Chi ha ucciso la critica? Quando la critica è arte da occultare (Seconda parte)

L’assassino non ha nome e nulla “dovremmo sapere” del suo volto, della sua età, dei motivi per cui ha ucciso. Assassini con un volto riconoscibilissimo, megere che hanno un nome e un postribolo dove gestiscono le sorti dell’Istituto dell’Occulto Fotografico Taurinense, istituzione aggressiva e disumanamente votata alla repressione della critica. Fantasmi che ritornano vivi, le cui azioni sono manovrate da ombre in Bianco e Nero, che ostentano lastre (concettuali) ammiccanti e fasulle, eredi di baluginamenti atavici, cui non è consentito di morire ma solo di uccidere. Il racconto ha tutti gli ingredienti di una leggenda premonitrice, di una narrazione-codice sulla decadenza dell’operato trash e sulla nemesi, di cui esplorare il cifrario.

Parigi: così vicina e così lontana.
Presto sulla sua vita faranno un’opera cinematografica ed è facile vagheggiare che la prima scena sarà quella della sua morte. Qualcosa del genere: Parigi in una notte di fine inverno; due poliziotti in motocicletta risalgono lentamente gli Champs Elysées lustri di pioggia, girano attorno all’Arco di Trionfo e, appena imboccata la grande avenue Foch, scendono nel parking sotterraneo dell’Etoile, per compiere il solito giro di controllo. L’immenso parking è deserto. Poche le auto posteggiate. Verso il fondo, accanto ad una Renault RX30 grigia, uno dei guardiani notturni col suo cane lupo. Il cane abbaia. Il guardiano fa cenno ai poliziotti di fermarsi. I fari delle motociclette illuminano l’interno della macchina. C’è un uomo là dentro. Immobile. Con il capo riverso sul volante. Un ubriaco? Un drogato? No, c’è del sangue sul bavero rialzato del vecchio impermeabile. E l’uomo è esanime. Fulminato da quattro colpi sparati nell’occipite. A bruciapelo da un’arma di piccolo calibro, si direbbe dalla ridotta dimensione dei quattro fori. Chi è l’uomo? I poliziotti rovistano nelle sue tasche: un rotolo di diecimila pagine assiepate in una chiavetta usb (una bella somma di scritti, due milioni di parole contro, due milioni di parole ribelli e di voci della dissidenza; l’abbozzo di un nuovo trattato del Medialismo); il biglietto di ingresso del parcheggio con la data e l’ora (lunedì 5 marzo ore 18:45). E infine la patente di guida, intestata Ribellì Gérard, di anni 62. 

Ribellì? Al commissario Jacques Genetì, il gran patron della brigata criminale che è appena arrivato nel parcheggio, questo nome non dice nulla. E neppure ai cronisti di nera, che fanno la notte nell’ufficio stampa della prefettura di Parigi, al 36 di Quai des Orfèvres. Ci vorrà del tempo, prima che si scopra che quel morto così anonimo de l’Avenue Foch è un cadavre exquis. Ma anche a distanza di due giorni, quando la notizia è su quelle poche pagine di quotidiani che le hanno dato rilievo, non sarà facile dire chi è questo Gérard Ribellì. “Assassinato l’impresario della nuova critica dell’economia politica, il profeta della traduzione clandestina de Il personale è politico di Carol Hanisch, l’apologeta della lettura aristotelica del più impegnativo slogan filosofico della cultura letteraria femminista degli anni 60-70”, titola a tutta pagina il Giornale di Radio Onda Rossa e del Settimanale di Via dei Volsci. Ma nell’edizione successiva il giornale ci ripensa e il titolo diventa “Ucciso l’editor del poeta assassinato, il traduttore dell’equivoco su Majakovskij a proposito della barca dell’amore affondata; il critico severo del concetto di persona e di personalismo in Charles Renouvier, Emmanuel Mounier, Max Scheler, Jacques Maritain, Romano Guardini e Josef Pieper”. Qualcun altro si spinge anche più in là: “Un Pasolini italo-francese? Uno che dava molto fastidio all’Istituto dell’Occulto Fotografico Taurinense?”. Ovvero, dal mondo del cinema a quello dei libri, e da qui alla critica e alla traduzione del pensiero radicale femminista de Il personale è politico, «Ribellì l’avanguardia»! Da C. Wright Mills, Carol Hanisch, Betty Friedan a Judith Butler e Rosi Brandotti, ecco i suoi scomodi campi di interesse. Ma allora, chi è questo Gérard Ribellì? 

Non se lo chiede solo il commissario Genetì. Oggi, un mese dopo, questa domanda sono ancora in molti a porsela. Ogni giorno qualche giornale on line aggiunge un nuovo tassello all’affaire. Ma è solo di Ribellì vivo che si parla e non della sua morte, la quale non sembra eccitare molto l’interesse dei cronisti parigini, così come di quelli taurinensi. E il ritratto che si va componendo diventa sempre più preoccupante. O meglio spiacevole. Perché la Repubblica Francese, insieme a quella Italiana, vivono un momento assai delicato. Le pseudo-sinistre che appoggiano e si sono reincarnate tra i liberisti, soprattutto nel campo dell’industria culturale, sono riuscite a farcela, insieme ai pentastellati e le altre organizzazioni di centro, pseudo-dissidenti. Ma i due paesi, soprattutto quello italiano, vanno sempre di più verso un liberismo di destra, che difende le mode culturali delle quarte generazioni donniste e lusingate dal neo-trash, per occultare in realtà tutti i diritti civili e sopprimere quelle politiche che rivendicavano il ribaltamento aristotelico del privato come politico. Sembra che la socialità e i social siano al potere, ma è di gran moda il “liberti-cinismo disegualitario di genere” di Istituti di Cultura dell’Occulto e dell’Oppressione, come quello di Taurenide che appoggia, in presa diretta, tramite avvocati della conventicola massonico-anarchica, la soppressione della critica dissidente, reprimendo chi ha subito angherie politiche infinite. Ad una posizione novoliberista, agli inizi del 2000, si richiamano gli occultisti radicali come Trattafuffa, con i quali le “strategie adulatorie” dell’Opening People divengono l’ideologia politica della classe media informatica e fotografica, nonché della borghesia post-femminile emersa con la rivoluzione digitale. Classe che richiede, a livello di organizzazione privatistica e finanziaria, un riconoscimento della propria funzione repressiva. Andrè Vallée, su “Nouveau Manifeste de la Function Radical”, se la prende con l’incostanza delle genti che praticano con le strategie fotografiche dell’Opening People e si concentrano nelle adesioni dell’Istituto Liberista dell’Occulto Fotografico Taurinense, ma nessuno sembra dargli ascolto. Meglio Yves Dontan, che dagli schermi di France 2, riferisce la crisi in toni confidenziali: demonizza tutto ciò che sa di gauche; esalta i valori individuali e rimpiange gli ultimi anni felici della Francia e dell’Italia; cavalca il totalitarismo modaiolo del femminismo groupie e “anti-astuzia della ragione”; appoggia il revivalismo fighetto che è contro la critica e, soprattutto, la macchina di fango che è stata allevata dalle passerelle dell’industria culturale a la page. Insomma, quali i valori di riferimento? Quelli di Pompidou, di Petain, di Mussolini, la cui foto sorride dalle copertine di tutti i nuovi giornali prodotti dal fronte dell’Istituto dell’Occulto Taurinense.

È su questo sfondo conflittuale, che si staglia la figura anti-patriarcale di Ribellì e della sua contorta vicenda. Anche lui, in fondo, ricorda ai francesi e ai taurinensi come eravamo e cosa bisogna denunciare dell’occulto. Ma in modo molto diverso: lui è come la cattiva coscienza, che si vorrebbe dimenticare. Il perché, lo dice la sua storia, che comincia a Parigi, avendo come riferimento una sosta a Taurenide, più di dieci anni fa, in una cena di critici e di curatori d’arte, insieme a registi e abili fotografi, dopo la prima del Cin Cin di Critica Lacaniana. A tavola tutti sono allegri, meno Gérard. Lui alla carriera di poeta ha dovuto rinunciare e, soprattutto, gli è stato soffocato nel tempo il suo amore per la regia cinematografica, per la scrittura di sceneggiature filmiche. Tanti i progetti che stava elaborando in relazione alle sue grandi passioni di sempre, e che voleva avvalorare realizzando docufilm più o meno lunghi: la rivolta popolare, l’amore ideale seguendo le orme di Paul Celan e Ingeborg Bachmann, o la ricostruzione dell’evolversi della poesia sonora. La sua faccia è una testimonianza troppo fissa sulla veridicità della critica: troppo musone, troppo orso. Ed è, nel suo portamento: elegante nei movimenti, alto, longilineo e impacciato con la sua Kippah stretta sulla testa rapata.

“Gérard, perché non ti occupi tu di noi, perché non metti su un’agenzia teatrale per il revisionismo storico del femminismo radicale e perché non forzi delle traduzioni, trasformando il pensiero di Virginia Woolf in un’idea di stanza tutta per le fotografe dell’Occulto? Perché non ti batti a favore del simbolicismo femminile? Perché non abusi del pensiero lacaniano? Perché non esalti l’integrazione della politica dell’identità, con la rinascita del femminismo del libero mercato? Perché non nascondi, con lo pseudo-culturalismo, i pruriti del femminismo piccolo-borghese? Perché non convinci le donne a trascurare i discorsi di classe e a trasformare il genere in una eccitante moda?”, gli propone qualcuno. Ribellì come al solito risponde con un secco no, ma si vede che l’idea, per lui, può diventare oggetto di critica e di messa in pratica della nuova interpretazione de Il personale è politico. Insomma, se qualche donna ha commesso degli atti di violenza, di razzismo e di occultamento nei confronti di un compagno, che si è comportato in maniera lineare e politicamente corretta, battendosi per il rispetto e la difesa di tutti i suoi diritti personali come diritti politici, questo stesso merita di essere – soprattutto sul lavoro – combattuto e represso?

Scriveva Ribellì: “Il nucleo originario della critica rinvia a quel fascio di rapporti in cui si intessono i problemi del potere, della verità e del soggetto”. Radicalismo de Il personale è politico e critica è il resoconto della conferenza tenuta alla Sorbona da Gérard Ribellì nel maggio del 2018, in seno ad una seduta della Société Française de Philosophie. La conferenza viene annunciata senza titolo ed è l’autore stesso a spiegarne la motivazione: Ribellì non osa attribuirle quello che, ai suoi occhi, sarebbe parso un titolo «immodesto»: Che cos’è l’Aufklärung?, limitandosi ad affermare che l’argomento di cui si tratterà può essere conchiuso nella formula: Che cos’è la critica radicale e del rapporto soggetto-oggetto?, tema che, a dire il vero, non risulta meno vasto, pluristratificato e storicamente complicato del primo. Ad ogni modo, in questa ritrosia di Ribellì si intravvede, come egli si proponeva di stabilire il rapporto tra la critica – intesa come «progetto che non smette di formarsi, di prolungarsi, di rinascere ai confini della filosofia, nelle sue immediate vicinanze, contro di essa, a sue spese, in direzione di una filosofia a venire, in luogo forse di ogni possibile filosofia» – e l’Aufklärung come epoca, come evento storico determinato e come resistenza tra il personale e il politico. Pertanto occorre stabilire le basi per un certa pratica di critica della critica, che ad esso faccia riferimento come oggetto di indagine; occorre «tentare di capire in quali condizioni, e a prezzo di quali modifiche o di quali generalizzazioni si possa applicare a qualsiasi momento storico la questione dell’Aufklärung, vale a dire il rapporto tra potere, verità e soggetto».

L’ultima parte del corposo lavoro di Gérard è centrata sull’oggi. Entriamo nel pieno del paradigma neo-liberista, nel tempo della finanziarizzazione e della trasformazione della vita e dei legami sociali in commodities. Gérard si batte per «una risignificazione del femminismo che imbriglia il sogno di emancipazione delle donne nel motore dell’accumulazione capitalistica, con quadri femministi di ceti medi professionali determinati a rompere il “cielo di vetro”». Critica il lavoro femminile precario, «il groupie part-time, i servizi a basso salario domestico, del sesso, delle donne migranti beneficiarie del microcredito, in cerca non solo di reddito e sicurezza personale ma anche di dignità, crescita, liberazione dall’autorità tradizionale». Il nuovo spirito del capitalismo descritto da Gérard, approfitta, insomma, di questa disposizione (commodities) delle donne per riportarle nel tempio dell’Occulto e dell’Oggetto della Fotografia Fuffocratica: «le trasforma in soggetti decisi a lasciare le mura domestiche e ad abbandonare ruoli ereditari, mentre la critica al paternalismo del welfare state, allo Stato balia e all’economicismo socialdemocratico, devitalizza le opposizioni sul terreno della sicurezza sociale e consegna le donne al lavoro precario salariato, idealizzando la famiglia con il doppio stipendio e con l’aspirazione borghese all’utopia agiata, giammai raggiungibile».

Tale pratica storico-filosofica non potrà coincidere né con la filosofia della storia, né con la tradizionale storia della filosofia, pur non escludendo di principio alcun ambito di lavoro di discipline già esistenti. Anzi, ogni apporto sarà adatto alla costruzione finzionale, che questa pratica in fieri si propone come fine: disporre e dipanare una simulazione storica, ossia fabbricare la storia per come essa apparirebbe se si mettessero in evidenza i rapporti che intercorrono tra le strutture razionali, che articolano il discorso vero e i correlati meccanismi di assoggettamento. «Desoggettivare la questione filosofica ricorrendo al contenuto storico; liberare i contenuti storici attraverso l’interrogazione sugli effetti di potere che questa verità è in grado di trasmettere loro: ecco il primo tratto distintivo di questa pratica storico-filosofica». Guidare questo tipo di ricerca significa, pertanto, sostituire questa indagine al paradigma precedente – che si innesta sulla già ampiamente discussa distinzione interna al canone kantiano tra Aufklärung e critica – il quale favorisce la legittimità dei modi storici del sapere. È la procedura che si interroga su quale falsa idea la conoscenza si sia fatta di se stessa, a quale uso eccessivo essa si sia abbassata, finendo quindi per garantire una qualche forma di sovranità. A questo paradigma va sostituita una ricerca che approcci l’Aufklärung, attraverso il canale d’accesso non della conoscenza, ma del potere, di chi – come l’Istituto dell’Occulto Taurinense – sceglie la forza e la soppressione della verità, rispetto alla critica e all’illuminazione dell’esperienza e della vita in sé, nei rapporti reciproci e contigui del lavoro culturale.

Dichiarava Ribellì: «Non si tratterebbe di un’indagine sulla legittimità, ma di qualcosa che chiamerei una prova di evenemenzializzazione», cioè di una indagine che assuma la forma di una lettura del fatto storico, delle esperienze vissute nei gruppi tra critici e fotografi, come un evento nel darsi stesso della sua “autorialità forzata” e della sua sciagurata negatività, che tende, quasi sempre, a sopprimere la voce stessa della critica, a mettergli dietro lo stato di polizia di chi sceglie il liberismo e la linea facile del potere oppressivo. Ciò consisterà in primo luogo nell’individuare, in via provvisoria connessioni tra meccanismi di coercizione (meccanismi di potenziale soppressione e di occultamento) e contenuti di conoscenza ad essi associati negli insiemi di elementi storici considerati. In secondo luogo, non bisognerà orientare la ricerca in vista di ciò che è legittimo, scientifico o reale all’interno di questi insiemi considerati, sottolineando ancora una volta la distanza dalla tradizione scientifico-critica, ma verso «ciò che consente a uno specifico elemento di conoscenza di avere effetti di potere abbinati a un elemento vero, o probabile, o falso». Infine, determinare cosa consenta a un simile processo di coercizione, di tentativo di occultamento, di soppressione delle libertà di critica della critica (vedi Filiberto Menna), di informarsi e giustificarsi come elemento razionale e tecnicamente efficace. Questa analisi andrà altresì caratterizzata da tre dimensioni coincidenti e distinte. Occorrerà prendere le mosse dal fatto che il nesso sapere-potere viene di fatto accettato e da lì si procederà verso ciò che lo rende accettabile, ma nella forma in cui ciò avviene; ovvero si tratterà di eliminare il rischio che l’esercizio critico possa autogovernarsi e di non subire il potere degli Istituti dell’Occulto. «Si tratta di restituirlo alla sua positività ed alla sua potenzialità allarmante, che mette a rischio qualsiasi tentativo di contraffazione da parte di tutti gli Istituti repressivi, anche di quelli che scaturiscono da un revisionismo di tutti i movimenti femminili alla moda dell’esperienza groupie e da passerella, di tutto lo sfogo della sindrome da Lolitismo Permanente». Si tratta di evitare di procedere dal punto di vista della legittimazione «muovendo dal dato dell’accettazione al sistema e dell’integrazione»: questo è il livello dell’archeologia. Bisognerà stare alla larga dai modelli esplicativi, basati sulla formazione di plurimi prodotti, cercando invece «di rendere le condizioni dell’emergere di una singolarità a partire da fattori multipli di determinazione»: è il livello della genealogia. Infine, proprio in virtù della molteplicità delle cause, andrà cercato un modello esplicativo che non si situi su un unico piano, ma mostri come le cause si complichino l’una nell’altra e come un livello di spiegazione influenzi il livello che lo ricomprende, cercando di mettere in evidenza l’«intreccio tra ciò che riproduce lo stesso processo e ciò che lo trasforma, lo denuncia, lo spiazza»: è il livello della strategia di una «certa volontà di non essere governati».

Questa pratica di critica della critica avrà allora sempre a che fare con una maniera di vivere e di pensare, con il vivere critico: una forma di vita che non si può frenare, che non può essere bloccata da una esperienza avvocatoriale, politica, sentimentale, opportunistica che ha la volontà di sopprimere le voci, di arrestare le phoné, troncare il respiro in puro stile da polizia americana (violenza trumpista). Come può la ribellione critica essere applicata alla pratica del libero canto e ad una prassi poetico-critica sulla/con la voce critica, con la voce plurifonetica? Come utilizzare i risultati della ricerca critica per facilitare lo sviluppo di nuove dissidenze educative e musicali? Come opporsi ai blocchi psicologici, introiettati dall’Istituto dell’Occulto Fotografico, che inibiscono le comunicazioni vocali e le parole che si associano al commento di un’immagine silenziosa e oppressiva? Come possono la meditazione ribelle e le pratiche de Il personale è politico essere d’aiuto ai poeti ed al canto dei ribelli? La conferenza di Gérard voleva al contempo offrire una panoramica di esperienze formative vocali ed essere uno stimolo alla riflessione ed all’alternativa al silenzio oppressivo della fotografia di quel terribile Istituto di Via della Reprimenda. L’intento era quello di illustrare un approccio duttile allo studio della voce, con un’impostazione del tutto originale nella sua trasversalità tra saperi apparentemente distanti, e che potrebbero essere ancora più distanti se interpretati e vissuti male, tanto da porsi al di sopra di ogni classificazione di genere e di stile, cercando di avvicinarsi ai temi universali dell’illuminismo comune: la relazione corpo-voce; sensi-voce; canto voce e colori. Gérard «ha il compito di denunciare le tante forme di governamentalità che plasmano e hanno plasmato la nostra vita», come l’ombra dell’Istituto dell’Occulto Taurinense; pertanto, prima che lo facciano gli altri, bisogna apprendere a governare se stessi. “Studiosa disinvoltura”, “disobbedienza volontaria”, “indocilità ragionata”: il vivere critico è essenzialmente questo; e questo è quello che l’Istituto dell’Occulto e della Massoneria Taurinense vuole ed ha tentato di eliminare, progettando di far fuori Gérard Ribellì.

Le pagine di Ribellì, prima di essere attentato dall’Istituto dell’Occulto, dicevano quali sono i percorsi per perseguire la strada critica, che cosa immaginiamo di essere, che cosa possiamo essere, come dobbiamo raccontarci senza cadere prigionieri di retoriche sublimi o di euforiche emancipazioni, nella fiera del nulla. L’autore era un filosofo affermato che, giustamente, nel momento della legge dello spettacolo, aveva il pudore teoretico di far parlare l’analisi di temi fondamentali della storia della critica per giungere appunto dove l’analisi stessa si trasforma in un pensiero positivo, che assume la conoscenza delle reti plurali e veramente relazionali delle contingenze materiali, come statuto del nostro essere: essere finiti senza infinito, temporali senza eterno. In questo quadro, per Gérard, tornava a splendere il motivo materialista sul doppio versante ontologico ed etico-politico. «Da una parte l’espressività modale dell’essere nel cuore del mondo (univocità), dall’altra il mondo stesso positivamente ricostruito nell’orizzonte immanente della prassi umana». 

Gérard era di una famiglia ebrea originaria di Napoli. I suoi genitori sono stati deportati. La «memoria della madre» è morta in un campo di concentramento, e suo padre, prima di fare la stessa fine aveva mandato Gérard al liceo e al conservatorio. Troppe volte lui stesso ha subito le angherie discriminatorie di chi sentiva il bisogno di sfogare le proprie frustrazioni, con violenze gratuite a danno di chi con le sue idee professa orizzonti radicalmente democratici. Come quella volta sul Lago di Como, dove un certo Marcus, lontano parente di Slavinia e simpatizzante dell’Occulto, dando seguito al suo razzismo subdolo, gli riservò botte e insulti inneggianti ai forni crematori. Ma nonostante questi vissuti, la passione per l’arte e la cultura le ha masticate e coltivate sin da piccolo. Bastano questi requisiti, più un corso di recitazione, per trasformarsi in un critico che voleva fare della scrittura una pratica tra la lingua analitica e la lingua impersonata? Gérard aveva aperto un piccolo ufficio sul boulevard Malescherbes e poi una succursale a Taurenide, per traduzioni e corrispondenze critiche radicali; e come primi clienti ebbe proprio i suoi nemici di quella fatidica sera, che praticavano e forse praticano ancora l’Istituto dell’Occulto. 

L’impopolarità arriva in fretta. Nasce da una idea, tanto semplice quanto geniale, dell’orso Gérard. In quel tempo chi domina il mondo del teatro, del cinema e della produzione fotografica dell’Opening Peopleè il produttore, non come autore, ma come fotografo liberista, che si schiera contro la libertà della critica. Sono le sue idee critiche, a partire da Il personale è politico, che fanno il successo, o l’insuccesso, delle libere pratiche delle Correspondances. La ricetta dei fototesti critici, pensati e praticati da Gérard, rovescia qualsiasi principio di oppressione: mette il talento della parola al primo posto e propone il fotegma come riflesso di un’immagine didascalica. In appena cinque anni, Gérard è in grado di assorbire la celebre Agenzia del Riconoscimento Critico (Justice as Redistribution, Recognition and Representation). Poco dopo ripete il colpo con i Poeti del Dissenso. Ed è un colpo grosso, perché in quell’Organizzazione Internazionale c’è la gallina dalle uova d’oro dell’espressione europea: Angelo Shlomo Tirreno. Il quale è felicissimo di mettersi con Gérard. Come tutti gli altri critici del resto che stanno per sparire. Perché lui per loro è il padre, il fratello, l’autore, il medico e il farmaco critico … E anche qualcosa di più: lui è ognuno di loro, lui è la cellula ribelle che si cova in seno alla dissidenza torinese avversa a quella taurinense, che nasce e cresce contro l’Istituto dell’Occulto, contro l’Opening People.

Non parla mai nelle assemblee, lui ascolta, fa “uhm uhm” e a poco a poco matura il conflitto contro chi tenta di soffocarlo e chi ha occultato le angherie di tal Marcus. Si riveste della sua pelle critica, dei suoi problemi, delle sue oscure e inspiegabili sofferenze di emarginazione. Solo davanti alle parole della critica si scatena. Ha il senso della ribellione e sa curare bene gli interessi dei suoi pochi e selezionati colleghi della critica, e forse della clinica. E si capisce: chi, meglio di uno che si sente Gérard Ribellì, può farsi in quattro per difendere gli interessi critici di Shlomo? Nel giro di appena dieci anni Gérard diventa il più emarginato della critica letteraria ed artistica europea, all’interno di un sistema dell’arte dove predominano solo i fautori dell’Opening People. E a ragione lo chiamano il ribelle emarginato. È l’agente di tutti i grandi emarginati e di tutti i più grandi contenuti emarginati, come della critica contro la fotografia fuffarda. Il ribelle emarginato non si è però montato la testa, l’umile e discreto ebreo, non s’è ringalluzzito di questa degradante condizione. Incassa solo 10 per cento dei like dei suoi amici su FB. È vittima di un ostruzionismo mediatico che mira a tenere nascosta la verità su tante questioni, come ad esempio la proprietà intellettuale di numerose operazioni artistiche, o l’usurpazione del proprio nome a fini di un prestigio costruito su nuvole di fuffa. Come se non bastasse, per zittirlo con il discredito morale, è stato persino additato come stalker. Ma è rimasto uguale a prima: la solita giacca a vento e quei vestiti grigi, neri o blue notte, un po’ consunti, una casa modesta, l’auto di serie. E soprattutto, sconosciuto a chiunque non faccia parte del petit monde de la critique. Perché lui non compare mai ai gala, non rilascia molte interviste, non si fa fotografare, rifiuta la foto di ritratto, critica la frequentazione delle vuote vernici e del mondo finto dell’Opening People. È, questa dell’anonimato, un’ossessione che ha origine, chissà, nella sua infanzia di ebreo perseguitato dall’eredità di Carmela, la madre? Questo oggi insinuano quanti, soprattutto le donne fotografe del nucleo dirigente dell’Istituto dell’Occulto, lo presentano come un personaggio psicologicamente turbato, un uomo dalle due vite che disfaceva nell’ombra “critica”, materialismo storico e esperienza agovernamentale, quei valori che serviva di giorno fra parole “esplicite e implicite”. Ossia il Ribellì politico, l’autore come bombarolo dell’estrema sinistra, come alter ego dello Shlomo. E, all’opposto, la psicologia c’entra del tutto! Conta forse di più l’ansia di questi ultimi anni, e la sua dissidenza di allora, tanto diversa, anzi opposta alla vague di oggigiorno: «Perché la critica viva, e Lacan viva, bisognerebbe che non fosse più una società segreta. Questo esige la controproposta all’Istituto dell’Occulto, a cominciare da lei … Slavinia! Potrei dirle cosa bisognerebbe fare per rendere viva la critica, ma è con se stessa che lei, la donna del fotograficidio comasco, si trova in difficoltà; perché lei non vuole che si metta bocca sulle sue malefatte, se non per lodarle, e allora per conformismo non mette bocca e la Critica si trasforma nel contraddittorio di se stessa, fino a subire la minaccia di divenire l’ombra dell’Istituto dell’Occulto Taurinense».

Come un superstite di Fotograficidi e Commodities, scrive Shlomo: «Ribellì avanza lentamente, attento a non voltarsi, per non farsi paralizzare dallo spettacolo della distruzione operata dal tempo, ma i bagliori della fiamme si riflettono su ogni suo passo, rammentandogli che non può avanzare senza distruggere quello che sfiora, che ogni oggetto o persona incontrati, e anche lui stesso, è condannato all’annientamento. In questi sinistri bagliori, l’elegante ieraticità del critico, i suoi gesti compassati, sono il rituale: estremo saluto di colui che spaventa l’occulto, indietreggiante di fronte all’incendio».

È nel paese uscito dal Maggio del ‘’77 che nasce il secondo Gérard, non uno diverso ma un complemento del primo. Lui sulle barricate c’è andato a Taurenide, insieme ai libri letti e scritti contro gli Istituti dell’Occulto. Ha mandato i suoi collaboratori per i progetti dei docu-film, con macchinate di viveri per la «nouveau prix de la parole», le scomodità che stavano mettendo in scena la rivoluzione sul grande palcoscenico delle Lost in transition (milanesi e romane). La sua filosofia è nemica giurata della finta gauche, perciò Gérard porta avanti l’idea di mettersi a pubblicare biografie dissidenti, profili di santi rivoluzionari in grado di lasciare segni evidenti di contrasto. I campioni di Gerard si chiamano: Alternativi di sinistra, rivoluzionari, in sintonia con i tempi oscuri che stiamo vivendo, ma anche con le sue stesse idee. Soggetti che l’hanno sempre pensata così. Nel 2018, in rue de Béart, nasce quindi l’editoria critica radicale. Tra i primi titoli un rapporto sulle groupie e la traduzione di un libro italiano, La strage del Lolitismo permanente, controinchiesta sulla donna tratta dalla figura della mamma in Sorry We Missed You (Ken Loach, 2019). Ma anche se si occupa personalmente dell’edizione dei saggi critici, Gérard non trascura il suo ruolo di emarginato. Anzi, proprio in quell’inizio del 2018, quando ormai è affermato come critico tra i diseredati taurinensi, compie il grande balzo e si trasforma in «critico indipendente» e «nuovo autore come produttore». Ma a modo suo naturalmente, un modo che non basta e non viene visto bene dall’Istituto dell’Occulto Fotografico Taurinense; una maniera che ormai produce a «sbada-tratta» la strategia dell’Opening People. E cioè cercando di coinvolgere gli stessi performer e registi nell’impresa conformista, sforzandosi di convincerli a gestire in forma autonoma le loro carriere di libertari, imporre la loro auto-governamentalità critica. E non è questo un modo in fondo abbastanza coerente, e non schizofrenico, di essere un uomo o anche una donna, insomma un diverso, o uno di genere, di mille generi, ammesso che questi due termini siano coniugabili in un simile binomio, trinomio o multinomio? Comunque Gérard ci provava, ci voleva provare, e ancora una volta i risultati erano eccellenti, ma salvaguardati dall’emarginazione pianificata dallo sguardo del Grande Altro!

Che cosa hanno in comune queste biografie compendiose di critica, per dirla, ancora, con Shlomo, cosa hanno commesso di male? Lo stile dell’adesione non tramato di vicinanze rivoluzionarie, lo stile del distacco attenuato dalla reminiscenza; lo sperpero di valori costruttivi e delle emozioni libertarie, e la tristezza che sublima un gioco dissennato di incomprensioni; la sfida all’Occulto stesso attraverso la parola e la libera-azione; lui s’era fatto a immagine e somiglianza del verbum. Forse, infine, l’idea, la vaga impressione – fremito ultimo, palpito estremo – che dietro ogni comportamento radicale ci sia la nostalgia dell’originario, il luogo dove non si è costretti ad indossare maschere (o macchine fotografiche), per far apparire il nostro vero volto.