Gerhard Merz
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… À LA RECHERCHE …
(Fluidity & resistenza critica) [IV parte]

Chi parla di critica d’arte oggi, non può non tenere conto dell’acclamatissimo, e a quanto pare inappellabile, trapasso di quest’ultima. Da anni ormai la critica d’arte non godeva di ottima salute, sfiancata dalle innumerevoli e spietate Cassandre che ne profetizzavano la fine imminente, sottoposta ai continui e determinati attacchi dei suoi più accaniti detrattori e dei curatori. In realtà, al di là dell’ironia, che quando si parla di critica d’arte gioca sempre in casa, dietro i proclami e gli strilli giornalistici del Convegno dell’AICA, si nasconde una questione molto più seria e culturalmente aporetica.

È ormai evidente che la semiotica, l’arte e la “letteratura della critica d’arte” – dopo aver trovato ampio spazio durante gli ultimi trent’anni, e portato all’interno del nostro mondo «fluido» un potente flusso innovativo – vivano la necessità di trovare la forza di guardare indietro a se stessi, fare i conti con il presente e ricostituirsi, per potersi riadattare alle nuove trasformazioni. Per la critica italiana, sembra ormai scontato che questo riassestamento debba propendere verso un ritorno al passato, un’analisi della memoria che lo fa diventare un “ritorno al futuro”. Il progetto razionale e razionalistico della modernità (ovvero l’epoca che precede la post-critica) non si è mai arrestato e non ha mai fallito, si è solo sospeso per un po’, si è spiazzato per tirare il fiato. Possiamo ancora ritrovare e riprendere quello che abbiamo lasciato. Il concetto si traduce in due ordini di discorso, uno di origine semiologica, l’altro artistico-culturale. Gli intellettuali, gli artisti, i letterati e soprattutto i critici d’arte non possono più abiurare, neanche per scherzo, rinunciando apparentemente al compito di battistrada, all’interno del contesto sociale che affrontiamo: devono tornare in prima fila. E sembra proprio che l’Italia dei romanzi parasociali, dei polpettoni storiografici, delle impensabili agiografie, stia correndo lungo una strada più o meno adiacente a quella tracciata criticamente dal Medialismo. A questo punto, dopo aver preso atto della situazione generale, a chi voglia ancora avventurarsi a parlare di scrittura critica, non resta che sfruttare almeno l’occasione AICA. Se è chiaro e palese che la perentorietà con cui si parla di fine della critica ha più un valore esorcistico-evocatico, che non un valore teorico – dal momento che nessun periodo storico e nessun movimento artistico hanno inizio né fine, se non a livello puramente convenzionale – è altrettanto evidente che oggi stiamo assistendo, a livello generale, a una riconfigurazione e un affievolirsi delle pratiche e delle tendenze più vicine alla scrittura critica. L’occasione che ci si para davanti è quella di parlare di scrittura critica nel momento della sua fine apparente, dopo la sua morte fittizia, aggirando così finalmente uno dei maggiori ostacoli e fattori di incertezza per la critica degli ultimi anni. Parte dell’indeterminatezza di cui è impregnato il dibattito sulla letteratura artistica è stata, da sempre, legata alla distanza prospettica con cui si è guardato ad esso, alla necessità di catturare il fenomeno sempre sul suo asse sincronico e, quindi, sempre in continua evoluzione e trasformazione. Fingere che il ruolo del critico d’arte sia davvero finito, ci potrebbe forse consentire di trarre le prime conclusioni e di abbozzare un quadro meno torbido, più limpido sul cambiamento e la svolta.

È con questo spirito allora che, negli spazi del territorio AICA, ci lanceremo nella rischiosa impresa, provando a chiarire, ad esempio, cosa significa il termine scrittura critica, in cosa differiscono i termini scrittura critica, letteratura artistica e giornalismo specializzato, a quali teorie semiotico-artistiche si collegano e, soprattutto, quali sono gli obiettivi che, in questi anni, esse hanno cercato di raggiungere. Sperimentare l’incertezza democratica della critica resistente significa innanzitutto liberarsi dalle traiettorie sistematiche, dalle filosofie della storia e dagli approcci popperiani alla questione del “che cos’è la critica”. Un procedere che oggi potrebbe apparire quasi “inattuale”. Molti considerano, infatti, la sistematicità e l’anti-scientismo nient’altro che residui (dimenticabili) del secolo scorso. Ed è obiettivamente difficile comprendere l’attuale situazione della critica d’arte se si prescinde dal Novecento e dalle sue peculiari categorie. Questo duplice legame tra scrittura e osservazione mediale, e tra semiotica e politica, percorre in lungo e in largo l’opera della riflessione resistente. Il rimando alla scrittura implica, infatti, il rapporto con un lettore che è sempre simile e altro al tempo stesso. La pura teoria rischia, invece, di portare il pensatore a “staccarsi dalla società delle arti in cui vive, dal contesto che gli appartiene, dagli eventi che lo travolgono”. La scrittura critico-politica, secondo il mediale, non nasconde il travaglio e i motivi del proprio discorso, non elide la questione della propria contingenza e della propria temporalità. La democrazia verticistica moderna porta, dunque, il segno più evidente della natura simbolica del potere, poiché, “eleva l’incompletezza a principio” e “innalza a condizione positiva normale (del proprio funzionamento) ciò che altri sistemi politici percepiscono come minaccia”, e cioè “la mancanza di un pretendente naturale al potere” e l’idea che “il polemos/lotta sia irriducibile”. Ma si tratta di un processo che non può esser dato per acquisito una volta per tutte, e che non coincide con gli assetti storicamente assunti dalle democrazie liberali: questo perché il luogo vuoto del potere è sempre sottoposto al rischio di una ri-appropriazione, che lo riporterebbe dal simbolico al reale, per farlo coincidere con la società intera, o con la Patria, o con il Popolo, attraverso lo strumento tipicamente moderno e post-democratico. Il liberismo moderno dei curators appare perciò molto lontano dalle proclamazioni del radicalismo critico, al punto che persino le sue creazioni più accettate, ovvero le dichiarazioni universali dei diritti umani, sottratte alle celebrazioni di rito, diventano terreno di scontro e di lotta. Percorsa stabilmente dal conflitto, la democrazia moderna si caratterizza, dunque, per l’abbandono della “credenza in un governo degli autori retto dalle medesime leggi che governano l’universo”, in cui “non soltanto viene mantenuto lo scarto tra simbolico e reale, ma il simbolico stesso si sottrae al figurativo, poiché il luogo “altro” del potere resta vuoto. Il conflitto istituisce questo ordine simbolico e, al tempo stesso, viene istituito non più come un piano puramente antagonistico, ma come un agonismo (arrivismo) in sé già politico, ovvero come una competizione che rimette in gioco continuamente i desideri e le rivendicazioni delle parti in campo, all’interno di una cornice condivisa, sottoposta di continuo all’incertezza della propria accidentalità. Il simbolico coincide, dunque, con la cristallizzazione “istituita” di qualcosa di preesistente, che attiene alla capacità dell’artista di esercitare costantemente la propria radicale costituzione poietico-spettacolare. Al tempo stesso, tutte le funzioni che si concretizzano in bisogni e in scopi cosiddetti “reali” sono, a loro volta, derivate e sopraggiungono in seconda battuta in rapporto al “preciso senso problematico con cui [la società] investe il mondo e vi si colloca”. Familiarità, prossimità, seduzione, vicinanza di gruppo: queste caratteristiche del discorso massmediatico parlano ormai un linguaggio completamente diverso da quello dell’ideologia borghese (classica), che era invece gerarchizzante e normativo. In questo senso, queste caratteristiche appaiono molto più efficaci, affilate e insidiose, perché tentano di dissimulare la divisione più pervicace di tutte, quella tra il Sé e l’Altro. E, a differenza di quanto avveniva nell’ideologia dei regimi totalitari, giocano a “carte coperte”, nel senso che non tentano di uniformare la società sotto gli imperativi “granitici” del Popolo-Uno o dell’incarnazione del potere in un centro politico totalizzante; l’ideologia totalitaria aspira, infatti, a porsi come totalità sociale in senso esplicito, e quindi necessita di un controllo repressivo generalizzato che “creasse” di continuo il Popolo-Uno (come descritto da Orwell più distopico). Il «medialismo» parla invece di un tra-noi che si impone in maniera “invisibile” ed implicita nelle società occidentali post-belliche. Si tratta di un registro simbolico nel quale il “noi” non viene “affermato ma presupposto – invulnerabile proprio perché rimane invisibile”. Non è più il Noi totalitario e neppure il Noi dell’appartenenza di classe. È un tra-noi “familiare”, “reciproco” e straniato, che non ha bisogno di vietare o di espungere l’alterità, di presentarsi come un ideale regolativo esterno al corpo sociale. Al contrario: per rendere davvero la società trasparente a se stessa (di una grande tessitura mediale), per negare l’assenza costitutiva di fondamenti e di certezze, per imporre la liquidità come orizzonte alieno, c’è bisogno “che niente in linea di principio sia sottratto alla comunicazione. Questa nuova forma dell’ideologia, che non necessita più delle astrazioni del XIX secolo né dell’identificazione con il potere politico, si presenta perciò come impercettibile (l’immagine del mondo tra presenza e assenza), nel senso che “è dappertutto”, in ogni luogo e in ogni classe sociale. La pluralità dei suoi linguaggi e l’organizzazione sociale che determina scampa ad ogni identificazione. Non è soltanto transnazionale in senso geografico, ma è appunto tra-noi, come una sorta di «supposto implicito» ad ogni tentativo di decifrazione del presente. Somiglia, in questo, alla descrizione che Slavoj Žižek restituisce dell’ideologia nel documentario The Pervert’s Guide To Ideology, diretto da Sophie Fiennes nel 2013. Žižek si richiama ad un film “cult” di John Carpenter intitolato They lives (1988), definito dal filosofo sloveno “uno dei capolavori dimenticati della sinistra hollywoodiana”, dove un paio di occhiali da sole, una volta indossati, permettono di confrontarsi  con il messaggio che si cela in ogni propaganda o pubblicità, svelando i segni del dispotismo dietro la facciata democratica della società americana. Il nostro senso comune, ovvero la realtà mediatica in cui siamo immersi, ci porta a pensare che l’ideologia sia qualcosa che oscura, che mescola la visione diretta delle cose. L’ideologia “dovrebbe essere gli occhiali da sole” che finalmente ci fanno vedere la realtà delle cose, mentre la critica all’ideologia altera il nostro punto di vista, cioè “tenta di toglierci gli occhiali” in modo da poterci manipolare. Ma le cose funzionano esattamente in modo opposto: l’ideologia, nella metafora del film di Carpenter, è la “realtà” che abbiamo sempre davanti agli occhi e che recepiamo mediante la pubblicità, l’informazione e la comunicazione diffusa; la critica dell’ideologia dominante comincia quando si indossano gli “occhiali”, quando cioè si intraprende un percorso di pensiero critico e di lotta politica che rompe l’invariabilità dei discorsi imperanti. Gli occhiali per Carpenter non sono un fatto di “moda o della moda”, ma una protesi di costume sociale, una abilitazione alla resistenza.  L’opera d’arte e il commento critico, come voleva Jan Mukarovsky, hanno il compito di medializzare il rapporto diretto fra l’autore e la collettività.

La questione di una (futura?) critica dell’ideologia (che sarebbe anche il lavoro intrapreso da Arturo Carlo Quintavalle e da Vittorio Fagone a Montecatini ’78), tanto cara alla critica dell’economia politica classica, sembra in effetti lambire anche la riflessione del Medialismo (in effetti gli occhiali mediali vanno oltre i mirrorshades del cyberpunk). Nel suo Al punto critico, Vittorio Fagone, citando Walter Benjamin dice che: “Una metodologia critica aperta continuerà ad usare modelli transdisciplinari, ma non potrà assolutizzarli. D’altra parte esistono quattro punti, non concordati, sui quali conviene, a mio parere, orientare una pratica dialettica e riflessiva: l’assunzione dell’operatività dell’artista come specifica rispetto al documento. Si sa che questa è una direzione fondamentale dell’insegnamento di Benjamin, essa vale oggi a conservare identità, originalità e singolarità dell’opera, a stabilire un nesso non artificiale tra testo e contesto, a recuperare le operazioni eccentriche dentro un percorso non linearmente progressivo, ma che ha naturali e inseparabili accrescimenti; il rifiuto della storicizzazione istantanea e forzosa: il feticismo dell’opera d’arte si è spostato al feticismo della storia dell’arte” (AA. VV., Teoria e pratiche della critica d’arte, Atti, Feltrinelli, Milano, 1979, p.298).  Su questa svolta sistemica insiste anche l’intervento di Arturo Carlo Quintavalle: “La questione della semiotica applicata al fatto artistico si oppone al ritornante tentativo di salvare un versante “estetico” all’interno del sistema della comunicazione, di mantenere una zona franca entro la quale le linee della mercificazione del senso, cioè della trasformazione del senso in merce, non siano operative, una zona dove appunto l’arte sia un fatto fuori e sopra gli eventi, …[…] il critico e l’artefice, falsamente divisi, mente e braccia di un ipotetico uomo unitario realizzato nel “filosofo”, devono essere posti in discussione come intellettuali e il loro contributo deve legarsi ad una progettazione non museale certamente, della realtà, ed a una funzione civile, entro una organizzazione della comunicazione non di classe, dei vari linguaggi, non articolata gerarchicamente favorendo quello letterario, di origine dissociatamente idealistica, nei confronti di altri sistemi di segni. La lotta dei linguaggi è legata quindi alla lotta di classe; il problema del lavoro non alienato è quello della materialità dei segni” (Lavoro critico e lavoro, in Montecatini ‘78, op. cit., p.342).

Nell’ultima parte del testo sul mediale del ‘93, affermavo che l’obiettivo peculiare dell’ideologia invisibile, perseguito attraverso una diffusione comunicativa senza precedenti, è di “impedire la domanda sul senso dell’ordine prestabilito, la domanda sul possibile”. Il “qui et ora” della comunicazione 24h su 24h diventa, allora, una sorta di recinto senza sbarre e senza secondini. Dietro questa fascinazione per un eterno presente, dietro l’imperativo del forever young, fatti di novità da inseguire senza sosta, si nasconde il progressivo «naufragio dell’idea di una società altra», nata insieme alle grandi rivoluzioni della modernità. Il Medialismo sembra perciò suggerire che il progetto di rendere la società “trasparente” a se stessa e di annullare la divisione tra il Sé e l’Altro si sia in qualche modo compiuto, poiché ad essere “occultata” è ora l’alterità per eccellenza, quella che permette di pensare un’altra società possibile o addirittura un altro “mondo possibile”, come recitava uno slogan dell’ultimo grande movimento globale di critica sociale. Agli occhi del Medialismo, il compimento di questo «ouvrage ideologico» può avere conseguenze ancora più deleterie rispetto alle forme di occultamento che l’hanno preceduto. La democrazia liberal-estrema si trova perciò in un passaggio di fase delicatissimo, che vede concretizzarsi ancora una volta la pretesa di «dare libera espressione a ciò che la democrazia tiene in scacco», ovvero alle potenze anonime (vedi il lavoro della rete dei curators progressisti) che da sempre ne accompagnano il cammino col proposito, più o meno palese, di «ri/occupare» il luogo del potere. Il monito della scrittura mediale è chiaro: nuovi criteri d’ordine e nuovi modelli di certitudine potrebbero sopraggiungere a colmare uno spazio di partecipazione, che la democrazia contemporanea non riesce più a garantire. Il tono del discorso non è quello del critico apocalittico, né quello del militante rivoluzionario. E tuttavia l’inclinazione dello studioso e del semiologo resta sempre “politica”, almeno nel senso che si è tentato fin qui di attribuire ad una parola tanto intaccata dalla polvere della storia (vedi storica umana: in Ferruccio Rossi-Landi, Metodica filosofica e scienza dei segni, Bompiani Milano 1985, p. 200). Come leggiamo nella conclusione al testo sull’ideologia mediale, più si tenta “la legittimazione di un ordine stabilito, non soltanto quella di un regime di proprietà, ma anche quella del reale come tale”, più quest’ordine stabilito genererà “le condizioni di una contestazione che, oltre le espressioni del potere e dello sfruttamento, sappia vedere le coordinate della socializzazione nel mondo moderno, e riporti alla luce la questione dell’Altro, la questione dell’Essere e del Divenire”. Chi fa critica attraverso la storia e l’attualità della critica, senza cadere nella sterile esegesi dei testi, dubitando di sé, deve essere capace di riproporre continuamente la problematicità della critica e della resistenza stessa; non alla ricerca di una legittimazione, ma al fine di non dare per scontato il fare critico ed epistemologico delle arti. Ogni critica deve giustificare la propria possibilità di cominciare, nella misura in cui essa è la ricerca di un sapere complesso, un atto (e non un fatto compiuto) svincolato il più possibile dall’assoluto fluidocratico: un pensiero talmente ampio che determina le categorie di ogni sapere, ma che non per questo si dà in assiomatica.

L’esigenza dell’esperienza semiotica di cogliere la “complessità del mondo”, colloca in una luce diversa l’analisi del “linguaggio critico”, ponendo in primo piano la necessità di nuove modalità di approccio in grado di conciliare istanze di sistematicità con procedimenti dettagliati e circoscritti. La scoperta di valori critici irriducibili all’ambito puramente semantico o sintattico riapre quindi all’interno della critica d’arte e della semiotica, dove il problema era molto vivo, una questione metodologica, che appare immediatamente congiunta ad un modo “diverso” e altrettanto diacronico d’intendere la semiotica stessa. Del resto, è difficile poter separare in Ferruccio Rossi-Landi un nucleo teorico da una serie di applicazioni a carattere puramente operativo; egli sostiene un modo globale di accostarsi alle realtà linguistiche, che viene gradualmente chiarificando sul campo, attraverso analisi ed esemplificazioni puntuali e molto concrete (consapevolezza della produzione linguistica: Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani  Milano 1968, p. 19-21, 35-36,89-92). È in ogni caso innegabile che il suo metodo s’accompagna ad osservazioni e precisazioni che tendono di continuo a legittimarlo sul piano teorico, accreditandolo come qualcosa di più che una mera tecnica, o un complesso di tecniche occasionali. Non a caso, la proposta critica e semiotica di Ferruccio Rossi-Landi condiziona indubbiamente i più noti risultati della sua ricerca, dal confronto tra enunciati costatativi e performativi alla teoria degli atti critici, all’idea complessiva di una nuova visione del linguaggio scritto e interpretativo. In certo senso, si può quindi attribuire a Rossi-Landi la progettazione di un nuovo armamentario critico, che non ha ovviamente le pretese di smontare totalmente le istanze femministe della Lonzi, né i caratteri di esaustività del metodo marxiano a contatto con L. Wittgenstein, ma che tuttavia – nei limiti in cui lo consente un’impostazione puramente realistica e contraria ad ogni forma di illusionismo differenzialista fine a se stesso – intende pur sempre presentarsi come strumento indispensabile per rimuovere pregiudizi ed accedere a livelli conoscitivi altrimenti irraggiungibili. Fra l’altro, il metodo di Ferruccio Rossi-Landi, nonostante venga formulato sulla base di indicazioni programmatiche puramente orientative e sperimentali, lascia intravedere, piuttosto ambiziosamente, una pars destruens ed una pars construens (anti-sontanghiana), sulle quali varrà la pena di soffermarsi ancora.

Il quadro che la critica mediale delinea non dischiude certamente scenari futuri rosei e senza criticità. Al contrario, e con ammissione della stessa critica e militanza mediale, le sue riflessioni suscitano molto spesso un profondo «senso di inquietudine e di disagio» nei lettori. Il suo realismo, a volte pessimistico, non deve però indurci a pensare che il punto d’arrivo nella riflessione della critica mediale sia un epilogo rassegnato o disfattista. Sarebbe profondamente contrario allo spirito dell’analisi critica, trarre da essa tali conclusioni. L’invito della critica mediale consiste in un’esortazione a fronteggiare tale situazione in maniera attiva e agendo concretamente nella direzione di un’«inversione di rotta». Quest’ultima non si esprimerà necessariamente nel crollo del sistema artistico autoritario attuale. Per quanto, infatti,  la critica mediale auspichi l’avvento di un «ordinamento programmato dell’economia dell’arte», essa è convinta del fatto che il sistema capitalistico continuerà per lungo tempo a sopravvivere, mutando continuamente pelle e adattandosi alle nuove condizioni sociali. Se, comunque, il crollo del  sistema artistico attuale si verificasse, non è detto si possano prevedere le modalità attraverso le quali tale tracollo potrebbe avvenire. L’inversione di rotta cui  la critica mediale si riferisce deve avvenire, dunque, su un altro piano. Se è vero che il sistema dell’arte ha inteso liberare il soggetto dai lacci del passato (quali tradizione e religione dell’arte contemporanea), ma nel fare ciò ha prodotto nuove catene, è altrettanto vero, ci ricorda la criticità mediale, che il fatto che occorra «necessariamente volere e fare qualcosa» non implica che dietro a tale necessità non ci siano una volontà e un’azione. Ad esempio, l’intelligenza artistica e creativa è tanto più richiesta quanto più si avanza nel capitalismo, giacché la complessità delle macchine da adoperare aumenta.

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La critica mediale, quindi, sembra lasciare aperta la possibilità per spazi di soggettività artistica espansa, catapultati in pratiche di intelligenza collettiva. Resta, però, da appurare se l’intelligenza artistica richiesta non rientri in quel impiego strumentale delle risorse umane e non rispettoso delle sue caratteristiche costitutive di cui si diceva in precedenza. La critica mediale al “capitalismo artistar” non si rivolge mai, infatti, al capitalismo in quanto tale, ma sempre alla forma che esso assume nell’epoca matura. Sono molteplici, dunque, gli aspetti su cui riflettere che la critica mediale ci lascia. In primis, la dimostrazione che un’analisi retrospettiva non equivale all’espressione di sentimenti nostalgici e acritici (come vorrebbe Sontag/Lonzi/Celant: Dossier Sontag. A partire da «Against Interpretation» – segnonline; Dossier Sontag-Style …Celant e il conflitto dell’a-critica (II parte) – segnonline), ma si rivela lo strumento essenziale per potersi porre in un’ottica prospettica. Il guardarsi indietro è, perciò, spesso propedeutico al puntare lo sguardo avanti. In secondo luogo, la denuncia di un fenomeno la cui analisi non può essere limitata all’ambito meramente economico. La deumanizzazione  tecno-artistica messa in luce, infatti, non è un problema esclusivamente economico, ma anche e prima di tutto culturale e sociale che, quindi, è opportuno affrontare su tale terreno. In terzo luogo, infine, il riscatto del ruolo del soggetto artistico e del suo volontarismo compositivo dinanzi alle pressioni che gli derivano dai diversi ambiti del sociale: la consapevolezza, quindi, che l’artista può sottrarsi ai dettami dell’economia, poiché è per opera della sua stessa volontà che l’economia è sorta e continuerà a esistere. Egli, quindi, può riprendere il posto centrale che occupava inizialmente. Le modalità con cui tale recupero dell’umano avverrà – se mai avverrà – la critica al “fluidity” non lo anticipa. Esse sono completamente rimesse alla libertà e alla volontà del soggetto creativo, alle sue infinite “costellazioni di motivi”. Non esiste una ricetta a priori valida, applicabile per la “cura della deumanizzazione o del tecnoscientismo”. Ciò che è certo, secondo il campo della critica mediale, è che difficilmente vi sarà un ritorno indiscusso al passato. La linea della storia, infatti, non prevede passi indietro, ma soltanto orizzonti proiettati verso il futuro. È, dunque, alla linea dell’orizzonte che occorre guardare per scorgere se da lì, rimessa alla libera volontà del soggetto, la centralità dell’elemento artistico si staglierà nuovamente e con forme rinnovate. Non tenere a mente questo elemento, significherebbe aver travisato il messaggio che la critica mediale ha inteso introdurre.