Scrivere un testo in occasione della bipersonale Kounellis / Nitsch. The Theatral Moment, curata da Lorand Hégyi presso la Galleria Umberto Benappi di Torino, è come andare in bicicletta l’attimo dopo l’aver staccato le rotelle: si è consapevoli che, per non perdere l’equilibrio, bisogna continuare a guardare dritto e pedalare per non incappare in un capitombolo clamoroso, specialmente se la strada da intraprendere pare vietare ogni via di accesso alla critica. Mi riferisco, in particolare, alle parole pronunciate da Kounellis nell’intervista con Carla Lonzi, poi confluita in Autoritratto (1969): «Mentre il critico è un mediatore di azioni, ma questa è interpretazione in per sé proprio no? È un falsificare le cose, diventa l’interpretazione dell’interpretazione, no? Allora che significa, infondo, E chi è il critico? Un divulgatore di idee? Chi può essere, no?»
A leggere tra le righe questa riflessione, mi ritrovo ad accennare un sorriso malinconico. Il ruolo della dialettica risiede nella continua interdipendenza e interazione fra le parti. Non esistono solo monologhi, per fortuna. È certamente vero quanto sosteneva Kounellis: il critico fonda i suoi enunciati su presupposti interpretativi, aggiungendo significati fino a dare il via a quel processo basato su aggiunte sovrastrutturali che alla fin fine si allontanano dalla verità più pragmatica: «perché l’artista», servendomi ancora delle sue parole, «il minimo che fa, fa una cosa e quello lì che critica una cosa non è nessuno, no?»
Per fortuna o per condanna, nonostante si possa sostenere questa tesi, bisogna sempre contestualizzarla al tempo in cui è stata avanzata. Era il 1969, infatti, anno in cui quelle stesse sovrastrutture avevano bisogno di essere ribaltate. Ormai nel pieno della creatività, Jannis Kounellis, affiancato parallelamente dall’energia creativa di Fabio Sargentini, gallerista e mecenate, stava destrutturando la stessa convenzione ideologica del fare artistico. La vita, con Kounellis, irrompe nel luogo d’arte, lo stesso che la critica conservatrice preservava gelosamente con l’alibi della “classicità” accademica, tipicamente italiana, ormai sentita come vecchia e stagnante.
I dodici cavalli alla Galleria l’Attico, i sacchi di juta riempiti alla Kunsthalle di Berna lo stesso anno (Live in Your Head: When Attitude Become Form, 1969); le performance nella stagione napoletana (1979); le carcasse di carne appese con un gancio di metallo sulla superficie pittorica a Barcellona (Senza titolo, 1989); o ancora le opere più mature nel processo di maturazione linguistica, insistono non tanto sulla desacralizzazione dei “costumi” dell’arte, codificati soltanto nell’esaltazione del medium pittorico e scultoreo, quanto più sulla raffinatezza che il pensiero artistico possa arrivare a generare. E se Kounellis, in conversazione con Lonzi, combatteva politicamente, tra le righe, per spogliare l’atto artistico di quella sacralità austera e codificata, al punto da liberarla e renderla performante, negli stessi anni Hermann Nitsch introduce l’azione nel fare pittorico, la stessa che, sebbene costringesse il medium ad impoverirsi nel linguaggio e nel segno, sulla scia impositiva del dopo guerra, riporta, di contrasto, un’ulteriore forma di sacralità, nell’archetipo dell’atto rituale.
Ad oggi in questi primi anni ‘20, invece, proprio a causa della rassegnazione conseguente al soggettivismo diffuso, “figliol prodigo” di un padre ex sessantottino ormai imborghesito, e alla perpetua proliferazione delle interpretazioni, manca l’attenzione per quei valori che, nonostante lo scorrere del tempo, rimangono universali; è più che necessario, quindi, un approccio alla critica basato non sull’asserzione di merito, figlio di un sistema prevalentemente plutocratico, quanto più, invece, sull’interrogazione circa i valori da trasmettere nel tempo e sulla necessità di portarli con sé, in questa metafora dell’Arca, senza stare troppo a questionare sul chi è stato a interpretarli o chi a pronunciarli.
Arrivo al punto. Affiancare due personalità come Nitsch e Kounellis, e riviverle, ri-porta alla luce l’importanza della raffinatezza intellettuale, intesa come acutezza di pensiero, di riflessione filosofica, espressa attraverso il fare artistico. Tenendo in considerazione la serie di opere portate in rassegna, A Theatral Moment sceglie, per entrambi gli artisti, una raccolta di lavori prodotti all’incirca negli ultimi trent’anni (1983–2016), gli stessi che determinarono la ricerca dell’«unità» come una formalizzazione strutturale del linguaggio pittorico nel primo (Kounellis) e dell’origine delle cose per mezzo della pittura, attraverso la compresenza di Immanenza e Trascendenza nel secondo (Nitsch).
In entrambi viveva l’esigenza concreta di concepire un atto rivoluzionario mediante la pittura, senza mai snaturarla totalmente nella sua natura ontologica e rivolgendole invece una totale devozione. Appendere un gancio sulla superficie pittorica e riporre un elemento organico come il legno, o inorganico come il ferro, i sacchi di juta con il carbone o le putrelle (Senza Titolo, 1988 – 2016) – e quindi dipingere con l’oggetto piuttosto che con la pasta pittorica – risponde alla volontà di ricercare nella misura un fondamento archetipale come l’espressione «una nuova classicità di ispirazione modernista» (Ludovico Pratesi, 2019). L’assemblaggio e la vitalizzazione di oggetti, che Kounellis spoglia dalla loro funzione originaria per concepirli nella loro potenza scultorea e inserirli all’interno della superficie pittorica, risponde a un’idea di pittura non tanto assimilata a reminiscenza di un’ideologia post-minimale, quanto piuttosto a un’adesione e ad un coinvolgimento catartico per mezzo della stessa.
E se in Kounellis l’energia potenziale della catarsi si esprime nella concretezza materica degli oggetti, Hermann Nitsch ripone nella condivisione di intenti dell’atto rituale il principio fondamentale di un’estasi creativa, espressa proprio per mezzo dell’ontologia stessa della catarsi. È una rivoluzione della pittura sentimentalmente filosofica che l’artista Viennese si impegna a portare avanti, servendosi della drammaturgia. Nitsch sfrutta l’arte come medium filosofico, il cui unico fine è la ricerca dell’Essenza, in un continuo fluire ciclico fra l’immanente e il Trascendente. In sintonia con il tachismo viennese e con lo sviluppo della pittura dell’O.M.Theater, Nitsch oltrepassa i limiti del solipsismo informale, e la catarsi individuale, per recuperare una dimensione rituale collettiva finalizzata alla scomparsa del divenire e all’apparizione dell’essere.
È nella crocifissione, ad esempio, che vediamo la divinizzazione, poiché il corpo ormai caduto del defunto ha permesso l’ascesa eterna del suo doppio, l’immagine, che Nitsch celebra sostituendo la presenza corporea con l’assenza; il corpo sopravvive nella traccia, nelle vesti sacrali corrose e contaminate dalle colature del pigmento di colore nero sulla tela (Schuttbild, 1997). E da qui avviene la percezione simbolica. L’atto corale, e quindi quello rituale, è la trasposizione di tutti quegli ordinamenti e quei valori che sorreggono una comunità. Il simbolo è il segno di riconoscimento che lo spettatore e il partecipante dell’atto corale identificano, non solo nell’azione partecipata della pittura d’azione – e quindi nella creazione delle colature sanguigne (Pittura dell’O.M. Theater, 1984) – ma anche nell’intensità dinamica del sentimento del gesto della crocifissione, il cui “mettere insieme” e “legare” (symballein, dal greco, e religere, da latino) rappresenta una continua allusione alla colpa umana, che attraverso la superficie pittorica, segnata di colore, si purifica dalla sua condanna. È una libertà illusoria che si spoglia del compiuto, ma non della sua reminiscenza. La pittura di azione di Nitsch è una pittura rivoluzionaria, con una forte carica vocazionale, dove la superficie della tela si fa pergamena di verbi visivi sacri e di intensità drammatica esplicata nell’atto corale. Nel riconoscimento insito nella percezione simbolica, parafrasando Gadamer, l’occhio «vede il permanente nello sfuggevole». E se il mondo volta le spalle al simbolo per abbracciare l’informazione, A Theatral Moment riporta l’attenzione sulla forza salvifica ed enigmatica dell’opera d’arte, nel suo porsi come testimone di verità e di valori archetipici e universali.
Concluderei questo testo con le parole dello stesso Nitsch, in occasione di un’intervista con Beatrice di Benedetti: “L’arte è sempre molto vicina alla religione. L’artista è come un prete. Il suo ruolo di celebrante non è differente. Entra in contatto con l’Essenza. Forse perché, come me, l’artista vive con intensità la vita. Mentre oggi, la maggior parte delle persone ha paura della vita quanto teme della morte”.
Kounellis/Nitsch A Theatral Moment
A cura di Lorand Hegyl
28 ottobre 2023 – 9 Dicembre 2023
Galleria Umberto Benappi
Via Andrea Doria,10 Torino