Sophie Virilio foto copyright S. Virilio 17.Biennale Venezia Padiglione del Libano a cura Hala Wardé 2021

Arte e Rivelazione per un Museo di Paesaggi evenemenziali

Architetti e urbanisti, filosofi e ricercatori, orticultori e botanici, antropologi e sociologi, pedagogisti e agitatori, autori fantascientifici ed editori, provenienti da stati europei. da Israele, dal Medioriente, dalla Gran Bretagna, dal Marocco, si sono dati convegno a Venezia per delineare, su un orizzonte lagunare, il tanto paradossale quanto operazionale Museo dell’Incidente, ideato da Paul Virilio per un progetto a cura di Hala Wardé e del collettivo del MA Paul Virilio.

Noi, eredi e successori di Paul Virilio, figli dell’iper-accelerazione, non vogliamo più essere solo testimoni o vittime. Rifiutiamo la banalizzazione dell’incidente. La sua cancellazione. Esponendolo, esponiamo la radice dell’umano. […] Vogliamo un MUSEO DELL’INCIDENTE che sia spazio architetturale dell’inabituale, dell’inverosimile, dell’inatteso…luogo di PAESAGGI EVENEMENZIALI.

Sophie Virilio, estratto dal Manifesto

È una Venezia, ora dorata dal sole di novembre, ora avvolta da una nebbia perlata, quella dei giorni di finissage della 17. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale veneziana, curata dall’architetto, docente, ricercatore, libanese, Hashim Sarkis. Giusto nei giorni dal 19 al 21 si è aggiunto un nuovo, intenso capitolo alla storia in fieri del Museo dell’Incidente/Musée de l’Accident, progettato da Paul Virilio e messo virtualmente in opera da un gruppo di ricercatori che hanno il loro fermo referente in Sophie Virilio, la figlia scrittrice e in Hala Wardé, l’architetta franco-libanese, collaboratrice di Jean Nouvel.

Paul Virilio, Parigi, 4 gennaio 1932, Rueil-Malmaison, 10 settembre 2018, fotografia © Sophie Virilio

A questa etica, genialmente profetica, figura di urbanista, scrittore, pensatore, ideatore di Antiforme in pittura, Hala Wardé ha dedicato non solo il Padiglione del Libano Un Tetto per il Silenzo/A Roof for Silence, da lei curato nei saloni dei Magazzini del Sale, alle Fondamenta delle Zattere, ma anche la promozione di un laboratorio internazionale in progress di dibattiti, seminari, interviste, puntualmente registrati e filmati dall’Atelier de recherche temporelle, a cura dell’architetto Jean Richer. Gesti, ritualmente fondativi del progetto, sono stati quelli del lancio della prima pietra nel mare di La Rochelle, il 1° aprile 2021, dell’affissione del manifesto a Venezia il 21 maggioseguita, il 22, dal viaggio del secondo schizzo del museo in una bottiglia che l’architetta Virginie Segonne ha affidato alla corrente delle maree veneziane.

Di fronte a un Paul Virilio che attribuisce all’Incidente, come stimolatore di consapevolezze, il potenziale di rivelare la sostanza, cosa risponderebbe lo stesso Jean Richer, teorico di un ripensamento temporaneo degli spazi urbani, già studente di Virilio?

«Detto semplicemente, basta osservare un bambino che, dopo una caduta dalla bicicletta, contempli la sua ferita: lo affascina l’affiorare della carne viva. Certamente capite che è proprio la sostanza del suo corpo che vede – ciò di cui è fatto – al di là delle apparenze di un riflesso su uno specchio. Un chirurgo che opera un paziente non subisce lo stesso fascino, perché l’azione medica è programmata. La rivelazione implica dunque l’inatteso. Da parte mia credo che l’incidente sia una risorsa immateriale». 

In collaborazione con il Padiglione libanese e con HW Architecture-Paris, nei giorni del finissageveneziano, il comitato del Museo dell’Incidente, alla presenza di Roberto Cicutto, nuovo presidente della Biennale nominato dal Ministro Franceschini, apre un confronto seminariale per 33 convitati internazionali, sull’analisi della sostanza dell’incidente e della ricerca di quella nuova intelligenza che Virilio non cessa di perseguire alla luce del suo, intenzionalmente paradossale, Museo a venire, con una possibile localizzazione multipla. Nel contesto della Reale, mitica, Società Canottieri Bucintoro delle Zattere, consonante marinara del fantamuseo, trovano sede conviviale la cena Venezia Verde e il pranzo Un Mondo che sopravviene, nel segno dell’orticultura e di un’interazione di saperi biogenetico-etno-ambientali, a cura del cuoco-antropologo Yassir Yebba, il cui motto suona, in lingua francese, commencer par la fin/commencer par la faim, cominciare dalla fine, cominciando dalla fame. Una pausa meditativa, a luci spente, accompagna l’intervento sulle Immagini mentali di Ethel Buisson, pedagogista, già frequentatrice dei seminari di Virilio.

L’occasione veneziana, è anche propizia alla presentazione del Cahier Paul Virilio dal titolo “Dromologie-La vitesse c’est l’état d’urgence 01Alcuni componenti del comitato editoriale presenziano l’articolato appuntamento venezianoTelepresenti restano  Stéphane Paoli, brillante giornalista, autore del film su Virilio, del 2008, Penser la vitesse/Pensare la velocità e Jean-Pierre Giovanelli, artista-architetto «sostanziale, mai virtuale», a detta dello stesso Virilio. Non manca all’illuminante, gustoso, convito, Ines Weizman, ricercatrice al Royal College of Art di Londra. Un significativo «incidente di programmazione», che entra, trasversalmente, nel contesto degli eventi sul Museo Virilio, è la visita alla mostra Claudio Costa-Hermann Nitsch. Il viaggio nell’ancestrale alla Galleria Michela Rizzo. Una foto della targa della galleria e del manifesto, firmata Sophie Virilio, si fa documento inatteso di una mostra in cui il percorso antropologico di Costa (Work in regress) interagisce con l’azionismo catartico viennese/Wiener Aktionismus di un Teatro delle Orge e dei Misteri/Das Orgien Mysterien Theater.

A proposito di esperienze visibili del pensiero e di un’Arte rivelazionaria/Un Art Révélationnaire, Paolo Fabbri ha parlato del «Gusto di Paul Virilio per la penultima parola/Le goût de Paul Virilio pour la pénultième parole», utilizzando tale espressione come titolo del suo saggio nel quaderno 01 di “Dromologie,dalla pagina 133 alla 139. 
Pensatore forte nei contenuti e nelle forme della scrittura e dell’architettura, Paul Virilio – figlio di un italiano comunista, di origine genovese, emigrato in Francia, e di una cattolica bretone – nell’ibridare, derridianamente, i termini rivelazione e rivoluzione ne muta impercettibilmente il divenire, come ne converrebbero gli amici Deleuze e Guattari, noti autori di “Mille Plateauxˮ. «Teorico dell’architettura obliqua, fatta di spazi interni senza soluzione di continuità, attraverso la concatenazione di piani obliqui e orizzontali, Virilio ha costruito a Nevers con Claude Parent – continua Paolo Fabbri nello stesso saggio – una chiesa-bunker (Sainte Bernadette de Banlay) che ha influenzato archistar come Jean Nouvel. La Fonction Oblique è una tendenza strategica che punta a sottrarsi all’opposizione verticale e orizzontale, un ideogramma che lo ha condotto, passo dopo passo, al suo contrario: la smaterializzazione contemporanea delle virtualità».

Il paradosso, cui si fa cenno, è quello di un urbanista/filosofo, lungimirante e profetico – fenomenologo formatosi alla lezione di Merleau-Ponty, alla teoria delle catastrofi di René Thom – che ha progettato, prima di scomparire, il 10 settembre del 2018 a Parigi, un Museo sospeso tra apparizione e sparizione, esito critico della dimensione nefasta di quell’accelerazione tecnologica che viene insidiosamente denominata “progresso”. Precursore di una globalizzazione dell’incidente, di una, remota o avveniristica, panspermia delle galassie, di quella pandemia planetaria, generata, per via di una prossimità filogenetica, da un salto virale dall’animale all’uomo, come la subiamo drammaticamente ggi, Virilio ci induce a prendere coscienza, attenta e responsabile, di quanto sta per accadere, monito mosso da quel Ce qui arrive, che è diventato anche il titolo di una sua mostra alla Fondation Cartier pour l’Art Contemporain di Parigi, documentata da una pubblicazione Actes Sud, 2002.

Il 14 novembre 2021, solo cinque giorni prima del raduno a Venezia per la conclusione ufficiale della Biennale e conseguentemente del Padiglione del Libano, scompare a Parigi Etel Adnan: la poetessa-artista libanese-statunitense che ha dedicato a Olivia – Dea mediterranea degli Ulivi i suoi solari sedici tondi, dipinti per la lunare struttura ottagonale, firmata H. Wardé, sottesa a un simbolico tetto bianco semisferico. Disseminando, nell’oscurità, il cerimoniale percorso espositivo di bugie accese, la curatrice celebra un doppio omaggio alle Antiformes di Virilio e all’opera di una gran donna che si è ritratta nell’aforisma Scrivo ciò che vedo, dipingo ciò che sono. Dopo la diffusione audio delle parole della stessa Etel Adnan, riprese da un’intervista, è la voce di Hala Wardé a dar lettura, in francese, di una poesia tratta dalla raccolta Night, lettura subito ripresa, in inglese, dalla voce di Michael Holbrook Penniman Jr., il cantautore libanese, naturalizzato britannico, più noto come Mika: emozionale testimonianza che restituisce la parola al canto, la pittura al gesto. A Roof for Silence diventa così altare veneziano di una cultura senza confini, di uno spazio senza tempo.

Un Museo dell’Incidente è chiamato a mettere in forma lo spazio, non solo a partire dal dispiegamento delle potenzialità percettive, cognitive, psicofisiche, neuroestetiche, del corpo, ma anche a partire dal corpo-a-corpo del soggetto umano con i dispositivi materiali e immateriali che il suo immaginario prometeico ha messo in circolo. Inevitabile è il rimando a quei momenti chiave della rivoluzione industriale in cui prende progressivamente forma la figura del macchinismo nella produzione di oggetti e di mezzi che rispondano ai bisogni 
indotti dal sistema, come teorizza Agnes Heller. Di fronte alla subalternità dell’uomo nei confronti delle macchine da lui stesso create e che tendono, nel tempo, ad acquisire autonomia, alterando irreversibilmente l’ambiente e la vivibilità sul pianeta, interviene, già dal 1956, Günther Anders, primo marito di Hannah Arendt, con il suo testo “L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale”. Nel saggio si configura quella condizione di vergogna prometeica che esprime l’angosciante divario tra l’uomo e i suoi prodotti, la perdita di un rapporto sincronico con il suo divenire esistenziale, in cui i fini si scambiano irresponsabilmente con i mezzi. Indotta dai persuasori occulti dei mass media, dalla propaganda subliminale, dalla virtualizzazione tecnologica del reale, da processi di desoggettivazione dell’umano e umanizzazione dell’oggetto-feticcio di consumo, si profila così quella socialità dell’apparenza, quella spettralità diffusa, su cui si intrattiene anche il socio-filosofo tedesco Georg Simmel.

Sophie Virilio foto copyright S. Virilio-17.Biennale Venezia Padiglione libanese a cura Hala Wardé

Virilio archi-artista, non chiede all’estetica contemporanea, in ogni sua espressione, di essere rivoluzionaria, ma solo rivelatrice delle potenzialità, delle intensità del soggetto umano calato nel contesto di un pianeta che lo accoglie, lo accompagna, lo supporta nella sua parabola vitale. Non chiede agli architetti artisti di cartografare una fine annunciata del mondo, ma di esperirne il versante inesplorato, impensato, visionario, sorprendente, per registrarne tremori, sussulti, rischi, per prevenirne momenti di crisi. L’asservimento alla teledistanza, all’accelerazione, all’istantaneismo del tempo reale, all’immersione totale nelle immagini virtuali della TV, del cellulare, del computer, del fotogramma filmico, ci hanno resi ciechi verso la realtà esterna.

La visione dell’incidente, da parte di Sophie Virilio, prende le distanze dal momento spettacolare per coglierne piuttosto il divenire, in qualche modo la storia quasi di romanzo non scrivibile, vivibile forse come «oscuro presentimento». In quanto scrittrice, il suo approccio all’incidente si configura come una narrazione en ralenti, che prenda tempo di scena in scena, spazializzando e deterritorializzando la forma narrativa, dilatandone gli interstizi fino a mutarla in un’antiforma. Per uscire dall’astrazione, intende fare dell’incidente un soggetto i cui dispositivi percettivo-sensoriali ne modellino strutturalmente la parvenza meta-scenografica. Sua convinzione è che la finzione narrativa che distanzia tra loro i reali momenti dell’incidente, si avvicini alla realtà molto maggiormente del documento, cosiddetto oggettivo, della fotografia e del video. Le previsioni dei romanzi di Aldous Huxley insegnano.  «Immagino un Museo dell’incidente – conclude Sophie Virilio – come un attore fuori scena, il protagonista di un romanzo che, nel presentarsi al pubblico, incominci a decostruirsi lentamente, sensorialmente, progressivamente, assumendo, nella mutazione, sembianze ibride, subumane, extraterrestri, astrali, animali, vegetali». Far entrare l’incidente nel museo è comprenderne la traiettoria, la risorsa finzionale, immateriale. L’incidente ci ha preceduti e ci sopravvivrà e, come suggerisce Paul Virilio «occorre partire dalla fine, altrimenti detto: andare verso la nostra giovinezza» per comprenderlo.


[1] Edizioni Eterotopia France, nel cui comitato editoriale figurano Thierry Paquot, Jean Richer, Marco Assennato, Thomas Billard, Ethel Buisson, Simon Dawes, Jac Fol, Sharon Rotbard, Virginie Segonne, Tiziana Villani, Sophie Virilio, Hala Wardé, Eyal Weizman.

Finissage, 19-20-21 novembre 2021 
17. Mostra Internazionale di Architettura–La Biennale di Venezia, 
a cura di Hashim Sarkis, impostata sulla domanda. How will we live together?/Come vivremo insieme? 
A Roof for Silence/Un Tetto per il Silenzio-Omaggio a Paul Virilio a cura di Hala Wardé

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