Il titolo dell’esposizione antologica, Lascia stare i sogni, in mostra fino all’11 giugno al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, è una citazione all’ultimo lungometraggio di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972), Atlantide. Fu presentato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021, i cui contenuti inediti sono stati esposti al MAMbo – Museo d’Arte Contemporanea di Bologna.
I video dell’artista ravennate indagano esplicitamente i temi caldi della società contemporanea. Attingendo dall’ampio vocabolario cinematografico, affronta questioni legate al lavoro e al fallimento del capitalismo, ridefinendo i labili confini tra cinematografia e arti visive.
“Un video di Yuri Ancarani nasce quando Yuri Ancarani è incredulo ed è sorpreso, oppure si trova di fronte a un’immagine o qualcosa che lo spaventa tantissimo. In quel momento trovo che sia interessante affrontare queste immagini che magari mi turbano e mi sorprendono, da lì inizia la mia ricerca”. (Yuri Ancarani, intervista per il PAC)
I temi e le immagini ricorrenti nei video di Ancarani, agiscono come cassa di risonanza sentimentale e sensoriale sul visitatore, che è invitato a un’esperienza di totale riflessione. Questa, è alimentata dalla tensione percepita e incalzata per lo più dai rumori e dall’assenza di voci; una scelta che appare chiara in San Siro (2014), San Vittore (2018), San Giorgio (in corso). I titoli polisemici rimandano ai luoghi emblematici della contemporaneità (lo stadio, il carcere, la banca) e provocatoriamente alludono anche a santi cristiani. In questa trilogia, Le radici della violenza (2014-in corso), la denuncia è volta a svelare questioni sociali che si tende a non indagare. Infatti, nei film di Yuri Ancarani si può parlare di «copro politico», in quanto le azioni delle persone riprese sono tese a svelare i drammi della società. In questo senso, ruolo centrale ha la voce della giornalista Marina Valcarenghi che, in Il popolo delle donne, rivela l’urgenza di narrare le violenze private e le conseguenti ripercussioni nella dimensione quotidiana.
“Questi film cercano di emulare al massimo il mio occhio, il mio modo di vedere la realtà che mi circonda. Sono tutti film che sembrano girati altrove e ti portano molto lontano, ma che in realtà sono girati tutti attorno a me, molto vicini”. (Yuri Ancarani, intervista per il PAC)

Il PAC si svuota di artifici superflui e le sale espositive diventano una capsula temporale immersiva, dove a chi guarda è chiesto di leggere con lucidità le dimensioni inosservate della contemporaneità. La sensazione angosciosa è segnata dalle prospettive talvolta taglienti delle inquadrature, dalla vigilanza, dagli ambienti claustrofobici che vincolano ogni movimento. Al contrario, altri video sono caratterizzati da ambienti immensi, montani e silenziosi, come in Il Capo (2010), dove un uomo dirige le operazioni di una macchina tramite gesti codificati, consolidandone un rapporto simbiotico. Il lessico dei filmati è fortemente finalizzato a intessere un dialogo con lo spettatore.

Yuri Ancarani, nel suo lavoro, si rapporta in modo diretto con la società, coinvolgendo persone reali in una rappresentazione senza filtri della realtà. Anche le inquadrature sono il frutto intuitivo dell’atto di ripresa e del successivo montaggio, non nascono dunque da una predeterminata sceneggiatura. Si può affermare senza dubbio che, attraverso i filmati, l’artista smaschera una quotidianità che talvolta si manifesta come impetuosa e traumatica.
Chiara Rauli