Conversazione con il filosofo che più ha inciso sulla scena artistica americana
ELIO CAPPUCCIO: Nel suo libro La destituzione filosofica dell’arte, di recente pubblicato anche in Italia dalle edizioni Tema Celeste, lei si occupa del modo in cui la filosofia ha tentato, nel corso del tempo, da Platone ai nostri giorni, di delegittimare l’arte. Ha però sostenuto che mentre l’arte potrà continuare ad esistere anche in un ambito post-storico, la filosofia non avrà una fase post-storica. Quali forme l’arte assumerà dopo la fine della storia?
ARTHUR C. DANTO: In una recente intervista rilasciata a un giornale finlandese ho affermato che mentre l’arte è giunta a una fine senza cessar di essere, la filosofia ha cessato di essere senza giungere a una fine. Con ciò intendevo dire che attualmente la filosofia si trova in un momento di stasi, ma che a mio avviso essa giungerà a una fine, una vera e propria fine, allorché tutti i suoi interrogativi avranno avuto risposta. Non potrà dunque avere una seria fase post-storica. L’arte, al contrario, ha ancora molte cose da fare: ciò che la mia teoria esclude è che l’arte continui la sua grande storia di perseguimento della conoscenza della propria natura. Vi è attualmente una notevole attività esplorativa, un ritorno, per esempio, a una vera cultura della pittura, fatto, questo, testimoniato dal riemergere dell’astrazione. Ciò è comunque in coerenza con la fotografia, con il genere di opere figurative che vediamo in tanti artisti contemporanei—è in coerenza anche con la rivitalizzata artigianalità, con gli artisti che lavorano il vetro e la ceramica, che fanno mobili e tessuti.
Nel tentare il possibile per accrescere la coscienza delle problematiche che gli artisti reputano importanti, l’arte ammette ogni genere di finalità politica. Il nostro è un mondo artistico di assoluto pluralismo: è, questo fra tutti, il momento di massima libertà, dovrebbe essere anche il momento meno ideologico.
ELIO CAPPUCCIO: Lei è giunto alla filosofia dopo esperienze artistiche e si è formato nell’ambito della filosofia analitica. Come si è posto, lungo il suo percorso intellettuale, di fronte all’espressionismo astratto e alla Pop art?
ARTHUR C. DANTO: Durante la mia esperienza d’artista il movimento imperante era costituito dall’espressionismo astratto e io cercavo di operare in quell’ambito, quantunque non fossi mai stato attirato dall’astrazione in sé. Credevo nella figura, tuttavia il modo in cui affrontavo la figura non era semplicemente espressionista, bensì espressionista alla maniera newyorkese, con un bel po’ di enfasi sulla fisicità del colore. Lasciai l’arte nei primi anni ’60, in quanto il mio interesse per la filosofia era aumentato moltissimo e mi ero accorto che preferivo scrivere di filosofia piuttosto che fare arte. Il mio primo saggio sull’arte risale al 1964; naturalmente fu ispirato dalla Pop art, che mi stimolò intellettualmente, convincendomi che sarebbe stato possibile scrivere filosoficamente sull’arte (mai mi era capitato di pensare filosoficamente all’espressionismo astratto). Il mio saggio del 1964, The Art World, ebbe molta risonanza, anche se poi non scrissi più nulla di serio sull’arte fino ai tardi anni ’70, quando cominciai a comporre The Transfiguration of the Commonplace, un libro che non sarebbe potuto nascere senza lo stimolo della Pop art. Per certi versi la mia filosofia dell’arte è una specie di storia personale del mio coinvolgimento nel mondo dell’arte.
ELIO CAPPUCCIO: La filosofia americana è stata dominata per lungo tempo dal pensiero analitico e sembra oggi, in molti settori, incline al decostruzionismo. L’ermeneutica, d’altra parte, non ha assunto l’importanza che le viene attribuita nell’ambiente accademico —e non solo accademico— in Europa. Crede che il decostruzionismo e l’ermeneutica possano in qualche modo giungere ad un dialogo proficuo con la filosofia analitica?
ARTHUR C. DANTO: I filosofi americani vengono istruiti quasi nello stesso modo in cui vengono addestrati gli scienziati, ma certamente non nel modo in cui furono educati gli umanisti, e decisamente non nel modo in cui sono ora istruiti gli studenti di letteratura sotto la violenta spinta della Decostruzione, la quale rappresenta tutto ciò che i filosofi imparano a considerare ripugnante: è imprevedibile, arbitraria, nebulosa, strampalata e frivola — proprio ciò che i filosofi apprendono a non essere. Dunque, no: non vedo in questo campo alcuna possibilità di dialogo. L’«orribile esempio»dei dipartimenti di letteratura impedirà che ciò avvenga. L’ermeneutica, in quanto teoria dell’interpretazione, è una questione diversa. È ancor troppo ponderosa, teutonica e vaga. Ma nella filosofia dell’arte vi è un continuo interesse per l’interpretazione, è dunque inevitabile che l’analisi ermeneutica trovi spazio nella nostra disciplina. Quella che emergerà sarà, tuttavia, una teoria dell’interpretazione professionalizzata e, a mio parere, logicizzata.
ELIO CAPPUCCIO: La scena artistica a New York sembra dominata da forme di astrattismo che non tendono più ad offrirci una visione autentica, eidetica, del reale, ma la griglia dei significanti. Secondo lei, che rapporto vi è tra l’astrattismo dei nostri giorni e le forme di pensiero attualmente dominanti? Mi riferisco al decostruzionismo, al dibattito sul postmoderno e alla fine della storia così com’è da lei teorizzata nel suo libro, La destituzione filosofica dell’arte.
ARTHUR C. DANTO: Suppongo sia possibile considerare l’astrazione contemporanea come «griglia di significanti»; sarebbe, comunque, altrettanto possibile leggere a questo modo anche l’astrazione classica: Gottlieb, Rothko, de Kooning, Motherwell erano fortemente attratti dai significanti. Mi è difficile dire quale sia il rapporto tra l’attuale arte dei significanti e le forme di pensiero del nostro tempo. Ciò, come minimo, richiede il distacco dal tipo di estetismo che dominò la scena critica negli anni ’50. Ovviamente l’interesse per i significanti appare più marcato in alcuni artisti che in altri, in Jonathan Lasker, per esempio, o in Peter Halley, o in Fiona Rae. Non son certo che ciò sia egualmente valido nel caso di maestri quali Sean Scully e David Reed.
ELIO CAPPUCCIO: Alla perdita del referente sembra aggiungersi, nelle forme d’arte a noi contemporanee, un’assoluta perdita della realtà, così come questa si presenta nella comune esperienza. In quale rapporto figurazione e astrazione si pongono nell’arte dei nostri giorni?
ARTHUR C. DANTO: Non credo che il «referente» sia scomparso in un modo tanto assoluto quanto la sua domanda sembra sottintendere. Ciò che forse è effettivamente scomparso, quantunque l’affermazione sia ovvia visto che stiamo parlando di astrazione, è un certo stile di figurazione. A mio avviso, tuttavia, è opportuno che gli astrattisti non si allontanino dai figurativi tanto drasticamente da non riuscire più ad avere un colloquio con loro o a considerarne l’influenza. E poiché si può essere figurativi o astratti con eguale facilità, è difficile capire che cosa significhi oggi seguire l’una o l’altra strada. Ciò fa parte del pluralismo. Gli artisti sfruttano tutto quello che vien loro per le mani — figure, forme, significanti, macchie. Il pluralismo del momento è esemplificato in tutte le scelte attuate.

The Philosophical Disenfranchisement of Art — ora tradotto anche in Italia — è stato segnalato dal «National Book Critics Circle» come uno dei migliori libri del 1986. Arthur C. Danto, oltre ad essere filosofo tra i più importanti in America, è anche critico d’arte e cura una rubrica su The Nation. Le sue opinioni sono oggetto di dibattito all’interno del mondo dell’arte americano. In Italia è stato pubblicato Filosofia analitica della storia, Il Mulino, Bologna, 1971. Inoltre, una lunga intervista gli è dedicata nel libro Conversazioni americane di Giovanna Borradori, pubblicato da Laterza, Bari, 1991.
