Una nota: Il parossismo della pandemia è ovunque. In ogni dove esistono oggetti ai quali attribuiamo qualità che essi non potrebbero possedere e che perciò, in virtù di un sovrainvestimento, ci appaiono diversi da quelli che sono. Scopo di questo racconto in tre parti è quello di esplorarne la genealogia e le successive mediamorfosi delle varie figure del parossismo critico, con particolare attenzione a quella liberale, economica e mediatica. Punto di partenza del racconto sono i testi (due delle tre sezioni, risalenti al primo decennio del 2000) che Perretta dedicò al parossismo, riprendendo e rielaborando un concetto originariamente coniato in ambito medialistico e già fatto proprio, com’è noto, dalla critica dell’economia politica mediale, prima ancora che venissero fuori film e sceneggiature che accompagnassero le immagini de La Grande Bellezza (di Paolo Sorrentino del 2013) e prima, addirittura, di Gomorra (Matteo Garrone, 2008). I diversi contributi, le cosiddette tre parti della narrazione o narratologia, si propongono di discutere un fenomeno che, per la sua straordinaria irruzione e parossica diffusione nei vari campi della nuova antropologia tecnologica, dell’arte, della filosofia sociale e fenomenologica, oltre che della psicoanalisi diffusa, va considerato un significativo crocevia nell’esplorazione dell’identità contraddittoria di una Capitale (o meglio un Capitale religioso e finanziario) in epoca contemporanea. Il parossismo non ha univoco potere esplicativo: in questo aggiornamento non sono state imbrogliate le carte. Si sono mantenute le classiche espressioni del parossismo nello spazio antropologico finale, nella guerra antropologica di quest’ultimo stadio, in quello economico-sociale e in quello post-biopolitico, in quello in cui neanche le categorie dell’imperialismo, del sovranismo, del neo e del post-moderno si riconoscono più: un oltre sempre oltre, governato da nuove guerre batteriologiche e di sottomissione, al di là dello stato di eccezione, in guerra con se stesso e col suo credo nazista e fisicalista.
Enrico Maria Sestante
“Si devono prendere gli uomini per quello che sono, ci viene detto, e non come i pedanti che non sanno nulla del mondo o i sognatori di buon cuore immaginano che dovrebbero essere. Ma “ per quello che sono” dovrebbe essere inteso come “per come li abbiano fatti” […] In tal modo, si avvera la profezia degli statisti che si suppongono intelligenti”.
Kant, Il conflitto delle facoltà, 1798.
“Mai si era stati così bene, mai si era stati così male”
Charles Dickens, Le due città …
Eppure i suoi abitanti sembravano scolpiti sulle panchine della grande piazza-parcheggio, cuore pulsante della città. Da qualsiasi luogo si partisse, la strada era sempre quella, lunga, deserta, soporifera. Un tragitto irreale, o forse un espediente per preparare lo stato d’animo dell’avventore, affinché potesse, fin dai primi momenti, assaporare quel senso di malinconia che lo avrebbe travolto alle porte della città. Ma la gente il sabato non va al mare? A quanto pare, nella zona nord, oggi, si sono dati tutti appuntamento nel nuovo centro commerciale Passaggio Mediale di Roma. Inaugurato mercoledì, ha 220 negozi, tra cui il Mediacom più grande d’Europa, il primo Frac, e altro ancora. Il delirio inizia dalle rampe di accesso all’area: completamente bloccate. Dentro, poi, c’è la fila ovunque. Il tasso di attrattiva è basso, la confusione è troppa, bambini urlanti e striscianti per terra sembrano essere i testimonial involontari di un spot mal riuscito. Il tempo di comprare lo switch per pc con due porte USB ed altri convertitori, e si fugge verso l’uscita. Peccato che né io né Luciana ci ricordassimo del colore dell’area in cui avevamo parcheggiato: da qui una simpatica caccia all’auto. Mezz’ora per uscire dal tappo di lamiere strombazzanti. Perché si narra che a Roma non ci si arrivasse per vie ufficiali, ma attraverso il teletrasporto mediale, e la strada non fosse altro che una lunga e monotona allucinazione … son teorie, queste, udite al bar di Aristide. Le attività preferite dai romani erano e sono le chiacchiere da piazza.
«Spesso la piazza è stata luogo di ribellione, di repressione, di morte. Qualche volta è stata luogo di liberazione. Oggi la piazza è invasa dalle automobili, negata alle persone, oppure trasformata nel salotto buono della città a uso e consumo turistico. In cambio, ci hanno rifilato piazzette virtuali, televisive o di cassetta. Non posso certo affermare che ci dispiaccia di non dover più prendere in affitto case mobiliate per le vacanze dei bambini. Eppure una piccola gioia ci è andata perduta: quella di curiosare fra i libri e la musica di gente sconosciuta. Si tratta sempre di roba mista e scadente, poiché coloro che danno in affitto i loro sentimenti, le loro parole, i loro discorsi, le loro macchinette fotografiche, i loro ritratti, le loro immagini sono morti. Ma proprio per questo la roba da essi lasciata acquistava per noi un fascino nuovo. Sotto lo sgabello del pianoforte, oppure in un immobile lì vicino si trovano notturni di Chopin, pot-pourri di Nick Drake, vorticosi galoppi adottati per le voci di Robert Wyatt e Roberto Murolo, e tutte le tintinnanti sciocchezzuole sui benefici delle macchine fotografiche e delle automobili e le loro cilindrate per arrivare al supermercato di turno. E dopo colazione, prima che fosse ora di scendere da quella stamberga che si faceva passare per libreria, si poteva accendere il magnetofono, registrare per la radio e picchiare rumorosamente sulla tastiera ingiallita per ascoltare i toni della voce di Nick Drake. I dischi tutti stipati nella macchina che usavamo per recarci da uno store all’altro. Gli ascolti seri, scelti tanto accuratamente per le vacanze, erano immediatamente surclassati. I sediolini delle automobili che erano scomodi, le sedie malsicure, i piatti e la biancheria semplicemente ridicoli, e tutta la casa un’avventura di cui ci si pentiva subito; ma per i primi giorni, che divertimento i libri e la musica consumati tra corse in automobile e megastore di consumo. Se fossimo rapiti e trasportati all’Università di Napoli o all’Università di Palermo e ci fosse un posto da scegliere tra il discutere una percorribilità di Roma o essere gettati nel Tevere, per provare a sperimentare la morte di Tancredi Parmeggiani, proporrei questo tema: «che Paul Celan, Nick Drake sono la maledizione della poesia – e può diventare il destino – della nostra traduzione». Poiché il poeta è sempre all’ordine del giorno, dovunque andiamo e non giova a nessuno nel supermercato abolire una lettura e una performance. Ai produttori non dispiace perché egli non chiede diritti d’autore (se dovessero pagargli il dieci per cento sugli incassi, comincerebbero ad esitare); egli è la cultura della parola e dell’immagine e vuole, quindi, una sovversione tutta per sé da parte dei supermercati che accettino le nostre performance. Gli attori lo amano perché possano appiccicarsi un mucchio di maschere finte, strepitare quasi tutto ciò che passa loro per la testa, e poi perché i critici prendono sul serio il loro Paul Celan, così come si commuovono dinanzi alla lettura della corrispondenza tra Celan e Ingeborg Bachmann. Gli attori devono solo persistere nel recitare i rivoli principali di Paul Celan e, anche se sono così incapaci che io non permetterei loro di portare un telegramma di Inge in una performance al supermercato, presto saranno considerati eccezioni letterarie; perché mentre Celan si butta nella Senna, Tancredi Parmeggiani si butta nel Tevere. Il suicida ha questo di caratteristico: egli sente il suo io nella deriva del fiume. Come un germe della natura particolarmente pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in pericolo, come se stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per farlo precipitare nel fiume della città. Di questa sorta di uomini si può dire che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile. Le prime attrici amano Paul Celan perché fu con lui che cominciarono a recitare la verità della poesia perfino all’Accademia Silvio D’Amico, e perché adorano indossare costumi piangono l’ebbrezza della pesca. Se offrite al pubblico l’interpretazione della parte di un direttore di corso letterario o di una donna come Inge o come Luciana, esso avrà qualche idea di quando colpite nel segno o no; ma date loro in versi sciolti le parole giuste, oscure, remote, date loro le intro dei poemi di Celan, le canzoni di Nick Drake, della Bachmann, e sarete salvi dalla critica. Se la maggior parte degli amici del Ghetto amano rappresentare Paul Celan, non sono stato capace ancora di stabilire l’impasto; ma essi si accingono a farlo come se declamassero l’unica cosa da fare con Rainer Maria Rilke e che l’unica cosa fosse torcergli il collo. Il risultato è sempre timico per il teatro e non per il supermercato. Tutta quell’ampollosità di scrittura e quel leggere tra le righe del verso, quello sghignazzare e quello sfarzo degli endecasillabi, quel comico agitarsi contro Burchiello, che sembra venir fuori da una sterzata di terz’ordine! Quelle automobili rotte e sospirose, quei poeti chiassosi che muoino dalla voglia di andare in un drive in per dire che Roma e Tarkovskij non hanno niente a che fare; per liberarsi della planimetria del Ghetto; quei comici dal mento aguzzo; quei retori messaggeri dei campi di battaglia del senso da Metamarket sono illusi. Oh, Jahve, Jahve, Jahve o Joshua, Joshua! Eppure se non siamo oppressi da una goffa rappresentazione della parola e inaspettatamente ci incontriamo con lo stesso poeta sorridente, che i parcheggi, che gioia, i garage, che gioia i posti macchina che trova Luciana! Una sera accendiamo la radio ed invece di un ampolloso discorso dell’ultimo presidente del Consiglio, di una barzelletta mezzo spiritosa di Vito Riviello, che si trasforma in stentato verso poetico, o di lamenti erotici di una studentessa che vuole sposarsi il segretario del Dipartimento, ascoltiamo con un brivido di commozione, ancora, uno scritto dell’amico Nick, ancora una poesia di Paul:
“Quando la notte è fredda
Alcuni la superano, altri invecchiano
Perché la vita non è fatta d’oro
Quando la notte è fredda”
(Day is done, Nick Drake)
Con alterna chiave
tu schiudi la casa dove
la neve volteggia delle cose taciute.
A seconda del sangue che ti sprizza
da occhio, bocca ed orecchio
varia la tua chiave.
Varia la tua chiave, varia la parola
cui è concesso volteggiare coi fiocchi.
A seconda del vento che via ti spinge
s’aggruma attorno alla parola la neve.
da “Di soglia in soglia” di Paul Celan
(“Von Schwelle zu schwelle”)
Oppure visitiamo un sito archeologico a metà trimestre, aiutandoci con la macchina fotografica che ci rende ciechi, e nella palestra soffocante ed affollata, dove si sta recitando la commedia inedita di Ingeborg Bachmann, riconosciamo nella figura del minuscolo suonatore uno di quei rubicondi poeti ai quali pagammo le bombolette White Horse per scrivere sui muri della città, i versi di tutti i poeti che ci passano sott’occhio; e quindi li sentiamo attaccare la loro parte, disinvolti come allodole su quelle motociclette rubate ai parcheggi …».

Nota aggiuntiva sull’angoscia pandemica: Shlomo aveva sempre evitato tutte le occasioni di speculazione nervosa, di tensione da pandemia, non amava confrontarsi e respirare insieme agli altri, gli aveva messo paura, badava al suo lavoro, da casa e soprattutto cercava di pensare alla sua famiglia.
Dopo quel giorno che era andato ad aiutare Regina e sua madre, si era rivisto con lei altre volte, ma sempre in compagnia di macchine fotografiche e mascherine di protezione dal Coronavirus.
Aveva fatto amicizia anche con Clarissa e Giuditta, che erano le migliori amiche di Regina e specialmente con Clarissa, Shlomo in più di un’occasione aveva accennato alle sue intenzioni e sperava di conoscere qualcosa sulle preoccupazioni di Regina, prima o poi, di rimbalzo.
Shlomo cercava ora di disimpegnarsi al più presto dai suoi lavori e dalle sue preoccupazioni, per trovarsi, la sera, sulla Piazza di Montesacro con i suoi amici. All’inizio di tanto in tanto, poi più frequentemente, si distaccava da loro per intrecciare la conversazione con Regina e le sue amiche.
Questo dava motivo ai suoi amici di schernirlo, per cui Shlomo si sentiva spesso imbarazzato ed indeciso tanto che, a volte pur a malincuore, rinunciava a quel breve, ma preoccupante, contatto amichevole.
Anche quando sedeva con le donne cercava di mettere sempre Clarissa o Giuditta in mezzo tra lui e Regina e questo perché, quando si trovava gomito a gomito con lei, l’imbarazzo diventava più marcato e la lingua meno sciolta del dovuto. Le preoccupazioni si confrontavano con le paure del contagio, paure estreme, paure pandemiche, paure abissali, che erano forti e che solo il mediale capitalistico riusciva a gestire. Una sera di queste Marco, sempre il solito Marco, emblematico, distopico e simbolicamente violento, nascosto dietro il portone dei Pommidori, con la mano esposta, lanciò il telefonino ai piedi del gruppetto che si era seduto sugli scalini del balzolo della muta. Clarissa lo raccolse e lo lesse in silenzio, ma le si stampò sul volto una larga espressione di disagio.“Facci vedere” chiese Giuditta e tutti allungarono il collo sullo schermo dello smartphone 5g. “Shlomo è un ebreo di merda, portatore di coronavirus, come tutti i napoletani, ebrei di merda e comunisti della sua stessa specie; lo ha contratto, dopo il suo ultimo viaggio in Cina e lo sta spargendo in giro e si diverte a portarlo in giro”. Shlomo ebbe un sobbalzo e sentì una grande vampata di calore al volto. “E Regina, appoggia lo zio Marco e dice che Shlomo è uno sporco ebreo” bisbigliò ridendo Clarissa, dando il cellulare a Giuditta che, nel frattempo, era diventata rossa in volto come una ciliegia: “Ora li sistemo io quei vigliacchi: c’è da fare un lavoro di smascheramento su chi ce l’ha veramente il coronavirus? Chi è che sta sul serio attraversando l’ora più buia? Si sta ripresentando l’8 settembre? Per caso da una sensazione di invulnerabilità dei corpi, di odio contro lo straniero e di identificazione col potere, si sta passando – in brevissimo tempo e non si sa per quanto – a una condizione di radicale insicurezza ontologica e politica, in cui tutti i parametri storici precedenti, di comprensione e di riferimento sono sospesi e oscillanti? Il contagio è vero, è falso, è virtuale, è biopolitico, come vogliono raccontarci i seguaci di quel pensatore o di quell’altro? Il pericolo del contagio serve ad introdurre uno stato di emergenza? No, l’emergenza c’è già, l’imprevisto, l’allarme è già scoppiato! Bisogna confidare nella scienza? E’ una macchinazione tecnologica mascherata da informazioni scientifiche sfuggite ad un laboratorio batteriologico, sfuggito ai servizi segreti? È probabile che il concetto di biopolitica non spieghi più delle necessità di controllo della società dove viviamo! Il governo dei corpi sta lasciando il posto a un disordine reattivo della natura, che pone in primo piano l’emergenza ecologica: la situazione attuale deriva dall’incapacità crescente a governare in modo non autodistruttivo la vita biologica”, e così dicendo Shlomo si alzò di scatto e corse in direzione del chiasso del quartiere, dove Marco e gli altri amici, così come se stessero in un locale della movida comasca, dopo il lancio, erano scappati ridendo e inneggiando alla volontà dei liberali e del partito radicale.
Shlomo, appena girato l’angolo, si fermò, “… e Regina appoggiando lo zio Marco, provò ad additare ancora Shlomo: ripensando a quel vuoto ragionamento da filosofo che aveva fatto o aveva potuto fare Shlomo, sì, quello sporco ebreo!”.
“Ma allora anche lei pensa questo di me, anche lei rema contro di me, anche lei sta preparando o ha già preparato delle impavide strategie per portarmi alla morte. Stanno contro di me, perché penso che l’ecologia sia una forza “empia”, come pensava Leopardi, aorgica e dissolvente, una forza che può distruggere o ricreare qualsiasi contagio. Il governo della vita con la svolta del coronavirus implode, dissolve; esso esibisce la tragica incapacità nel contenere l’emergenza climatica, biologica, umanitaria, prodotta dal solo dominio del capitale. L’immagine di quella forza segreta e collettiva è contraddetta da Marco, che boicotta la vita mia e di tutti quelli come me, cercando di prendere l’ultimo filobus andando incontro alla Movida, per consumare, per sfuggire alle restrizioni sanitarie e portare dovunque il contagio; mentre continua a dare a me dello sporco ebreo contaminato. Questa situazione forzata non suscita associazioni con lo stato di eccezione o col governo disciplinare dei corpi, ma ricorda piuttosto immagini cinematografiche di guerra e di energie distopiche in fuga; in partenze precipitose nel proprio egoismo; non la dissoluzione di uno stato di eccezione ma la decomposizione di un organismo che da sfascismo passa allo sgretolamento oligarchico definitivo. Anche la morte sta per perdere significato! Dov’è il “vero amor”, di cui parla Leopardi nella Ginestra, e che può essere contro i “perigli” e la “guerra comune”? Quale risposta possibile all’angoscia e all’ostilità di tutti, quale totalità affettiva rischierà di dominarmi”? Sussurrò, come tirando le conclusioni: poi fece il passo lungo, per correre dietro ai suoi amici, ma ci ripensò.
Sapeva che li avrebbe trovati nella Piazza, sicuramente lo avrebbero “canzonato”, davanti a tutti, e allora, pian piano, con il cuore zeppo di malinconiche sensazioni, prese il taxi di mezzo e si avviò verso casa.