Claudio Costa e Hermann Nitsch, Il viaggio nell'ancestrale, installation view 2021 - Courtesy Galleria Michela Rizzo. Foto di Enrico Fiorese

Claudio Costa-Hermann Nitsch. Il viaggio nell’ancestrale

Michela Rizzo, a Venezia, sottoscrive, con gli Eredi Anita Zeiro e Marisol Costa, la storicamente e concettualmente basilare mostra di Claudio Costa (Tirana 1942-Genova 1995) con Hermann Nitsch (Vienna 1938, residente e operante nel castello di Prinzendorf) curata da Stefano Castelli su un concept di Massimo Melotti, prematuramente scomparso. La presenza di Costa, nella galleria veneziana, segue la mostra curata, nel 2014, da Flaminio Gualdoni. L’imponente esposizione di opere di Nitsch è realizzata in collaborazione con l’Atelier Professor Hermann Nitsch Schloss Prinzendorf .

Il curatore articola la doppia personale alternando sale monografiche, di grande impatto emozionale, a sale in cui i due artisti confrontano esteticamente, antropologicamente, performativamente, prossimità sacrali e distanze di appartenenza tra culture e confessioni mitteleuropee e mediterranee, percepibili nelle loro rispettive installazioni/azioni di work in progress/work in regress. Un ineludibile punto di possibile raffronto, in chiave costruttiva, tra due grandi artisti come Costa e Nitsch, risulta essere il momento terapeutico nel primo e quello catartico nel secondo. L’invito, su fondo neroriprende un pensoso Claudio Costa, nella foto della figlia Marisol, in contemplazione della massa di un cervello umano, mentre Hermann Nitsch, dalla fluente barba bianca, è intento nel versare un boccale di sangue su un frammento di carne animale. L’ingresso in mostra è annuncio, in Nitsch, di un presente pittorico/materico, rigenerato nella pastosità e chiarità del colore (Action painting, 2021, acrilico) di un ritorno al campo magnetico delle simbologie del triangolo, del cerchio, del sole, del nastro di Moebius (Senza titolo/Unicorno,1985) in Costa. Nella sala monografica delle grandi presenze magico-alchemico-totemiche africane (grande Salamandra/Coccodrillo, del 1991, Tauromachia, con il mestolo dorato su lastra di ruggine, del 1990, Proboscide, del 1991), degli storici, vissuti, attrezzi agricoli di Monteghirfo (La Pietra e il corno, 1976-1977) ancora in Costa diventa pregnante il dialogo con Joyce, Beuys, Duchamp, in particolare, con quest’ultimo, nell’articolata, iperdimensionata, installazione lignea, del 1991, della Macinatrice d’Africa.

Claudio Costa e Hermann Nitsch, Il viaggio nell’ancestrale, installation view 2021 – Courtesy Galleria Michela Rizzo. Foto di Enrico Fiorese

Sciamanesimo e Sacralità magico-alchemica in CLAUDIO COSTA 

Dopo la sua infanzia a Chiavari, Liguria, il suo soggiorno a Parigi, in cui incontra Marcel Duchamp, il suo viaggio in Nuova Zelanda, è a partire dalla fine del 1989 che Claudio Costa inizia i suoi viaggi in Africa, invitato da Claudio Spadoni a Malindi, in Kenya, nel luglio del 1991, ancora a Malindi, invitato da Nino Pezzino, a dicembre a Kampala, in Uganda, successivamente in Senegal, dove prende parte alla V° Biennale di Dakar, negli spazi dell’Istituto Italiano di Cultura e un’ultima volta ancora a Malindi. Tali viaggi seguono al suo trasferimento, su invito di Antonio Slavich, nell’ex Ospedale Psichiatrico di Genova-Quarto, sua dimora/atelier, in cui fonda, come arte-terapeuta, tra il 1988 e il 1992, l’IMFI-Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli, presieduto attualmente da Massimo Casiccia. Momenti centrali del suo intenso iter artistico sono l’invito nel 1977 a Documenta 6, Kassel, dove, nella sezione Archeologia degli umani, conclude il ciclo antropologico con il lavoro Antropologia riseppellita e l’invito nel 1986 alla 42. Biennale di Venezia Arte e Scienza con l’opera intitolata Diva bottiglia (per un Museo dell’Alchimia) nella sezione sulla tematica alchemica a cura di Arturo Schwarz.  

«Il baricentro della mostra, l’asse attorno a cui ruotano le idee» è Il Viaggio nell’Ancestrale. Ho voluto citare le parole esatte con cui Claudio Costa introduceva, alla lettura della sua opera, la critica e il pubblico intervenuti. Ancora le parole da me archiviate e raccolte dai suoi testi: […] Il viaggio inizia «Quando le viscere più profonde sono analizzate in tranquillità, con cura, allora si ha l’identificazione completa con il meno umano e con la sua maniera violenta e immediata. È allora che il lume e il lucore incerto alla base del viaggio divengono la perfetta luce della non-coscienza disperata, la perfetta verità del negativo, l’oceano grande del fuoco che abbacina, ma non uccide la vista, il preciso e illuminato uso del meno assoluto da cui dipende la coniugazione esatta del non sapere, abisso che si misura come definitivo quando si sceglie di gettarvisi. Genova 1977».

Claudio Costa e Hermann Nitsch, Il viaggio nell’ancestrale, installation view 2021 – Courtesy Galleria Michela Rizzo. Foto di Enrico Fiorese

I mezzi che Claudio Costa ha a sua disposizione, per instaurare una corrispondenza magica tra gesti, cose, parole, numeri e idee sono, comunque, straordinari. Tutto il materiale utilizzato per il suo viaggio, infatti, si tramuta in segreto canto poetico – Amore disamore/Poesie 1970-1979, il canneto editore Genova. L’unica possibilità di colloquio tra uomo e uomo è viscerale, risiede cioè, nell’ipotesi di C. Costa, nelle funzioni corporali elementari. In questa analità si compie il ciclo della vita, dalla prima intenzione di essere alla disgregazione chimica. È attraverso le forze magiche della natura che un Costa sciamano si propone di comunicare con gli altri. Il suo lavoro non cessa di trovare spazio in uno scollamento tra realtà e cultura. Rifiutata l’opera d’arte come feticcio di una società dei consumi di massa, l’artista ricostruisce, con gesti rituali e materiali naturali, le zone d’ombra e di luce, le terre-di-mezzo tra certezza e mistero, del paesaggio dell’uomo, applicando il metodo strutturalista saussuriano a un’indagine antropologica coniugata con l’intuizione dell’artifex

Il suo esordio, di connotazione antropologica e paleontologica, alla fine degli anni Sessanta, accade sull’area della Cultura Materiale. Le sue radici culturali – dichiara – sono da ritrovarsi, nel Merzbau di Schwitters, nelle cassette magiche di Cornell, nella fenomenologia degli eventi Fluxus, nella corrente dell’Arte Povera e nella trasparenza analitica del Concettuale. Fondamentale il suo incontro a Parigi con Marcel Duchamp. In Costa, la risalita nel tempo, come work in regress, rispetto al joyciano work in progress, intende, recuperare, da soggetto creativo, l’angosciante perdita di un Reale Naturale.Trascinato irreparabilmente nel vortice del futuro, l’uomo soffrirebbe l’impotenza di una risalita ad una condizione primaria. Si ricompongono così, nel suo immaginario d’artista, nella sua natura di opifex, i nessi con le cose, le geografie del tempo, le parentele dell’uomo, sulla scia del pensiero di Claude Lévy-Strauss. Gli esercizi antropologici, le ricostruzioni del corpo, della pelle, degli utensili primitivi, rientrano nel quadro generale dell’evoluzione, per cui Claudio Costa trova, scrivendo, espressioni di profonda poesia. Tra i suoi ineludibili referenti sono Freud di Totem e Tabù, Jung degli archetipi, Lévy-Strauss di Tristi tropici, del Pensiero selvaggio, di Totemismo Strutture elementari delle parentele, delle Mythologique; Lévy-Bruhl, sociologo, etnologo, filosofo francese, studioso della mentalità religiosa dei Popoli cosiddetti primitivi, in sintonia con il sociologo franceseDurkheim e suo nipote e allievo Mauss, storico delle religioni e fondatore dell’etnologia francese. 

Buio e luce di una condizione fisica e psichica trovano l’equilibrio e la sospensione indifferente di una tranquillità negativa. Pervenuto ad una fase prelinguistica, l’artista intende riguadagnare, al di là dei codici di una cultura straniante, una nuova possibilità d’espressione. Nel momento estremo della sottrazione, spogliato di ogni attributo della civiltà, l’artista, che anela al linguaggio del disvelamento apocalittico, entrerebbe nello stato di grazia per rigenerare il suo ruolo e il suo messaggio. La svolta intellettuale del lavoro di Costa nasce dall’intenzione di proiettarsi verso l’esterno e di trasformare l’avventura personale dell’artista in fatto collettivo.

Claudio Costa e Hermann Nitsch, Il viaggio nell’ancestrale, installation view 2021 – Courtesy Galleria Michela Rizzo. Foto di Enrico Fiorese

Ricostruendo una vanga, una zappa e un rastrello – Strumenti di un’Agricoltura Terrestre – le mani hanno ricostituito la funzione prima delle cose. L’oggetto di terracotta diventa la presenza fisica della propria memoria genetica. Viene riconquistato uno spazio materiale agli arnesi del lavoro ed a tutto ciò che è entrato in rapporto di necessità con l’uomo e il suo habitat. Il gesto ripetitivo del fare diventa conoscenza intuitiva, esperienza che si struttura nell’immaginario dell’artista. Lungo il percorso della rivelazione gli oggetti vengono collocati più temporalmente che spazialmente, con un rispetto totale alla forma, alla materia ed alla funzione. Il gesto duchampiano, di contestualizzazione del ready-madenel Museo, si ribalta in Costa nel gesto di dislocazione dell’attrezzo agricolo, nella dimora contadina, fondativo del Museo di Antropologia Attiva di Monteghirfo. Il percorso mistico di questa alchemica Ricostruzione del Mistero, passa, dal colloquio viscerale, all’area incorruttibile e dorata del Sapere.  

In tutto il suo lavoro prende consistenza un atteggiamento manuale, una necessità di contatto sensoriale con le cose, un movimento circolare tra finito ed infinito, a cui lo spettatore è chiamato a partecipare. L’ultima parte del viaggio, in cui artista e pubblico diventano creatori comprimari, esige un gesto di liberazione dalle sovrastrutture spirituali e materiali. La nudità della persona, come in Hermann Nitsch, metterebbe l’Uomo e l’Artista in una disposizione privilegiata.

Nell’ottobre del 1977 Claudio Costa, autopresentandosi, timbra come work in regressquesto suo emozionante autoritratto scritturale: «Il mio Ritratto d’Artista da vecchio è lasciato incompiuto, perché, penso, lo finirò quando sarò vecchio vecchio, proprio vecchio con la barba tutta bianca, lo finirò quando tornerò a essere bambino per davvero e non per finta. Ho esposto questo Ritratto da vecchio perché il caro James ha scritto il Ritratto da giovane e anche Work in Progress e allora cosa mi restava da fare se non work in regress, per poter amorevolmente andare, amorevolmente restare, in ogni caso, amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo. […] I Corvi di Vincent li immagino come dei Girasoli neri, ma mi fanno pensare anche alle care pazzie di Vincent, che sono poi le mie pazzie e domani i Corvi saranno le pazzie di qualcuno che vedrà i Girasoli neri contro il cielo azzurro e allora Io vi dico che i Corvi di Vincent non moriranno mai».

Visitatori e collezionisti internazionali, in primis da Vienna e da città della Germania, sono già presenti alla preview veneziana della mostra alla Galleria Michela Rizzo. La presenza di Rita, moglie di Nitsch e di Martha Schildorfer, sua assistente, insieme alla presenza attiva e carismatica di Peppe Morra, fondatore nel 2008 del Museo Nitsch a Napoli, confermano l’alta rappresentatività della mostra nel panorama artistico contemporaneo. Un doppio affondo nell’Ancestrale fa sì che l’elemento magico-sciamanico di Costa entri in dialogo con il versante dionisiaco-orgiastico-liberatorio diNitsch. Sue presenze di rilievo sono, tra le altre, a Kassel in Documenta 5, nel 1972, e a Documenta 7 nel 1982.

Chiave di lettura di una mostra personale dalla temperatura cruenta, tanto misterica quanto inquietante – cruor in latino è il sangue – è la locuzione latina Sacrum-facere che introduce alla condizione del Sacrificium come dispositivo atto a produrre sacralità. Una sacralità che sembra familiarizzare, in mostra, tanto con il profano – pro in latino significa davanti, fanum tempio, il termine quindi indica il trovarsi fuori dal tempio sacro – che con il pagano, inteso come abitante del villaggio/mondo precristiano. La condizione del sacro è quindi generata, nell’opera di Nitsch, dal sacrificio come ebbra Offerta del Sangue.

L’alta sala monografica, con la grande installazione Action Painting, del 2011, si struttura su una tela attraversata dalla pioggia verticale delle colature d’acrilico rosso, riportando due camicie in casse lignee disposte a croce, presumibilmente sporcate di sangue e colore durante l’azione rituale. Lo scenario è così teatralmente potente da indurre lo spettatore a inginocchiarsi come davanti a un sacro altare. Non meno emozionali sono i suoi Relitti in mostra (dal 2001 al 2014) costituiti da lunghe tele, a tecnica mista e sangue su cotone, appese alla parete su piani sovrapposti, su cui schizzi, stesure informali, colature, impronte, paludamenti con fregi dorati, raccontano di gesti, azioni, trasgressioni, inenarrabili, istituzionalmente denunciati e più volte censurati.

Si chiarisce, di fronte a questo dispiegamento di paramenti pseudosacrali, sudari, sangue disseccato misto a colore, vino, liquidi corporali, reliquie con valenza di ex-voto, come l’arte inizialmente fosse legata alla religione. Il passaggio dal sacrificio all’opera d’arte è stato materia di approfondite, storiche, ricerche di grandi figure del pensiero antropo-filosofico come Bataille e la sua condizione di Dépense, di parte maledetta, intesa come spreco sacro delle offerte votive che le religioni arcaiche destinavano agli dei per propiziarseli, senza assolutamente intaccarle dal consumo. La riflessione batalliana scaturisce dal saggio sul dono di Marcel Mauss, attinente alle motivazioni profonde dell’opera di Nitsch, considerata nei suoi rituali, durante l’azione, ma anche dopo, nelle sue presenze residuali, nei suoi cosiddetti Relitti, a fronte di un orrifico, gotico, accumulo di tracce di fluidi corporali, atti di onanismo, frutti spappolati, viscere animali, urina, bisturi, siringhe, cerotti, zollette di zucchero, icone cristologiche, abiti talari indossati dal ministro del cerimoniale, ornamenti dorati, oggetti di scena, come si può vedere nella ripresa video esposta in mostra. Le indubbie potenzialità sinestetiche, di carattere visivo-olfattivo-tattile-uditivo, delle installazioni di Nitsch, radicalizzano anche la potenza gestuale, informale, espressionista astratta, delle grandi tele residuali – opere d’arte che detengono una propria autonomia estetica – atte a riattivare per lo spettatore il passaggio del pennello, grondante di colore rosso, su corpi nudi scossi da frenesie bacchiche. A latere di un clima slittante tra Eros e Thanatos si ritrova l’artista, ancora austriaco, Arnulf Rainer.  Pensando a un Teatro dell’Impresentabile non si può non citare Antonin Artaud quando scrive: «Propongo di agire sugli spettatori come gli incantatori sui serpenti e di far loro ritrovare attraverso l’organismo le sensazioni più sottili. 1932».

Per qualche tempo associate alla corrente sadomasochista e autolesionista del Wiener Aktionismus/Azionismo viennese (Günter BrusAbino ByrolleOtto Mühl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler), risalente alla prima metà degli anni Sessanta, le “incriminanti” azioni artistiche del Teatro delle orge e dei misteri/Das Orgien Mysterien Theater di Nitsch rivestono, nelle intenzioni dell’autore, una funzione catartica profonda, cercando piacere nel soddisfare istinti naturali profanando simboli religiosi, anche attraverso dilungate sofferenze, pratiche sessuali visceralmente o gelidamente trasgressive, che trovano un referente nelle sottili perversioni del Divin Marchese de Sade, nelle parafilie del Barone austriaco-ucraino von Sacher Masoch, negli scatenamenti dionisiaco-apollinei di Nietzsche. Hermann Nitsch compositore utilizza il fondo sonoro delle sue azioni come partitura. La dimensione spettacolare delle sue grandiose azioni pittoriche assume le modalità della Gesamtkunstwerk/Opera d’arte totale.  

L’infinitudine del frammento in MARCELA CERNADAS 

Dedica: magia reversibile del dono

Marcela Cernadas (nata a Campana, Argentina, 1967, vive e lavora, alternativamente, in Spagna, Argentina, Italia, particolarmente nella città lagunare di Venezia) opera esteticamente sulle aree linguistiche di video, film, fotografia, pittura, scultura, performance, installazione, scrittura. Sua poetica è l’impermanenza delle cose, la contemplazione della bellezza e della vita nel suo essere e divenire, il perseguimento dell’impercettibile nell’accadere dell’opera in sé e nello sguardo dell’osservatore. Quando ricorre alla metafora dell’artista che lavora a una tavolozza senza tela, Cernadas sembra confrontarsi, esteticamente e poeticamente, con il frammento e l’insieme cosmico, con l’intervallo che separa e unisce il reale con la finzione dell’opera d’arte. 

La tessitura è metafora, nel suo lavoro, di un procedere per avvolgimento e svolgimento del filo del discorso, della tela, dell’istantaneità dell’atto creativo. Non cessa di prendere forma nell’accadere della sua opera, sospesa tra figurazione e ornamento, una cartografia di stilemi rappresentativi che privilegiano la trasparenza, la leggerezza, il bianco, la sinestesia, la condizione aurorale del colore e della forma. L’opera in mostra Venezia di cristallo e crepuscolo/Venecia de cristal y crepúsculo – cristallo soffiato e inciso con sabbia – muove non solo da quel piccolo getto di sabbia sulla sabbia che diventa cesello – quasi una tautologia, essendo il vetro costituito dal silicio, componente essenziale della sabbia, detta anche rena – ma anche e soprattutto vuole essere un omaggio dell’artista al maestro argentino Jorge Luis Borges come autore di El Libro de Arena/Il Libro di Sabbia, e come poetico declinatore della dimensione arcana e magica della dedica nel suo libro Historia de la noche/Storia della notte. Accanto al calamaio cristallino con la penna inserita, un’instabile pila di fogli bianchi non cessa di rinviare all’infinitudine della Biblioteca, alla potenzialità emotiva della parola, all’universo intangibile del mare di libri. 

L’altra opera dell’artista argentina in mostra si intitola significativamente, nel contesto, Souvenir – cristallo modellato e molato a mano libera, posto su un candido ripiano di legno laccato – ed è la sequenza, aperta, dell’icona di un cavallino rampante, ripreso in progressione dinamica, scaturito dal suo immaginario per entrare tra le fila di un suo bestiario, già inaugurato nel corpus della sua opera. Sono microsculture modellate artigianalmente, prossime a diventare ricordo nell’istante stesso in cui vengono pensate. Sono memorie di viaggio, moti di affezione che si sono cristallizzati in frammenti di realtà, a testimoniare, qui e altrove, la loro esistenza, l’appartenenza a un tutto. «Se un uomo in sogno attraversasse il Paradiso e gli dessero un fiore come prova d’esserci stato, e al risveglio si trovasse con quel fiore in mano….e allora?» È una domanda citata nel racconto di Borges Il fiore di Coleridge, che il poeta inglese fa a se stesso. L’opera di Marcela Cernadas si articola in cesellature che ora si applicano al velluto con la luce, ora al vetro con un getto di sabbia, prossimamente alla porcellana, sempre alla scrittura poetica. 

Valenze simboliche di luci-ombre-cristalli in SILVANO RUBINO

Silvano Rubino (Venezia 1952, città in cui si è formato in pittura all’Accademia di Belle Arti e in cui risiede con il suo atelier) opera prevalentemente sull’area di un concettuale con ascendenze nella letteratura, nel pensiero d’Oriente e d’Occidente, nella coscienza individuale e collettiva, nella gestualità scritturale, senza rinunciare alle fascinazioni dell’Aisthesis, intesa come percezione sensoriale. 

Sue aree linguistiche sono l’installazione, la fotografia, il video, la pittura, il disegno, la scrittura, il design in vetro. Le installazioni esposte nella Projetc Room della galleria veneziana si intitolano Body or Soul – scritta al neon e cinque bottiglie su una mensola grigio chiaro, distribuite tra un vassoio spesso, nero, e il ripiano – e l’opera Aldilà delle Apparenze, costituita da un pendolo bianco in vetro bianco che sovrasta, immobile, l’imboccatura di una melagrana dello stesso materiale, altrettanto bianca, attorniata da   candide lettere dell’alfabeto di gesso.

L’artista si connota come disseminatore di tracce, prevalentemente in un percorso di abbacinante bianco-su-bianco, come costante ricercatore di un’identità in via di sparizione, in un mondo di progressiva, dominante, spersonalizzazione. Tra i suoi topoi ricorrono il labirinto, la spirale, il vuoto, la valenza astratta della scritta in neon bianchi o azzurri. Si coglie nella sua opera, l’attitudine a interrogarsi sul corpo e le sue pieghe, la luce e l’oscurità, la presenza e l’assenza.  

S. Rubino induce alla riflessione sul passaggio da una condizione di contemplazione templum in latino viene inteso come spazio celeste in cui l’aruspice osserva il volo degli uccelli, prima di formulare il suo vaticinio – a una condizione di fruizione virtuale dell’Opera d’Arte nell’Epoca della sua riproducibilità tecnica/Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, come non manca di teorizzare Walter Benjamin nel saggio omonimo del 1935. La ricerca dell’artista veneziano si applica al valore semantico e asemantico dei segni scritturali, alla trasposizione del senso della parola alla pura visualità, all’identificazione, nel frammento, della centralità di un tutto. Si può percepire nell’opera di Silvano Rubino l’ombra dietro la luce di una presenza oggettuale, il rimosso di una dichiarazione assertiva, lo slittamento di una condizione rappresentativa verso l’affacciarsi di una memoria archeologicamente risorgiva.

Galleria Michela Rizzo, ex Birrificio della Giudecca, Venezia                                                                                                                   Claudio Costa-Hermann Nitsch. Il viaggio nell’ancestrale.  

A cura di Stefano Castelli. Da un’idea di Massimo Melotti.

A latere, mostra Glass Poetry – Marcela Cernadas – Silvano Rubino nella Project Roomin occasione della Venice Glass Week 2021