Non è passato molto tempo dall’editoriale di Andrea Guastella (Un ergastolano a casa sua, “Segno”, n.292), uscito in risposta all’articolo di Gian Maria Tosatti – oramai consumato e riappropriato da molte penne – pubblicato su “ Il Sole 24 Ore” lo scorso anno. Guastella discuteva i pro e i contro della riflessione che l’artista ha sottoposto pubblicamente in merito al “coma profondo in cui versa la critica italiana”: parafrasando le sue parole, egli sostiene la tesi per cui non è la critica a non enunciare più riflessioni, analisi e giudizi sensati, bensì sono i canali, attraverso i quali il dibattuto critico-artistico sgomita per uscire dall’emarginazione, ad essere cambiati. Niente di più puntuale.
In primis, tengo a sostenere la veridicità di tale affermazione, aggiungendo anche che esistono, però, redazioni di un tipo e quelle di un altro e che, certamente, alcune fra queste permettono, libere, i momenti di riflessione e di espressione che i critici e gli articolisti esprimono anche all’interno della modalità recensiva – così tanto bistrattata ma, alla fine, ugualmente riproposta – e altre, invece, che non puntano sulla medesima politica redazionale. Assumere un approccio maieutico nei confronti dell’opera d’arte da parte della critica permette così di addentrarsi il più vicino possibile in quell’atto di riflessione che l’artista ha elaborato per determinare la stessa critica, e poi, eventualmente, confutarlo. “La critica manca – a sostenerlo sono in tanti – perché mancano gli artisti” (ancora nelle parole di Guastella). Argomentazione valida a tratti, altre volte, invece, alibi perfetto per tranciare di netto la possibilità di una contestualizzazione dello scenario attuale: ci sono fin troppi artisti sul territorio, ma pochi rispondono a tono ai critici riguardo alla loro visione politica ed esistenziale dell’arte, limitandosi ad una risposta approssimativa.
Il fulcro corrotto risiede, però, nel punto di osservazione che si pone al centro della riflessione, nonché nella volontà di porre l’attenzione solo sugli artisti, e non sulle opere prodotte: un tale stratagemma permette di considerare la modalità espressiva della riflessione, nelle occasioni di recensione, come un mero mezzo pubblicitario. La gestazione di un tale processo va fatta risalire agli anni ’80, e alla spettacolarizzazione che da quel momento in poi si è attribuita all’intero ingranaggio dell’Arte, o se vogliamo al suo clickbait, se si parla solo della sua riproduzione mediatica; più specificamente, questa situazione riguarda gli artisti giovani, che pur di esser compresi, accettano di sottoporsi ai riflettori puntati su di loro dagli stessi finanziatori. Noi ricordiamo con ammirazione, con timore reverenziale e rispetto i grandi maestri del ‘900, senza costruire un’identità precisa, senza essere in grado di portare a compimento una gestazione che appare eterna; e le voci dei tempi passati, quelle di chi l’ha critica l’ha fatta e vissuta, generalmente imputano al panorama contemporaneo una certa mancanza di collettività, non soltanto intesa come un sentirsi parte di una corrente, ma più precisamente come una volontà, alimentata dagli artisti stessi, di generare e alimentare quel dibattito sull’arte che ha determinato, di conseguenza, grandi epifanie, oggi presenti nella saggistica e nella manualistica.
Se però riportiamo la lente sul punto di vista originario, nonché sul valore esistenziale che l’artista attraverso l’opera cerca di diffondere, e che poi scaturisce nell’elaborazione di quella struttura storico-metodologica per la formazione generazionale, allora ecco che si risponde alla fatidica domanda, “perché si ricordano solo determinati artisti piuttosto che altri?”. Si tratta, credo, di praticare un esercizio fatto di costanza, di continua necessità di confutazione; di fornire non argomentazioni ma riflessioni, non “delle” opere degli artisti, ma “grazie alle” stesse. In questo lunga premessa, tengo anche a sostenere che finché ci saranno artisti che si servono dell’opera prodotta come mezzo veicolante una riflessione esistenziale, non ridotta solo ad un resoconto puramente descrittivo della modalità processuale tramite cui la stessa opera è stata determinata, allora la critica continuerà a fare il suo corso e gli artisti sentiranno sempre l’urgenza di attingere dal serbatoio della memoria per formarsi, e per continuare a portare avanti riflessioni ulteriori, contribuendo di fatto a rendere quel valore parte dell’immaginario collettivo. Assumere un approccio maieutico nei confronti dell’opera d’arte, da parte della critica, permette così di addentrarsi il più possibile in quell’atto di riflessione che l’artista ha elaborato per determinare la stessa, e poi eventualmente, di confutarlo.
Tale processo può scaturire solo dalla natura della domanda che inevitabilmente non può non compararsi con tutti quei Bildungsromane (romanzi di formazione) che hanno permesso la sua stessa genesi. Ecco perché, guardando l’immagine di un panneggio, la si associa inevitabilmente al sacro. Una volta “Resi ridicoli Riti, Miti, Dei e Misteri”, parafrasando Cecilia Marchese, l’individuo è “un ergastolano in casa sua”, e da questa costrizione viene a determinarsi, di contro, una spinta urgente di riappropriazione di una risolutezza sistemica, metodologica e gnoseologica dell’arte che, grazie alla memoria storica, può, come concausa, contribuire a creare valore collettivo nel tempo.
Nell’osservare, dunque, le fotografie di Giulia Marchi, testimonianza visiva di tutti quei romanzi di formazione che hanno plasmato la sua identità non solo artistica ma anche esistenziale, si percepisce immediatamente l’urgenza di “Sentire” autenticamente “l’immagine”, come scrive Fabiola Triolo, critica e curatrice di Bildungsroman, ultima personale dell’artista romagnola inaugurata, lo scorso 13 gennaio, alla galleria LABS di Bologna. L’urgenza della Marchi non è certamente quella di appropriarsi della potenza della memoria allo scopo di rimarcare l’importanza dei grandi maestri del passato, quanto, invece, quella di aver colto – cercando di avvicinarmi il più possibile alla riflessione che la Triolo esprime in merito alla pratica dell’artista – la potenza di ciò che Sartre definiva “Coscienza immaginativa”. La fenomenologia dell’immagine si basa sull’incarnazione diretta di un pensiero irriflesso. Mi spiego meglio. Un panneggio disteso su una superficie compare non soltanto in quanto oggetto presente nelle coordinate di spazio e tempo, ma anche in quanto traduzione di uno schema simbolico. Se lo sviluppo di un’idea avviene sotto forma di una successione di coscienze immaginative, collegate sinteticamente e raccolte nel tempo, quel panneggio, dunque, assumerà una connotazione estranea da quella reale e dalla sua fattezza formale, incidendo nella memoria recondita del suo osservatore. I tessuti nella loro natura polimorfa e policroma, che la Marchi ha selezionato personalmente, diventano così tracce mnestiche che richiamano l’attenzione non tanto, a mio parere, della singola individualità percettiva quanto di quella universale. L’azzurro oltremare, contestualizzato e inserito in una distesa di bianco avorio, chiama alla memoria il tessuto dell’Annunciata di Palermo di Antonello Da Messina (1475,2023), come le acque verde pastello del Giordano nel Battesimo di Cristo di Masolino da Panicale (1410-1480,2023). Se anche l’occhio meno esperto non riesce a reinterpretare nell’immediato la traduzione storico-artistica, che la Marchi ripropone nelle sue opere omonime, trasformando e reinterpretando, così, la composizione dei maestri moderni, certamente ad incidere è, invece, la accezione ieratica che lo stesso non può non percepire. Una luce eterea irradia quei panneggi elegantemente distesi, rispondendo a quell’urgenza che l’artista sente di esprimere attraverso la complementarità fra assenza e presenza. I tessuti riposti nella superficie ricordano la memoria di una presenza apparentemente dimenticata, lasciando sospeso e in continua ricerca chi li osserva. La figura si fa invisibile abbandona il suo indumento per lasciarlo appoggiato, fino a scomparire nell’essenza (Amabili Resti. Tempo vuoto, Gilles Deleuze,1985, 2023), la stessa che la Marchi cerca di fissare componendo con eleganza il vuoto, modellandolo con l’esposizione della macchina fotografica donandole una plasticità minimale attraverso l’ombra di una semplice piega nel tessuto bianco. Servendomi, infine, delle parole della Triolo, concludo.“Nulla più dell’invisibilità può servire da amplificatore per la capacità di immaginare, e nulla più dell’arte si nutre della potenza delle immagini, ma esiste una parola capace di definire lo spirito con cui l’arte contemporanea si relaziona all’immagine, suo nutrimento” (Diario di un invisibile. In caso di necessità rompere la vetrina mediatica, giorno 2, a cura di Fabiola Triolo, “Ossigeno. Elements of life”, Vol 7, p.69)
Bildungsroman – Giulia Marchi
Testo critico di Fabiola Triolo
LABS Gallery, Bologna
dal 13 Gennaio al 3 Marzo 2024