In questo momento della storia la tematica dei borghi è al centro del dibattito culturale. Complici le dichiarazioni di Stefano Boeri che da tempo sostiene la necessità di riposizionare lo sguardo su questi luoghi, attivando economie circolari che sappiano rispondere alle esigenze del momento, non ultime quelle aperte dallo scenario pandemico. Ma anche quelle, senza andare troppo lontano, dei bravi Simone D’Alessandro, Rita Salvatore e Nico Bortoletta curatori del volume “Ripartire dai Borghi per cambiare le città” che per la Franco Angeli Editore propongono una riflessione sull’insostenibilità dello sviluppo delle città emerso con chiarezza proprio dai cambiamenti messi in luci dalla pandemia.
Per quanto riguarda, invece, il tema dell’arte nello spazio pubblico o il supporto che buone pratiche del contemporaneo, mostre interessanti o variegati programmi culturali, possono offrire come risposta alla marginalizzazione di questi luoghi, esiste una ricca letteratura in cima alla quale si colloca Castelbasso. La storia del Borgo la conosciamo, si lega profondamente a quella dell’attuale “Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture” e in particolar modo a Osvaldo Menegaz che, nel lungo lavoro, iniziato nel lontano 1996, si è preso cura non solo della memoria della madre Malvina ma delle sue stesse radici traghettando, un passo alla volta, se stesso e la collettività alla scoperta di Castelbasso, oggi luogo e centro d’indiscussa qualità per le proposte dedicate al contemporaneo. Una tappa, insomma, imprescindibile per i cultori dell’arte e non solo, che non ha mai deluso e continua a non farlo.
Entrando nel merito delle mostre del 2020, va detto, innanzi tutto, che negli ultimi anni, in anticipo sui tempi e con lungimiranza, le strategie culturali della Fondazione hanno favorito ricerche indirizzate alla scoperta o riscoperta di attività e saperi della tradizione. Senza trascurare nomi nodali nel panorama del contemporaneo, probabilmente Castelbasso ha colto prima di altri la necessità di un tipo di lavoro diverso, non più incentrato sull’eco della grande mostra ma verso qualcosa capace di mettere in luce quel patrimonio materiale troppo spesso considerato ai margini della produzione artistica e rappresentato dall’artigianato.
LA FORMA DELLA TERRA. Geografia della ceramica contemporanea. Se lo scorso anno fu l’arazzo la tecnica indagata, come esplicitamente indica il titolo della mostra, oggi è la ceramica la protagonista di questo spaccato. Materia affascinante e talvolta imprevedibile, in un certo senso nella storia non ha mai smesso di essere percepita per la sua inevitabile declinazione di funzione d’uso. Che si tratti di vasellame o altro, è probabilmente proprio il suo dato oggettuale ciò che le ha impedito di essere abbracciata dal mondo dell’arte, sempre più marcatamente incline al concettuale o a un’astrazione nella pratica, diversamente da altri materiali. Eppure, percorrendo le stanze di Palazzo De Sanctis, sono proprio i grandi artisti, anche i più insospettabili, a mostrarci il grande potenziale espressivo della ceramica.
Fra terracotta dipinta, ceramica vetrificata o ingobbiata, sono maestri del calibro di Mimmo Paladino, Enzo Cucchi e Ugo La Pietra ad aprire questo percorso. Un percorso che in alcun modo si propone come esaustivo ma semmai, al contrario, punto di partenza o campionatura di base, utile a futuri e nuovi scenari espositivi, dove le opere in questione già lasciano intuire l’infinità di possibilità che offre la ricerca sulla materia. Fra i maestri giustamente ci sono anche Bertozzi & Casoni che della ceramica e di un certo iperrealismo della forma hanno fatto la propria cifra, lasciando deliberatamente che il proprio modo di fare oscillasse fra l’artigianato e il design e cogliendo, in tal senso, il valore del presente della ceramica.
Al piano superiore le opere sono molte, variegate, alcune davvero sorprendenti e raggruppate secondo l’origine e il luogo di lavorazione dell’argilla, sicché simultaneamente possiamo renderci conto, non solo delle singole risposte degli artisti alla pratica della ceramica, ma anche delle differenze peculiari alla tradizione artigianale. In questo gioco, passato e presente si conciliano nelle opere di: Luca Maria Patella, Vedovamazzei, Adrian Paci, Luca Vitone, Liam Gillick, Matteo Fato, Gino Marotta, Felice Levini, Luca Trevisani, Flavio Favelli, Piero Golia, Mathieu Mercier, Alberto Garutti e Eva Marisaldi.
Felice Levini, Castelbasso_ph. Roberto Sala Eva Marisaldi, Castelbasso_ph. Roberto Sala Liam Gillick, Castelbasso_ph. Roberto Sala
Altre due opere, infine, completano questo gruppo. La prima è la serie Senza Titolo di Enrico Castellani, una vera chicca per i cultori della materia e dell’artista perché il solo lavoro in tutta la carriera realizzato in ceramica. Di fatto tre bassorilievi dove stupisce la manualità di Castellani perfettamente in grado di replicare le sue tipiche punzonature su tela, ottenendo i medesimi giochi di luci e ombre ma con un materiale dove l’imprevedibilità finale gioca buona parte della sua riuscita. Abbiamo poi Modellare l’acqua di Mario Airò. Inutile dirlo, l’opera è straordinaria. D’altra parte proprio lei ha fatto vincere per la seconda volta alla Fondazione il bando Italian Council per essere mostrata in prima battuta a Tirana la scorsa primavera. Opera che in seguito sarà accolta nella collezione del Museo internazionale delle ceramiche di Faenza, diretta da Claudia Casali. Qui Airò, che per la prima volta si misurava con la ceramica, in questo caso quella tipica abruzzese e della città di Castelli, ha letteralmente modellato l’acqua e il suo scorrimento creando, nella manipolazione del tipico oggetto d‘uso – esattamente ciò cui facevamo riferimento poco sopra – un’installazione ambientale che ricorda una fontana. Dall’impalpabilità dell’acqua Airò ha plasmato concretamente lo spazio indipendentemente dalla sua collocazione, concentrando in questo lavoro manualità, tradizione, ricerca, estetica e poesia. Spezzando, per certi versi, il concetto di opera in-situ, mostra come esso stesso vada ricercato più nelle persone, nella conoscenza e nel fare che non nei luoghi e nella spettacolarizzazione di essi, pur mantenendo un’innegabile forza di attrazione che incanta lo sguardo.
Bravissimo e impeccabile come sempre il curatore Simone Ciglia, amico e collega cui va tutta la mia stima per avere organizzato una mostra dai toni sempre più coinvolgenti mano a mano che si sale di piano a Palazzo De Sanctis e per avermi e averci ricordato quanto importante sia il linguaggio della ceramica attraverso una selezione di artisti eccezionali. Ne abbiamo parlato di persona e prima che qualcuno possa obiettare la sola presenza femminile della Marisaldi in mostra, posto che non amo questo genere di discorsi, si sappia che è stata importante l’opera e non il genere. Fra l’altro lavoro, quello della Marisaldi, davvero ironico e concettualisticamente capace di giocare fra leggerezza e pesantezza nella riproposizione in ceramica di coriandoli carnevaleschi. Tuttavia, proprio questo aspetto so essere a cuore al bravo Ciglia e proprio questo potrebbe e ce lo auguriamo, essere motivo di un proseguo su questo versante di ricerca. Non è finita qui. All’ultimo piano incontriamo le opere di Salvatore Arancio, Stefano Arienti, Emiliano Maggi, Matteo Nasini e Giovanni Termini. Anche in questo caso descrivere ogni opera apparirebbe ridondante. Nel complesso, questa sezione, diciamo dedicata a una generazione più giovane, mostra come oggettivamente la ceramica non possa essere interpretata oggi secondo visioni antiche. Tutto è possibile se non addirittura sperimentabile. Un secondo capitolo dedicato a questo materiale e linguaggio è assolutamente auspicabile, direi necessario.
LE CHIAVI E LA SOGLIA
Avrei forse dovuto parlarne prima perché in realtà questo incredibile progetto si snoda nella piazzetta antistante Palazzo De Sanctis e in un certo modo introduce alla mostra stessa. A essere onesti ne ho/abbiamo parlato tanto. Ricordo le due interviste pubblicate in anteprima al curatore Pietro Gaglianò e all’artista Alessandro Fonte. Per un approfondimento su tutto il processo ideativo e realizzativo rimando al link che segue: https://segnonline.it/category/le-chiavi-e-la-soglia/
Doveroso è, dopo averlo visto con i miei occhi, dunque un commento. Le tre sculture, le tre sedie, realizzate a partire da quelle esistenti e appartenenti agli abitanti del borgo, sono bellissime e mai come in questo momento importanti. In un tempo dove il distanziamento sociale è un dovere, le tre sedie di Alessandro Fonte ci ricordano il senso di accoglienza e vicinanza delle persone, soprattutto quelle più umili e prive di mezzi. Ci riportano alla concretezza della vita, fatta di tempi e cose che assomigliano all’umanità e che nella rincorsa al progresso abbiamo trascurato. Ci riportano al Borgo, alla sua storia, ai suoi abitanti, a quel vivere che, come si diceva all’inizio di questo lungo articolo, oggi è ricercato dai più ma che qui c’è sempre stato e non se n’è mai andato. Così mi sono qui seduta pensando che l’Abruzzo, che non è la mia terra natia, è un po’ anche mia e che quella sedia forse è un po’ distorta come me, come noi, ma è anche mia, è anche nostra. Poi ho suonato la campana, fusa con le chiavi delle porte non più esistenti a Castelbasso e ho pensato che in una qualche maniera forse stavo suonando la storia di chi non c’è più ma ci sarà per sempre. Quando la semplicità incontra la poesia allora possiamo affermare che l’arte tramette il suo senso più autentico.
Alessandro Fonte, Castelbasso_ph. Roberto Sala
SARA’ PRESENTE L’ARTISTA. Ultima tappa quella di Palazzo Clemente dove ci troviamo per il terzo anno di fronte all’interessante format ideato sempre da Simone Ciglia e dove l’artista individuato, in questo caso Mario Airò, si fa curatore scegliendo, a propria discrezione, come organizzare una mostra con le opere appartenenti alla collezione della Fondazione. È evidente che per certi aspetti ci troviamo al cospetto di uno spaccato più rigoroso che, tuttavia, ritengo opportuno perché è un bene che la collettività conosca e apprezzi una collezione, che è vero essere della Fondazione, ma se lo è altrettanto quanto affermato finora circa la sua progettualità, è giusto fosse restituita nel tempo alle persone. L’artista non è un curatore e viceversa, ma il bello di questa idea sta proprio nello scambio di ruoli che lascia trasparire gusti, modalità progettuali e costruttive di natura ogni volta sorprendenti. Se anche alcune opere erano già state scelte dagli artisti delle precedenti edizioni, va da sé che queste nelle mani di Airò si propongono con sguardo differente. Con evidenza, il declinare dell’artista verso linguaggi di matrice spaziale e astratta, restituisce una mostra dalle cromie essenziali e un generale senso geometrico. Un senso ritmato dalla sua opera Diapason del 2019 che, magistralmente intervallata fra un’opera e l’altra, come uno spartito sembra essere la chiave che lega armonicamente l’intera esposizione. Dovuto e comprensibile, oltre che apprezzato è infine, nella prima sala, la messa in evidenza dell’opera di Ettore Spalletti che indubbiamente con i suoi colori ha creato una sinfonia d’arte che oggi tutti conosciamo.
Mario Airò – Ettore Spalletti, Castelbasso_ph. Roberto Sala