Se c’è un artista sul cui lavoro sarebbe vano provarsi ad applicare delle etichette stllistico-ideologiche precostituite questi è Ettore Spalletti Chi, ad esempio, fosse tentato di definirlo minimalista per via della sua tendenza a servirsi di forme geometriche elementari sarebbe subito contraddetto dal fatto che tali forme non vogliono in nessun modo presentarcisi come equivalenti neutri di una costruzione mentale sintatticamente orientata verso l’elementare ed il prevedibile, ma sono piuttosto dotate ciascuna di una sua sicura personalità individuata dal rapporto forma-colore-materia.
Chi invece, volesse considerarlo un pittore di stretta osservanza analitica, pensando alle grandi superfici monocrome che egli spesso e volentieri appende alle pareti dei luoghi dove espone, dovrebbe immediatamente rimangiarsi la proposta a causa dell’evidente ruolo che in queste opere assumono fattori di tutt’altra ascendenza come il rapporto tra il tipo di luce selezionato e il dato naturalistlco-ambientale o l’emergere quasi impalpabile, ma comunque ricercatamente concreto, di raffinate valenze tattili e gestuali.
Al limite nel caso di Spalletti è persino difficile stabilire se siamo di fronte ad un pittore o ad uno scultore. Le sue forme tridimensionali, infatti, non sono colorate, ma sostanziate di colore, mentre i suoi dipinti hanno innegabili valenze plastiche come l’orientamento rispetto al piano della parete, la varia sagomatura dei bordi e il rilievo coloristico dato allo spessore del supporto. Né le cose cambiano introducendo categorie di riferimento come quelle di installazione o di environement, poiché sempre irrinunciabile rimane, per una corretta lettura del lavoro, il soffermarsi da parte del fruitore sulla plasticità delle forme e l’intensità della coloritura. Una modalità di ascolto partecipativo del manufatto che ci ricollega alla grande tradizione rinascimentale italiana ripensata alla luce dei suoi esordi fondativi tardo quattrocenteschi con la loro illuminazione ferma e la loro solida costruzione ancora non tocca dalle estenuate meditazioni simbolico letterarie della generazione successiva esoterica e neoplatonica.
La cosa più sorprendente, però, è il fatto che questa sorta di imprendibilità, di difficoltà a circoscrivere e classiffcare la ricerca del nostro artista non si basa affatto sulla discontinuità e il mutamento, ma, al contrario, ha come suo punto fermo, come sua base d’appoggio, teorica ed esistenziale ad un tempo, una costanza di poetica tra le più tenaci e convincenti dell’intera scena artistica nazionale ed internazionale dei nostri giorni.
Anche qui, tuttavia, sbaglierebbe chi pensasse ad un comportamento autocostrittivo, ad una serie di vincoli formali ed operativi stabiliti in partenza e testardamente mantenuti in omaggio ad una formula astrattamente ideologica. Niente di tutto questo, Spalletti riesce a fare cose di volta in volta diverse pur proseguendo sempre nella stessa direzione semplicemente perché non tende ad una situazione di equilibrio ideale ma parte da una situazione di equilibrio reale posta in essere e verificata passo dopo passo con estrema attenzione.
La cosa diviene particolarmente evidente nella ampia personale allestita nei locali del MAXXI a Roma, quale contributo di questa istituzione alla grande rassegna che ben tre primari musei italiani hanno voluto dedicare all’artista abruzzese – gli altri due sono il MADRE di Napoli e la GAM di Torino – una mostra sapientemente calibrata in cui tutti gli elementi caratterizzanti e qualificanti del suo modo di operare, la morbida delicatezza delle tinte rosa, celeste, grigio (e loro combinazioni e declinazioni), la preziosa semplicità dei materiali (legno sagomato, alabastro, foglia d’oro, impasto a valenza pulviscolare dei pigmenti), nonché la sottile fermezza del dato progettuale (che non è mai più mentale di quanto non sia concreto), sembrano agitate da un soffio costante e leggero che non scompagina nulla e non crea imbarazzi, ma genera piuttosto dialogo alzando il tono del discorso e aumentandone la verità di articolazione con un moto ad un tempo cosi spontaneo e così sicuro da far sì che lo stesso spettatore provveda da sé a regolare in crescendo anche la definitezza delle proprie domande e l’ascolto di ogni possibile risposta.
O forse sarebbe meglio dire di una serie concatenata di risposte che in occasione dell’esposizione romana Spalletti ha voluto spingere oltre i confini fin qui praticati dalla sua ricerca, annettendosi anche il territorio dell’architettura grazie all’installazione centrale che da il nome all’intera mostra, una camera quadrangolare non banalmente approntata per accogliere un insieme di pannelli dipinti di bianco, ma da quegli stessi pannelli costruita con l’apporto di tutti i fattori costitutivi dell’opera Spallettiana convogliati verso uno spazio praticabile unitario sull’onda di un innalzamento finora mai prima tentato del grado di luminosità delle superfici.
Naturalmente ciò che forse un po’ maldestramente abbiamo chiamato “annessione” dell’Architetura, era una sorta di mossa, in qualche modo, annunciata ed attesa un po’ da tutti. Forse, a pensarci bene, annunciata sin da quando Spalletti realizzò l’azione immortalata dalla fotografia di Giorgio Colombo che da il via al percorso dell’attuale esposizione. Vi si vede Spalletti che spolvera accuratamente i calchi in gesso colorato con cui ha sostituito due lastre del marciapiede dinnanzi all’entrata della galleria Pieroni di Pescara che nel 1976 ospitava una sua storica mostra. Con le mani e con la carta vetrata l’artista ogni giorno toglieva via un primo strato esterno di colore, rosa o celeste, sporcato dagli agenti esterni restituendo alle lastre la loro omogeneità e purezza. La pittura, in altre parole, sembrava voler dire Spalletti sin da allora, non scende a compromessi con il mondo ma più semplicemente comincia a sostituirsi ad esso, a costruirlo a propria immagine e somiglianza, a partire dalla materia stessa di cui è costituita.