Carlo Valsecchi # 01125 Roana, Vicenza, IT. 2020 2020 C-Print, plexiglass con/with dibond 60 x 60 cm © Carlo Valsecchi

“Bellum” | Intervista a Carlo Valsecchi

Fino a fine anno è visibile presso la Collezione Maramotti “Bellum”: progetto artistico realizzato da Carlo Valsecchi.

Ideato in occasione del festival di Fotografia Europea 2022 dedicato al tema “un’invincibile estate” – argomento tratto da “Ritorno a Tipasa” di Albert Camus, un inno alla capacità di resistere alle avversità e alla creazione di nuove reazioni e considerazioni sull’esistenza umana – è Bellum: ultimo progetto artistico concepito da Carlo Valsecchi (nato a Brescia nel 1965 – vive e lavora a Milano) visibile fino al 31 dicembre 2022 presso la Collezione Maramotti, sede storica della società Max Mara.

Una mostra, commissionata dalla collezione emiliana al grande fotografo italiano, che mette a fuoco, attraverso fotografie di grande formato, il conflitto ancestrale esistente tra uomo e natura e tra uomo e uomo; l’uso della natura come difesa dall’altro uomo, nonché la difesa dell’uomo dalla natura. Incipit di tutto il progetto è la montagna intesa come luogo simbolo liminare tra l’ultima guerra di posizione e l’inizio del conflitto moderno.

Per conoscere ed approfondire la mostra Bellum ho avuto il piacere di intervistare il fotografo: Carlo Valsecchi.

Maila Buglioni: «Bellum è il tuo ultimo progetto artistico nato grazie alla Collezione Maramotti ed esposto in occasione del Festival della Fotografia Europea 2022. Un progetto incentrato sulla relazione tra uomo e natura che arriva ad interessarsi anche dell’impiego di quest’ultima come difesa dal nemico durante un conflitto armato. Come nasce questo progetto, profetico rispetto all’attuale realtà, e quali sono i motivi che ti hanno spinto a parlare della guerra attraverso la natura e in particolare mediante la montagna, luogo percepito come ostile fino al Novecento ovvero fino alla nascita del turismo di massa?»

Carlo Valsecchi: «Nel 2019 ricevetti l’invito da Luigi Maramotti e Sara Piccinini (direttrice della Collezione Maramotti) a riflettere sul rapporto tra l’uomo e la natura nell’ultimo periodo in cui questa relazione si può definire antica o pre-moderna, la Prima guerra mondiale (l’avvento dell’aviazione, per esempio cambiò radicalmente il punto di vista e quindi l’esperire questo antico rapporto). Decisi di “entrare” letteralmente nella storia, la nostra storia, dal 1900 al 1923 circa (la parte iniziale della Repubblica di Weimar).
Ho cercato nell’arte, nella saggistica, nella letteratura, nel cinema, nei documenti, un filo conduttore, una sottile linea rossa che potesse essere riconoscibile a me e perciò traducibile nel mio lavoro. Ho individuato un filo sottile che lega e avvolge la nostra esistenza: il fenomeno. Partendo da questa scelta ho provato ad addentrarmi nei fenomeni umani che si manifestano in tutti noi quando ci troviamo immersi in eventi pericolosi e tragici che inevitabilmente ci sovrastano, ponendoci irrimediabilmente in una sorta di stato di sospensione, di attesa, di silenzio interiore. L’esperienza della pandemia, con i debiti distinguo, era assai “vicina” purtroppo a quello che cercavo: come l’esperienza vissuta da ragazzo a Udine durante il terremoto del 1976. Tutto si collegava sul piano fenomenologico, dell’attesa, del non vedere, del non avere futuro, della sospensione… Ciò che leggevo o vedevo nella cinematografia di riferimento, l’esperienza quotidiana del lockdown, la memoria indimenticabile delle sensazioni provate durante i tragici giorni del terremoto: tutto questo flusso ininterrotto collegava naturalmente il passato e il presente in quello che cercavo di riuscire a vedere, il silenzio interiore che in questi momenti tutti noi intimamente proviamo.

La volontà di guardare alla montagna si riassume in questa frase:

Bellum trova nella montagna la sua simbolica rappresentazione, in quanto espressione estrema della natura ed insieme luogo dell’ultima guerra di posizione, uomo contro uomo.

La scelta di includere Vaia, la catastrofica tempesta anomala che si manifestò nel 2018 proprio lungo l’arco alpino teatro della Grande Guerra, la presi durante la seconda fase di studio (abbandonata la scrivania, andai nei luoghi con gli appunti presi, per verificare le analogie scaturite dalle parole scritte). La distruzione di Vaia possedeva in sé una assoluta connotazione visiva e di senso rispetto a quello che cercavo… dovevo solo scoprirla o semplicemente scorgerla. Per quanto riguarda la realtà odierna, trovo la nostra specie incapace e riluttante a imparare dalla propria storia. Tragicamente tutto si ripete, esattamente con le stesse modalità dalla Grecia Classica ad oggi.

Rispetto al tema del turismo di massa: il sergente medico nella scena finale del bellissimo film di Ermanno Olmi dal titolo “Torneranno i prati” lo dice a tutti noi. Riporto testualmente:

 “Finita anche questa guerra… tutti torneranno per dove sono venuti.

Qui sarà cresciuta l’erba nuova.

Di quel che c’è stato qui…

… di tutto quello che abbiamo patito… non si vedrà più niente…

… non sembrerà più vero…”.

Torneranno i Prati.»

M. B.: «Bellum, titolo del progetto, è un palese rinvio alla guerra e al De Bellum Gallico di Gaio Giulio Cesare – generale, politico e scrittore romano del I secolo a.C. – in cui il letterato descrisse, in maniera palesemente soggettiva e senza far a meno di descrivere le usanze ed i costumi del popolo nemico, la sua campagna militare. Tuttavia, Bellum, inteso come aggettivo, significa elegante, carino, leggiadro rinviando a qualcosa che non ha nulla a che fare con la brutalità del conflitto armato. Un’unica parola in cui sono congiunti concetti divergenti. Osservando i tuoi scatti nulla sembra rinviare alla belligeranza, anzi in essi ho trovato una grande attrazione, come se risucchiassero al loro interno lo sguardo dell’osservatore…»

C. V.: «Il lato oscuro della forza, il male che vive in noi, l’abisso, come sappiamo, è alquanto attrattivo…
Scusa, ho risposto di getto alla tua interessante domanda.
Bellum nasce proprio dall’idea stessa di doppio significato. La sua essenza si riassume propriamente in questa dualità con cui cerchiamo, nei migliori dei casi, di dialogare, provando a comprendere, fin dalla nascita dell’umanità. In estrema sintesi, vita e morte.
Tutto il mio lavoro ha sempre sotteso questa sintesi, che io lavori nell’industria o nel paesaggio urbano o nella natura il mio fine è sempre stato il rapporto tra vita e morte. Certo, nei precedenti progetti volutamente l’ho inserito a diverse profondità. In questo lavoro è come se avessi deciso di spogliarmi, di mettermi a nudo. Ho ritenuto di farlo perché credo sia giunto il momento nel mio percorso di apprendimento nella vita.
Ti ringrazio per le parole sui miei lavori in mostra. Ti rispondo citando un breve passo di Mark Rothko: “Dipingo quadri di grandi dimensioni perché desidero creare una situazione di intimità…”. (Mark Rothko, Scritti, Miniature, Abscondita, 2002) Mi interessa il rapporto intimo che può crearsi tra osservatore e opera, questo è l’aspetto focale per me. A quel punto io non ci sono più… il lavoro può essere libero e felice di muoversi nel mondo.»

Carlo Valsecchi, # 01162 Cogollo del Cengio, Vicenza, IT. 2021, 2021, C-Print, plexiglass con/with dibond, 120 x 150 cm. © Carlo Valsecchi

M. B.: «Nella tua fotografia, rigorosamente analogica ed eseguita attraverso il banco ottico, sono ravvisabili i tre concetti su cui essa si basa: luce (indispensabile per tale media), spazio (della montagna) e tempo (coesistenza di presente e passato). Immagini che non hanno nulla a che fare con l’istantaneità del mondo digitale e con la velocità della nostra vita, risultando bensì in linea con la realtà dell’Ottocento e gli esordi di questo nuovo idioma artistico. Raccontaci il tuo meticoloso modus operandi, le meditative fasi che precedono ogni scatto.»

C. V.: «Il mio lavoro si articola seguendo la triade spazio-luce-tempo. Non credo sia legato all’essere ottocentesco del mezzo che utilizzo… Se pensiamo ad ogni epoca passata, presente o futura, o la più futuribile che possiamo immaginare, forse potremmo scoprire che il ricorso al pensiero, prima dell’azione, sia stato, è e sarà fondamentale. Voglio dire con questo che non rifuggo all’istantaneità del nostro mondo contemporaneo, anzi, per alcuni versi è divertente. Ma quando entra in campo il vedere, l’apertura di una “finestra” verso un altrove, penso che la triade a cui faccio riferimento debba essere sempre rispettata, in modo da riuscire ad ottenere ciò che ho visto.
Il rispetto di questo modus operandi prevede il giusto distacco dal “correre veloci” per concentrarsi sull’atto del vedere e sulle conseguenti naturali analogie che scaturiscono. Ci sono fotografie realizzate in 30 minuti e altre che hanno richiesto un anno e mezzo. Ogni lavoro possiede in sé il suo giusto tempo e la sua corretta dimensione spaziale. Bisogna fermarsi ed ascoltare il canto dello spazio… Quando tutto si accorda davanti a me allora vuol dire che ho trovato quello che cercavo.

Bellum ha richiesto molto tempo nella ricerca dei luoghi, parte questa assai faticosa e complessa trovandoci in piena pandemia. Cercavo degli spazi che riassumessero e condensassero in sé l’idea di sospensione, di attesa, di cecità. Una volta trovati, ho lavorato come faccio sempre, a stretto contatto con il fattore meteorologico, un alleato mutevole e capriccioso, soprattutto in montagna. Volevo un determinata tipologia di luce, di condizione atmosferica, che dovevano svolgere un compito fondamentale nella realizzazione delle fotografie che avevo deciso di produrre. La luce per me è qualcosa di “fisico”, la si può toccare, plasmare, dirigere, aumentare o togliere. Lavorare con la luce naturale richiede pazienza, saper attendere il momento che hai pensato e visto e, solamente in quel preciso momento, coglierla.

Ricordo spesso questo passo: “Il mondo indo-buddista, alcune religioni animiste e scismatiche cercano ancora di tramandare questa meravigliosa e antichissima conoscenza, ma come può la voce del vento essere ascoltata se si resta in discoteca? Bisognerebbe dire all’umanità intera ‘vai nel deserto ed ascolta’. Forse ricorderebbero…”. (Bill Viola, Reflections, Riflessioni oltre la soglia del visibile, Maria Rosa Sossai, R. Frascarelli, storica delle religioni, orientalista e iranista. Silvana Editoriale, 2012.) Questo breve passo, più di mille parole spiega in sintesi quello che penso e che faccio quando lavoro.»

M. B.: «Osservando la montagna e calandoti nei panni di un osservatore dell’inizio del Novecento hai cercato di rintracciare, tra neve e l’incolta vegetazione, stretti passaggi, cunicoli, trincee abitate da corpi perduti, cavità rocciose, forti militari e i loro resti e molto altro. Tre anni trascorsi in questi paesaggi naturali al di fuori della realtà metropolitana e di tutto ciò che l’uomo ha finora costruito per abitare e sopravvivere. Quali sono state le emozioni e sensazioni provate? Hai provato nostalgia della vita quotidiana?»

C. V.: «No, non ho provato nostalgia della vita quotidiana. Semmai il contrario…

Quando provi ad immergerti in una dimensione altra, rispetto alla tua, inevitabilmente sei risucchiato nei tempi, nei modi di questa “nuova” vita. È inevitabile. Voglio poter vivere in modo approfondito ciò che non conosco, così da poter imparare e, attraverso l’apprendimento, apprezzarne le qualità che, per ovvie ragioni, saranno completamente diverse da quelle del tuo luogo di provenienza. È una grande fortuna questa, secondo me, data dal mio lavoro. Un dono ricevuto ogni qualvolta affronto un “nuovo mondo”.

Le sensazioni sono state le più disparate. Potrei dirti che attraverso questo lavoro ho capito cosa significa “amare la montagna” per esempio. Fausto Radici, persona fondamentale per la mia crescita di uomo e artista, amava veramente la montagna. Facevamo discussioni infinite su questo tema ed io non riuscivo a comprendere veramente cosa significasse questo suo amore. Ora, se fosse tra noi, potrei spiegarlo con le mie parole… e lui, per come l’ho conosciuto, abbozzerebbe il suo sorriso con la sua inconfondibile luce negli occhi.

Oppure potrei raccontare l’incredibile viaggio nella mia vita, una sorta di percorso analitico parallelo, che ho vissuto, partendo dalle scuole elementari fino al momento in cui mi trovavo lassù sulle montagne.»

M. B.: «Molti dei tuoi progetti precedenti hanno come focus l’industria, l’architettura ed il paesaggio urbano impiegati per raccontare i luoghi del lavoro, mentre qui la tua attenzione è focalizzata ad indagare il lato oscuro dell’umanità, la crudeltà della guerra e delle sue conseguenze senza mai immettere l’uomo, la cui presenza aleggia in ogni fotografia rammendando le deserti piazze dechirichiane..»

C. V.: «Spazio-luce-tempo.

Di questo si tratta in realtà. Che sia l’industria, l’architettura, il paesaggio urbano o il lato oscuro dell’umanità.

La vita è bella… pur essendo faticosa, complessa e purtroppo tragica. Le due facce della Luna albergano simultaneamente in noi (la parte in luce e quella al buio). In molti lavori precedenti si può leggere questa dualità, spesso celata all’interno della stratificazione dei significati, oppure costretti frontalmente alla sola parte di una delle due facce. In Bellum tutto questo affiora, esce nella luce anche quando è buio. Si manifesta così per come è.

Non immetto mai l’uomo perché amo l’umanità. Tutto parla del pensiero dell’uomo, del suo fare, costruire, abitare, del suo incedere nella vita. Avendo rispetto per l’uomo penso sia un ossimoro inserirlo dal punto di vista figurativo.

Le piazze dechirichiane ricorrono nel mio lavoro, come in Bellum, ma qui quello che ho inseguito è piuttosto lo scenario intimo e fisico del “Deserto dei Tartari”, l’attesa, il non vedere… coniugato alla relazione vita-morte.

Ho cercato sempre di entrare nel sistema “nervoso” dello spazio davanti a me, provando ad individuare i punti topici per la mia poetica. In queste definizioni, in questi focus non ci sono differenze nel mio modo di vedere. Appartengono tutte alla costruzione di quella gigantesca fotografia che sto costruendo, un pezzo alla volta, e che so che non potrò mai terminare: non smetterò mai di assemblarla fino al termine della mia stessa vita.»

M. B.: «In occasione della mostra Bellum è stato pubblicato l’omonimo volume con testi di Florian Ebner, curatore capo del Cabinet de la Photographie del Centre Pompidou di Parigi, e Yehuda E. Safran, critico d’arte e di architettura e professore presso il Pratt Institute di New York. Tale pubblicazione contiene tutte le quarantaquattro fotografie di grande formato che raccontano il progetto mentre in esposizione, presso la Collezione Maramotti, sono visibili al pubblico solo una ventina di esse. Quali parametri sono stati seguiti per selezionare gli scatti proposti in mostra?»

Carlo Valsecchi, Bellum, veduta di mostra / exhibition view, Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Ph. Roberto Marossi

C. V.: «Il corpus del progetto conta 44 fotografie + 1 (un’immagine scelta per la copertina de “La Lettura” del Corriere della Sera).

La sequenza delle fotografie nel libro l’ho realizzata nel corso di alcuni mesi di lavoro. Ma, da un certo punto di vista, aveva iniziato a prendere forma in modo embrionale durante i sopralluoghi e alle fasi successive di produzione. La mostra è un distillato, tra i molti possibili, di questo movimento in levare.

Avevo definito gli spazi assieme a Sara Piccinini, c’è stato un confronto assiduo nei vari passaggi, da cui è nata la mostra. Ho cercato di creare un “movimento in crescendo”, senza pause. Tutto doveva salire fino ad arrivare all’ultimo lavoro posto nell’ultima parete dell’ultima stanza, “PRESENTE”. Come nel libro, PRESENTE chiude, staccato dalla sequenza, perché racchiude tutto e al contempo apre, ci porta concettualmente nel passaggio storico successivo. Anche le dimensioni dei lavori sono state definite in relazione allo spazio e a questa idea di movimento, di raccordo tra ogni sala e quella successiva, in un flusso continuo ed armonico. Importante è stata la decisione di costruire due pareti all’entrata della mostra – una sorta di cannocchiale architettonico – e di ridurre le dimensioni della prima sala: volevo creare una situazione di attraversamento, una soglia da varcare per entrare in un luogo diverso, concentrando lo sguardo sulla prima opera nera.»

M. B.: «Cosa ti aspetti che rimanga allo spettatore di Bellum

C. V.: «Domanda complessa… Il rapporto di intimità, se c’è stato, tra visitatore e opere. Questo rapporto è ciò che interessa a me. Difficile parlare dell’intimità di questo rapporto, se avviene ovviamente. È soggettiva. È una questione privata. L’arte pone domande, non può dare risposte. A questa tua domanda, faccio veramente fatica a trovare una risposta.»

M. B.: «Prossimi progetti? Puoi svelarci qualcosa?»

C. V.: «Tanti pensieri, forse tanti progetti, vedremo.»

Informazioni Catalogo:

Titolo: Carlo Valsecchi. Bellum

Testi di: Florian Ebner, Yehuda Emmanuel Safran

Editore: Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano

Anno di pubblicazione: 2022

Numero di pagine: 112

Dimensioni: 33,5 x 26,8 cm

Lingua: italiano / inglese / tedesco

Prezzo di copertina: 34 €

Volume acquistabile anche online sul sito: http://www.silvanaeditoriale.it

Informazioni della mostra:

Carlo Valsecchi, Bellum

Collezione Maramotti

Via Fratelli Cervi 66 – 42124 – Reggio Emilia     

Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente.

giovedì e venerdì 14.30 18.30
sabato e domenica 10.30
18.30

Email: info@collezionemaramotti.org

Website: collezionemaramotti.org

Maila Buglioni

Storico dell’arte e curatore. Dopo la Laurea Specialistica in Storia dell’arte Contemporanea presso Università La Sapienza di Roma frequenta lo stage di Operatrice Didattica presso il Servizio Educativo del MAXXI. Ha collaborato con Barbara Martusciello all’interno dei Book Corner Arti promossi da Art A Part of Cult(ure); a MEMORIE URBANE Street Art Festival a Gaeta e Terracina nel 2013 e con il progetto Galleria Cinica, Palazzo Lucarini Contemporary di Trevi (PG). Ha fatto parte del collettivo curatoriale ARTNOISE e del relativo web-magazine. Ha collaborato con varie riviste specializzate del settore artistico. È ideatrice e curatrice del progetto espositivo APPIA ANTICA ART PROJECT. È Capo Redattore di Segnonline, coordinando l'attività dei collaboratori per la stesura e l’organizzazione degli articoli, oltre che referente per la selezione delle news, delle inaugurazioni e degli eventi d’arte. Mail eventi@segnonline.it