Seduttiva sin dal titolo, la mostra collettiva di scultura L’artigianato della filosofia si è inaugurata il 17 luglio, negli splendidi spazi della Casa dell’Architettura-Complesso Monumentale dell’Acquario romano. Si tratta della terza edizione di Featuring the sculpture Habitat, curata da Andrea Guastella insieme allo studio M’arte, nella persona di Fulvio Merolli. La mostra, allestita nel giardino esterno e nella galleria del primo anello dell’Acquario romano si inserisce degnamente in AcquAria art, rassegna estiva di eventi di particolare qualità e significato.
Definire seduttivo un titolo che unisce due termini che individuano realtà abitualmente ritenute agli antipodi mi pare scelta adeguata. La filosofia, infatti, nel senso comune è considerata un’attività di pensiero su temi generali dell’esistenza umana riservata ad una élite di addetti ai lavori. Avvertita dai più come una cosa distante, complicata, accademica, possibilmente da evitare perchè fornita di scarsa utilità pratica. L’artigianato, al contrario, è termine che individua un’attività pratica a tutti nota, a cui si attribuisce un’importanza funzionale ed estetica di rilevo corrente. Incrociare questi due termini e farne la ragione ispiratrice di una selezione di artisti che operano a tema è, quindi, proprio alla luce del significato correntemente (ed erroneamente) attribuito ad essi, operazione intelligente e raffinata.
La filosofia, infatti, secondo l’Aristotele, riletto magistralmente da Emanuele Severino, nasce dal thauma, cioè dallo sgomento dell’esistere, in particolare dalla paura della morte. E, che che ne pensi il comune viandante, risponde ad esigenze primordiali tutt’altro che astratte. Serve ad evitare che ci si perda nell’angoscia dell’esistere e che ci si rassegni all’estinzione. L’artigianato, di converso, è proprio un aspetto particolare di quella techneche l’uomo utilizza per sopravvivere ed evolvere, per tradurre cioè la forza che promana dalla propria fragilità in vita materiale e spirituale. Che una mostra di scultura, in tempi che vedono il trionfo di un epigonismo concettuale mischiato con l’affarismo dominante del sistema dell’arte, metta l’accento non sull’irrilevanza ma sull’immanente valore del manufatto (se vogliamo della componente artigianale dell’arte) non è cosa di trascurabile valore.
Avendo goduto del privilegio visitare la mostra accompagnato dai due curatori, si è aggiunta a questo nucleo di iniziali considerazioni la piacevole sorpresa di veder ribadito da entrambi un concetto a me particolarmente caro. Vale a dire la necessità che le singole opere d’arte possano essere fruite, godute, senza la necessità di spiegazioni orientate a decodificarne il senso. Senza libretto delle istruzioni insomma. Come si conviene ad opere d’arte visiva. Che devono, cioè, saper parlare da sole a un osservatore attento e disponibile a recepire il messaggio dell’autore.
A partire da questi presupposti, Andrea Guastella e Fulvio Merolli hanno inteso concentrarsi sul rapporto maieutico che esiste fra scultura, pensiero e lavoro manuale. Un rapporto stretto che, nei casi fortunati (ma mai casuali) produce – parole loro – “non una ‘cosa’ ma un ‘evento’ da sperimentare. Questo evento è la qualità che infatti è il fil rouge che unisce i lavori dei 17 scultori selezionati dai due curatori. Opere diverse per stile ma tutte tese a dimostrare nei fatti gli assunti magnificamente concentrati nel titolo di questa mostra. Ed a farlo dialogando magnificamente con uno spazio la cui circolarità fornisce un “di più” di senso a un allestimento che si dimostra felicemente appropriato.
Oltre alla sottolineatura dell’alta qualità dell’esposizione nel suo complesso e della sua armonizzazione con un ambiente quanto mai consono a suscitare attenzione e concentrazione, non è possibile, nello spazio a disposizione, soffermarmi su tutte le opere. Lo farò quindi limitatamente a tre di esse che mi hanno particolarmente colpito. Volutamente sceglierò tre lavori totalmente diversi fra di loro per rimandi stilistici e vocazione formale.
Il primo, Schort Story, è quello particolarmente forte e suggestivo di Giovanni Longo che, attraverso il recupero ambientale di elementi di legno, opportunamente selezionati e classificati, ricompone la struttura anatomica di un vitellino, il cui scheletro racconta della sua breve vita. Dalla nascita, rievocata da un piccolo nastro azzurro, alla fine annunciata della sua esistenza. La riflessione sull’idea della morte, sull’angoscia che essa evoca in ogni vivente e sul ruolo (non solo negativo) che svolge nel determinare i destini dell’uomo è forte, necessaria ed emozionante.
Il secondo lavoro, quello di Concetto Marchese, Estasi di Maria Maddalena, piuttosto che una matrice aspramente espressionistica predilige un impianto formale neoclassico raffinato che, tuttavia, recupera originalità prendendo di una creatura femminile la parte al posto del tutto. I piedi di Maddalena, voluttuosamente contratti, parlano dell’uso sempre più strumentale che i media fanno del corpo della donna. Lo fanno al centro di un vortice di finissime piume di marmo che, come dice l’autore rappresentano “la vita con le sue storie ma anche le donne stesse, cosi’ forti e resistenti quanto fragili e delicate”.
Il terzo lavoro che voglio segnalare è quello di Silvia Scaringella. Un’installazione di stampo poverista molto suggestiva, che rievoca atmosfere kounellissiane. Quattordici coppie di forme di scarpe in legno con tacchi di marmo che, metaforicamente, rievocano un popolo di viaggiatori piccoli e grandi, maschi e femmine, che calcano le strade del mondo. Lo fanno con il rischio continuo che il tacco di marmo si scheggi o si frantumi interrompendo il viaggio. Evidente riferimento alla spinoziana sottolineatura dei limiti della libertà umana.
Mi auguro di vero cuore che quanto scritto su queste tre opere accenda la curiosità di chi legge, in modo che possa avvertire più forte l’esigenza di vedere questa mostra bella e intelligente e apprezzare, godendone, il valore di ogni singola opera.