Gerhard Merz
Salvo Barone
Salvo Barone, Inutile conversazione sotto la luce elettrica olio su tela 2025 cm 220x 200

Uno dei tanti

È in corso sino al 4 maggio presso la Chiesa di San Benedetto e Santa Chiara di Licodia Eubea la mostra di Salvo Barone Uno dei tanti.

“Chi sei? Uno dei tanti”. Nel caso di Ligabue, che su questo scambio di battute ha scritto una canzone, la risposta alla domanda serve a sdrammatizzare. Sono uno dei tanti perché, a differenza di quanto credono i miei fan, in me non c’è niente di speciale: “Son quello che ti tiene su lo specchio. Ma quello che ci vedi è sempre e solo quello che decidi”. L’artista è uno strumento attraverso cui il fruitore si fa un’idea del mondo e della storia. Il che vuol dire anzitutto che, nella sua opera, chi crea è presente nella misura in cui scompare: più efficace sarà la mimesi, meno notizie sull’artista saranno indispensabili all’interpretazione. Ciò nonostante, in una relazione di tal fatta, la comprensione dell’opera dipende in larga parte dal fruitore, che potrebbe benissimo fraintendere il messaggio. Nel caso di Salvo Barone, pittore di donne e di uomini, è successo in più di una occasione. Ricordo persino di una volta in cui un tale, che si era chissà come riconosciuto in un dipinto, provò a denunciarlo per “i diritti d’immagine”. La denuncia cadde nel vuoto, ma è indicativa di quanto le sue personae – così i latini chiamavano le maschere – abbiano a che spartire col mistero dell’esistenza individuale. L’aggettivo “tanti”, del resto, non qualifica un carattere: è solo stigma numerico di un’identità più vasta.

Ognuno dei protagonisti dell’opera di Salvo è difatti una monade, un organismo in sé compiuto; ma è, al contempo, un macrocosmo, un universo in cui tutti possono trovarsi, proprio come accadeva in passato con le allegorie di vizi e di virtù. Notiamo, ad esempio, in una tela, un gruppetto riunito per scattarsi un selfie: “uno dei tanti” dovrebbe stringere in mano un telefonino, ma l’artista lo lascia ad afferrare il vuoto. Il dipinto si intitola Identità: quell’identità autentica che l’immagine non sa garantire, a dispetto della sua replicazione. Potremo farci tutti i selfie del mondo, non otterremo mai un ritratto, al massimo una caricatura: io è un altro, o magari sta altrove. Rimane forse il noi, il contesto allargato del dialogo, del ventaglio di opinioni; ma pure nel mostrarci esempi di ipotetico confronto tra individui, l’artista non dimostra alcun rispetto umano: la “conversazione” di quattro figuri ai piedi un muretto non cambierà il destino del mondo; è “inutile”, priva di valore. Persino la quieta avanzata di un drappello di donne – l’immagine richiama il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo – avviene senza sfondo. È la “direzione contraria”, l’orientamento, a decidere il futuro, non il concorso dei “tanti”, che nei lavori esposti in mostra Salvo presenta come un gregge o come un branco, in ogni caso come un insieme anonimo, del tutto sottomesso alla forza che lo guida. Lo suggerisce, in un altro dipinto, l’assenza di titolo; in un altro ancora il titolo di Sabba; non riservato a un raduno di streghe, ma a fedeli che partecipano a un rito religioso. Dove altri avrebbero colto fervore o esaltazione, Barone allinea volti in un gioco a somma zero. Anche i ritratti di singoli sono impietosi, a tratti espressionistici. L’umanità dei soggetti – poveri, vanagloriosi, indecenti o un po’ furbetti, come lo stesso Salvo nel suo Autoritratto – è rappresentata senza filtri, sino a rasentare, lo accennavo poc’anzi, la moralità dell’exemplum, ma senza mai venir meno al principale interesse dell’artista, che è pure la motivazione più profonda di tutto il suo lavoro: come per il grande Lucien Freud, anche per Salvo “il soggetto è un pretesto per dipingere” la carne. “Voglio che il dipinto sia flesh, carne”, afferma Freud, che con de Kooning condivide quest’assunto: “la carne è la ragione per cui è stata inventata la pittura a olio”. E sulla “carne dipinta” Salvo Barone lavora con vera ossessione, consapevole di come la decadenza dei corpi – di uno dei suoi Pontefici non è rimasto che lo scheletro – sia la forma suprema di svelamento dei soggetti, la cui identità scompare perché non conta più nulla, dal momento che le opere – autonomi brani di pittura – si sono fatti corpi a sé. Uno dei tanti è nessuno. E tuttavia ciascuno conta. Come scriveva Pavese commentando la prima traduzione di Spoon River, “ciascuno di questi morti porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua”. Bene. I personaggi di Spoon River erano morti realmente. Quelli di Salvo muoiono forse al presente, ma basta che su di essi si posi il nostro sguardo perché rinascano all’eterno – o quantomeno al presente dilatato – che appartiene alla pittura.

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