sono evidenti ad attori come Buster Keaton o Charlie Chaplin, ai quali Bellantoni assomiglia col suo corpo minuto, l’espressione dolce e disarmata, l’abito nero, la scarpa stringata, i gesti inutili, faticosi, maldestri. Non si tratta di corpo sessuato, prevaricato, femminista. L’artista cerca la tensione del gesto. In questo senso, si rivolge anche alle azioni dei performer degli anni Settanta, come Jan Baas Ader, che con le sue cadute, i pianti sconsolati, fino all’attraversamento fatale dell’Oceano Atlantico con una barca di sei metri, ha cercato il dramma, la rottura, l’esatto istante in cui l’azione provoca la tensione dell’irreversibile.

La regia

Elena Bellantoni è attrice e regista di sé stessa. Nonostante questo, non scade nell’autoreferenzialità ed esibizionismo pur scegliendo il suo corpo come filo rosso delle sue narrazioni, mantenendo un controllo algido nella sceneggiatura. Anche per la costruzione dell’immagine video, l’artista rimanda a registi come Tarkovskij in primis, nell’uso dei piani sequenza per dare l’impressione del distacco dell’osservatore, a Dreyer nei tagli diagonali che accentuano la distorsione di ciò che si osserva. I primi piani, si alternano ai controcampi e campi lunghi nell’avvicendamento della presenza umana alla presenza del mare. Bellantoni calibra la sua prospettiva “da dentro” in prima persona, mantenendo il più possibile l’occhio distaccato del testimone: l’idea è fare un opportuno passo indietro, per chiamare in causa il fruitore e lasciare la libertà dell’interpretazione.

Mai un errore le parole non mentono

Italo Calvino sosteneva che “la poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”. E in un certo senso anche la quadrilogia del mare di Elena Bellantoni, a cui si aggiunge la veste di poesia visiva, attinge a questa consapevolezza paradossale. Lo dimostra il titolo che l’artista ha scelto per la mostra al 16 Civico che, come si diceva, si riferisce a uno dei versi della poesia del surrealista Paul Éluard La terre est bleue comme une orange, del 1929, dove i rapporti di forza presenti nel linguaggio sono resi evidenti. Con la stessa volontà di sovvertimento, Bellantoni rivendica il suo portato di rottura: la normalità è il nemico, mentre l’assurdità è il traguardo. In quegli occhi pieni di sale sulle coste calabresi, l’artista ha trovato la sua chiave per aprire le porte dell’immaginario e ha lasciato che la voce del mare le sussurrasse segreti paradossi dell’esistenza.

La tua mente è piena di sale,

la tua mente è piena di sale,

di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare

di quel sale che a pensarci ti vien voglia di pensare.

(Rino Gaetano – I tuoi occhi sono pieni di sale)