Ugo Ferrero

Ugo Ferrero: un artista felicemente fuori del tempo

Una riflessione di Roberto Gramiccia su Ugo Ferrero, in margine alla sua ultima mostra romana, tenutasi qualche mese fa a Roma presso Palazzo Brancaccio.

Ugo Ferrero, come del resto chi scrive queste note, è un uomo fuori del tempo. Lo è perché non si uniforma minimamente allo stereotipo del professionista al passo con i tempi: aggiornato, anglicizzato, tecnicizzato, performante. Non lo fa nonostante la sua formazione e la sua cultura non siano estranee ai territori della sociologia, della comunicazione e del marketing. In questo mi fa venire in mente una figura che sono uso scomodare (forse anche troppo, ma non so resistere): quella di Renato Caccioppoli, un grande matematico napoletano. “Matematico” – a suo dire – in quanto poeta, pianista, anarco-comunista, amico dei pazzi, degli ultimi e degli sbandati.

Anche Ferrero ama la musica. Non mi risulta che suoni il pianoforte ma scrive poesie e racconti. Parla lentamente della sua pittura, senza autocompiacimenti ma scegliendo le parole come chi è abituato a selezionarle per comporre versi o narrare storie. Quello che ne esce fuori è un contrappunto alla sua arte non solo appropriato ma poeticamente – quasi musicalmente – arricchente. Non sempre i pittori sanno parlare dei loro quadri. Anzi spesso si scherniscono affermando che “la pittura parla da sola”. È vero ma è anche falso. 

La verità è che spesso gli artisti le parole non le sanno usare, anche quelli che sono bravissimi con i colori. Né – sia detto di passaggio – il trionfo dell’arte concettuale più talebana (quella negante e irridente il manufatto) che caratterizza il nostro povero tempo – diversamente da quanto si potrebbe pensare – ha migliorato il linguaggio degli artisti encefalizzandone le capacità espressive. E così ci tocca campare in un tempo e in un mondo dove pochi sanno dipingere ma anche pochi sanno parlare con appropriatezza. Rispetto a questo, Ugo Ferrero viaggia contro corrente. Un navigatore solitario che ho avuto la fortuna di conoscere mentre mi commentava la sua mostra che, guarda caso, si intitolava Segno dopo segno. Una mostra da leggere. Una magnifica esposizione ormai chiusa ma che non dimentico.

Come indica il sottotitolo dell’evento, osservare un dipinto è come leggere una storia. L’esperienza retinica non è fine a sé stessa. E, come la complessità della struttura neurologica che collega cellule retiniche e corteccia cerebrale, l’esperienza di osservarlo, semplicemente, non può non confluire nelle decine di miliardi di neuroni e di sinapsi che compongono il nostro cervello. Anche per questo la pittura è sempre e inevitabilmente concettuale.

I magnifici spazi di Palazzo Brancaccio costituiscono la degna e suggestiva cornice della mostra di Ugo Ferrero, la loro storia e la loro architettura interagiscono produttivamente con un contenuto prezioso. Il percorso che ho il privilegio di intraprendere con accanto l’artista il quale, come il Virgilio dantesco mi accompagna, si snoda lungo tre sale. Eviterò una descrizione analitica, prediligendo una procedura rizomatica ed emotiva, non lineare quindi né geometricamente esaustiva. 

A colpirmi della prima grande sala è la parete destra dedicata a sei elementi della natura: fuoco, aria, acqua, vento, cielo, terra che subito mi richiamano alla mente la mostra che, nel ’69 all’Attico di Fabio Sargentini, battezzò la nascita dell’Arte Povera. I sei elementi, evocati pittoricamente attraverso un gesto post-informale, sono, come tutti gli altri lavori, dipinti a spatola. In comune presentano il fatto di essere attraversati, nella stratificazione dei colori dominanti, da alcuni segni prodotti da gesti che, come rasoiate, li attraversano. Segni rossi, vitali e vitalistici tracciati dall’artista mentre è bendato, recuperando una metodologia che allude all’automatismo psichico dei surrealisti. 

La natura quindi e le profondità insondabili dell’inconscio entrano in contatto, definendo oggettivamente i poli di una realtà che l’uomo non può dominare mai del tutto. Non può farlo perché limitato dal suo essere “modo” della natura, condizione che limita fortemente la sua libertà, e perché dell’inconscio non può disporre a suo piacimento, mentre ne risulta inevitabilmente condizionato. Consapevole di questi limiti, Ferrero conosce la finitezza e la fragilità umana ed è proprio per questo che sviluppa una religiosità laica fondata su una sua personale idea di pietas, copartecipe del dolore delle vicende umane ma non rassegnata alla miseria che spesso gronda da esse.

Nella seconda sala continua l’excursus sui grandi temi filosofici che questa mostra spavaldamente affronta: la vita, la morte, la maternità, la paura, la saggezza, la forza e la bellezza e infine l’ironia. Ironia che è mezzo e fine di questo artista mite ma rigoroso. E che è omaggiata da tre ritratti presi di profilo che, come dice l’autore, «tracciano un percorso ironico e autoironico attraverso tre titoli: Sempre dopo Orribili Pensieri, con una linguaccia che risponde alle mostruosità della vita, Potendo Essere con una lingua biforcuta a simboleggiare i brevi momenti di perfidia che attraversano la nostra mente, e, infine un sentito invito Elogio del Silenzio in cui la lingua si attorciglia formando un nodo come a dire che spesso è decisamente meglio optare per il Silenzio». Quel silenzio che si addice alla consapevolezza dell’errore  sempre in agguato, ma anche alla minaccia incombente della stupidità umana, una delle calamità più grandi e pervicace da che l’uomo si aggira per le strade del mondo.

Nella terza sala, Ciò che non sapremo mai di noi stessi è il titolo del trittico di sculture ruotanti in modo asincrono che girano e poi si fermano, prima di ripartire senza una regola. L’opera “scrive” un’altra pagina del libro a cui Ferrero lavora da decenni attraverso le sue opere, oltre che con le sue parole. Una pagina che parla dell’incertezza che tutti ci pervade, dell’assurdo (quello di Albert Camus) che domina le esistenze di chi solo di rado riesce a trasformare le difficoltà e i dubbi in certezze, almeno temporanee, che migliorano lo stato delle cose presenti. 

Completano la sala gli omaggi a Carmelo Bene e ad Olympe De Gouges, femminista ante-litteram, figlia della Rivoluzione che, prima di Robespierre, non salvò la testa dalla ghigliottina. Una figura che riconduce agli esordi della carriera di questo magnifico artista, oggi nel pieno della sua feconda maturità, quando presentò una delle sue prime mostre, Benedetti maledetti, dedicata ai poeti amati da Verlaine e ad altre personalità complesse del pantheon da lui prediletto: Francis Bacon, Pierpaolo Pasolini, Alfonso Gatto, Garcia Lorca, Carmelo Bene, Stefan Zweig e, appunto Olympe De Gouges.

Finisce la mostra che mi ha consentito di conoscere un artista diverso. Un uomo felicemente fuori del tempo.

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