Ideata e curata da Guido Comis, con il contributo di Linda Carelli e Daniele Capra, l’esposizione Architetture Trasparenti si inserisce nel programma GO! 2025&Friends, anticipando il significativo evento di Nova Gorica–Gorizia Capitale Europea della Cultura. La curatela attenta e meticolosa di Comis, frutto di uno studio approfondito e di una profonda collaborazione con gli artisti, ha generato un racconto espositivo tanto lineare quanto fluido, orchestrando una rara sintonia e comunicabilità tra gli spazi storici della Villa e le opere. L’intero percorso è intrinsecamente ancorato al tema della trasparenza e della valicabilità. Architetture Trasparenti propone un’indagine acuta sulla natura del confine, qui reinterpretato non come un limite statico e divisivo, ma quale area di attraversamento porosa e dinamica, capace di accogliere trasformazioni, scambi e nuove prospettive. Tale visione risuona emblematicamente con la storia di Gorizia e Nova Gorica, un tempo separate da una frontiera e ora icone di coesistenza culturale. In questo contesto, il progetto curatoriale eleva la trasparenza da mero codice visivo a principio generativo, divenendo veicolo per esplorare dimensioni che trascendono la materialità immediata, facilitando comunicabilità e interazione e ponendosi come metafora di apertura e dialogo attraverso le barriere spazio-temporali. L’evento espositivo si articola attorno a un’esperienza percettiva e relazionale in cui spazio, corpo e tempo si intrecciano in un continuum sensibile, dissolvendo le coordinate tradizionali della visione e conferendo all’osservatore un ruolo attivo, immersivo e trasformatore.
Sedici installazioni, collocate tra gli ambienti storici della villa, la barchessa orientale e il vasto parco, compongono un itinerario che destabilizza e riscrive la grammatica dello sguardo. L’esposizione offre una suggestiva alternanza di leggerezza e complessità, gioco e riflessione, momenti di rivelazione e senso di disorientamento. La mostra si nutre del dialogo tra generazioni e linguaggi, offrendo un panorama ricco e articolato in cui si confrontano figure storiche e voci emergenti. Gli artisti invitati riflettono sull’idea di architettura come organismo instabile, soglia abitabile e dispositivo effimero che dissolve ogni rigida distinzione tra interno ed esterno, tra materia e immaterialità, tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che lo sfugge. Vetri, specchi, fibre, tessuti, metalli, luce e suono vengono impiegati come elementi attivi e plasmabili, capaci di generare spazi fluttuanti, ambienti percorribili, strutture vibratili. Le opere non si offrono alla contemplazione passiva ma richiedono di essere abitate: il visitatore le attraversa, le modifica, ne viene coinvolto, in un dialogo costante tra presenza fisica e suggestione immateriale.
Tre distinti nuclei concettuali permeano l’intero progetto espositivo, rivelando una profonda risonanza tra le poetiche degli artisti, non solo nella scelta di un tema comune, ma anche nel loro approccio a concetti cardine quali l’effimero, il diacronico e il fluido.




L’effimero si manifesta nella materialità intrinsecamente fragile e nella temporaneità delle opere. Ne è un esempio calzante Plexus no. 46, l’installazione site-specific di Gabriel Dawe, una “poetica della luce tessuta” composta da migliaia di fili colorati che creano una trama luminosa sospesa e in costante mutazione, generando l’illusione di un raggio di luce o di un arcobaleno etereo. Con un’identità altrettanto effimera, In Love with Tomorrow di Pae White si configura come una combinazione di elementi tessili, scultorei e talvolta sonori che interroga la precarietà del tempo, della memoria e della percezione. I suoi fili, disposti con meticolosa precisione, generano sfumature e curve ottiche che mutano al variare del punto di vista. Pur evocando a prima vista un arazzo monumentale o un imponente pilastro di sostegno, questa scultura aerea eccelle nel sfumare i confini tra arte e design, tra opera d’arte e oggetto quotidiano. L’artista californiana impiega tecniche artigianali come la tessitura per trasmutare dati digitali o immagini effimere e astratte in forme fisiche e tangibili, soffermandosi sull’idea di un futuro incerto ma intriso d’amore, o forse di un amore che si protende costantemente verso il domani. Le sue trame complesse e i colori, a volte vibranti, a volte tenui, creano un’atmosfera immersiva che sollecita lo spettatore a riflettere sulla propria relazione con il tempo che scorre e quello che verrà. L’opera si configura come un vero e proprio invito alla contemplazione, offrendo un’esperienza estetica che trascende la semplice osservazione per toccare corde emotive e intellettuali profonde, in piena armonia con l’intento della mostra di stimolare una percezione attiva e trasformativa dello spazio. L’opera Drawings in Space di Janusz Grunspek si inserisce elegantemente e si espande negli ambienti di Villa Manin in maniera quasi invisibile e silenziosa. Utilizzando bacchette di legno per creare linee tridimensionali, l’artista disegna nell’aria, evocando la leggerezza e la trasparenza di un semplice schizzo. La sua natura effimera e delicata, che sfida la percezione della materialità, suggerisce l’idea che l’opera potrebbe beneficiare ulteriormente di un supporto monocromatico per amplificare la sua sottile presenza, trasmettendo con maggiore impatto il suo messaggio di spazio e segno immateriale, e ponendo ancora più enfasi sulla sua intrinseca quiete e sulla sua espansione quasi impercettibile.



Il concetto di diacronia emerge con pregnanza nella capacità delle installazioni di instaurare un dialogo con la storia del luogo, attivando risonanze stratificate. Un esempio eminente è Contemplator enimè (1991) di Giulio Paolini, opera che, richiamando Lucrezio, esplora la rappresentazione e la percezione del tempo attraverso trasparenze flessibili e frammenti simbolici. Analogo concetto di dialogo con lo spazio è elaborato da Jeppe Hein in Geometric Mirror X. Questa installazione, composta da specchi o superfici riflettenti spesso disposte in forme geometriche precise, sembra rilanciare il gioco illusionistico tipico della villa barocca, innestandolo su una dimensione contemporanea. Tuttavia, mentre Paolini invita il fruitore a una contemplazione quasi sacrale dell’arte del passato e del luogo ospitante, la dirompente installazione di Hein mira a distorcere, frammentare o moltiplicare l’ambiente circostante e l’immagine dello spettatore. L’opera sfrutta la luce e il riflesso per alterare la nostra percezione della realtà, trasformando lo spazio in un labirinto visivo o in un caleidoscopio e creando un’esperienza immersiva e dinamica.


Il concetto di fluido attraversa l’intera mostra come principio operativo, manifestandosi nella continua ridefinizione dei confini dell’opera, nell’assenza di strutture rigide e nell’instabilità programmata della percezione. Una riflessione sull’idea di flessibilità e comunicabilità tra l’uomo e il superamento delle frontiere spazio-temporali emerge attraverso l’ossimoro di materiali rigidi (tra cui metalli e vetro) che si trasformano in elementi flessibili, interagendo attivamente con il fruitore e lo spazio. Ne è esempio Multiple Configurations #1 di Robert Irwin, un’opera che incarna la sua profonda ricerca sulla percezione e sugli effetti della luce nello spazio. Tipica del suo approccio “condizionale” o “site-conditioned”, l’installazione è composta da colonne o configurazioni scultoree realizzate con pannelli acrilici colorati e traslucidi. Queste strutture non sono semplici oggetti da osservare, ma dispositivi che alterano la percezione dello spazio circostante, creando giochi di trasparenze e opacità che mutano con il movimento dello spettatore e la luce ambientale, invitando a un’esperienza fenomenologica che sfida la nostra certezza dello spazio e rende l’atto stesso del percepire il vero soggetto dell’opera. L’opera di Matteo Negri, Piano Pino Bellagio, si inserisce in questa ricerca, proponendo una riflessione sull’architettura non come struttura statica, ma come organismo in costante evoluzione, una soglia abitabile che dissolve ogni rigida distinzione tra interno ed esterno, materia e immaterialità. Negri, infatti, gioca con la percezione del volume e della solidità utilizzando materiali che, pur essendo intrinsecamente rigidi, appaiono fluidi o in trasformazione, contribuendo all’idea centrale della mostra di sfidare la percezione e invitare lo spettatore a un’interazione attiva, dissolvendo le coordinate tradizionali della visione e rendendo il ruolo dell’osservatore immersivo e trasformativo.



L’opera di Anna Pontel, Corpo Inclinato, concepita durante il periodo del COVID-19, si rivela una ricerca angosciante e traumatica, volta ad attraversare e superare lo spazio che opprime. Questa sensazione di soffocamento è resa attraverso uno scheletro metallico che invade la sala, la quale appare richiusa ermeticamente, persino con le porte dipinte che accentuano il senso di isolamento. Tuttavia, l’installazione lascia aperte larghe aperture immaginarie, suggerendo vie di fuga e la possibilità di una dimensione oltre la reclusione fisica e psicologica. Sotto questa ottica, l’opera dell’artista friulana si inserisce perfettamente nel tema della mostra sulla trasparenza e la valicabilità, poiché invita a guardare oltre la materialità immediata per esplorare le dimensioni emotive e psicologiche dello spazio abitato, stimolando una percezione attiva e spingendo il visitatore a considerare come gli ambienti che abitiamo influenzino la nostra condizione interiore e come anche le strutture più familiari possano celare una profonda fragilità. Al centro del percorso espositivo, domina l’installazione ….to the sixth dimension del collettivo InsideOutside, guidato da Petra Blaisse, che trasforma radicalmente la sala centrale della Villa. L’opera è un ingegnoso intervento che, attraverso l’uso strategico di un pavimento a specchio, crea l’illusione di un’infinita estensione dello spazio. Camminando su questa superficie riflettente, i visitatori sperimentano una sensazione quasi surreale di fluttuazione o di sospensione, come se il terreno svanisse sotto i piedi. Si tratta di un intervento artistico che non si limita a essere un’attrazione visiva ma interagisce profondamente con l’architettura barocca della villa, sfidando le percezioni tradizionali di ciò che è “chiuso” o “definito”, offrendo una potente riflessione sul rapporto tra arte, architettura e design, spingendo il pubblico a percepire lo spazio e se stesso in una dimensione espansa, quasi oltre la realtà tridimensionale. La mostra si arricchisce con l’opera di Christina Kubisch, pioniera nell’interazione tra arte visiva e suono. La sua installazione di sound art La Serra, sapientemente accostata al giardino della Villa, permette di ascoltare i campi elettromagnetici invisibili, trasformandoli in un paesaggio sonoro udibile. Questa è un’opera interattiva che evolve e muta con lo spazio e il fruitore, diventando un invito a riflettere sulla nostra relazione con la tecnologia, sull’inquinamento acustico invisibile e sulla vastità dei paesaggi sonori che ci circondano, ampliando la nostra percezione dell’ambiente.




Nel dialogo sintonico tra interno ed esterno di Villa Manin, diverse opere sono state installate per creare un’esperienza immersiva. L’installazione Welcome di InsideOutside, con la visione di Petra Blaisse, accoglie i visitatori di Villa Manin con un gesto di profonda valenza simbolica. Composta da veli fluidi e trasparenti, i suoi enormi teli mossi dal vento permettono un attraversamento fisico dell’ingresso, trasformando il tradizionale varco in una soglia permeabile e invitante, in netta contrapposizione alla “Cortina di Ferro” che un tempo divideva la città di Gorizia. Tra le installazioni inserite nell’immenso giardino spicca Two Way Mirror / Hedge Labyrinth di Dan Graham, un padiglione architettonico composto da specchi unidirezionali e siepi, che incarna la ricerca dell’artista sulla percezione e l’interazione tra spazio e osservatore, creando un labirinto visivo, permettendo allo spettatore di vedersi riflesso e di osservare contemporaneamente l’ambiente circostante in modi inaspettati, generando un’esperienza di disorientamento e auto-osservazione, e riflettendo così sulla natura dello sguardo e le dinamiche della visione. Anche Penetrabile Blu di Jesús Rafael Soto invita lo spettatore a un’esperienza immersiva e tattile, attraversando una fitta foresta di fili di nylon blu sospesi. Quest’opera non è solo da osservare, ma da esperire fisicamente, trasformando il visitatore in parte integrante della scultura e sfumando i confini tra opera d’arte e ambiente. Un’altra installazione di Jeppe Hein, Double Ellipse / Mirror Labyrinth, incarna la sua ricerca sull’interazione tra spazio, luce e fruitore. Questo labirinto specchiante realizzato con acciaio inossidabile lucidato a specchio invita il visitatore a un’esperienza attiva, creando un gioco di riflessi e trasparenze che distorce la percezione dell’ambiente circostante e dell’immagine dello spettatore, trasformando lo spazio in un caleidoscopio e innescando un senso di disorientamento. Entrambe queste installazioni sfidano la visione tradizionale dell’arte, rendendo il fruitore un elemento attivo nella costruzione del significato e dell’esperienza spaziale.
Completano l’esposizione le installazioni di Alberto Garutti e Patrick Tuttofuoco, già presenti nel parco e qui riattivate perfettamente nel nuovo contesto semantico che ne amplifica la risonanza.