L’intento di Silvia Bordini, di dedicare uno studio al fenomeno del libro fotografico, è quasi un atto dovuto nell’attuale proliferare del genere, incentivato dall’accessibilità delle risorse digitali, come anche, e perché no, dai tempi morti lasciati all’arbitrio di ciascuno nel confinamento imposto dalla pandemia. Il valore aggiunto dell’impresa è che lo sguardo dell’autrice è quello dell’insider, non solo di chi ha la strumentazione storico-critica per affrontare una storia e una disamina analitica di tale produzione, ma anche di chi ne ha pratica diretta e partecipe, avendo Bordini ormai pubblicato diversi fotolibri. Uno sguardo quindi sghembo e trasversale, quello agito dall’autrice, che rende la lettura di questo libro – agile, scorrevole e ottimamente illustrato – un processo di conoscenza coinvolgente quanto attendibile, verificato in prima persona nei suoi quesiti ed esiti.
Se per un grande pubblico, il libro fotografico può ancora ricordare il genere del Coffee-table Book, un prodotto di intrattenimento e superficiale fascinazione, patinato e costoso, Bordini subito esordisce facendo chiarezza, e indicando come il libro fotografico si sia avviato a una contemporanea pratica e definizione, con la fortuna, nello scorcio fra anni Sessanta e Settanta, del genere del libro d’artista, studiato da Germano Celant in un testo del 1971, e a cui questi dedica una sezione nell’ambito della Biennale di Venezia del 1976. Siamo nella temperie dell’arte concettuale, l’attenzione degli artisti è autoriflessiva, l’opera non è altro che una messa in forma o visualizzazione delle proprie specificità e procedure linguistiche, è un discorso intrinseco alla natura del mezzo espressivo che si impiega e dei codici comunicativi che questo comporta. Il libro fotografico è allora un libro d’artista esclusivamente affidato alla sequenza delle fotografie, ma queste non vi valgono di per sé, per i loro contenuti, fattura, o cifra formale, ma in quanto motivate da un progetto di discorso antecedente al loro essere state scattate, che, quindi, le orienta, e ne supporta l’assemblaggio. Si tratta di uno scarto concettuale, prima che operativo, di cui Bordini da ragione con un necessario affondo storico che – partendo dal rapporto libro/fotografia e oggetto/immagine enunciato da Susan Sontag – riporta alle origini della fotografia. La messa in sequenza è costitutiva di tale pratica, tanto più nei suoi inizi, a metà ‘800, quando il suo impiego nei termini di una registrazione obiettiva della realtà, sfociava in cataloghi e inventari in ambito scientifico come nella confezione degli album di famiglia in quello privato. L’assunto documentario continua a motivare altri capisaldi di repertori fotografici nel corso del primo ‘900, dalle sequenze di August Sander o Walker Evans, fino a due libri che hanno fatto storia, sia per la messa a punto critica di specifici linguaggi di ripresa che per lo spessore di testimonianza antropologica, vale a dire The decisive Moment di Henri Cartier Bresson del 1952 e The Americans di Robert Frank del successivo 1959. La svolta di cui si diceva avviene a opera di un artista di area pop, Edward Ruscha, che nel 1963 pubblica un dimesso libretto, 26 Gasoline Stations, Route 66, dove si susseguono, senza altri nessi che la mera successione spaziotemporale, altrettante banali foto di stazioni di rifornimento, ciascuna prelevata come un ready made fra i tanti di un’ormai accelerata società dei consumi. La ragione dell’opera sta nella regola che preventivamente l’autore si è data, ventisei sono i pieni di benzina necessari per percorrere l’intero arco di un percorso autostradale mitizzato dalla poetica On the road, che da San Francisco arrivava a Oklahoma City. Cioè è il progetto normativo che l’autore si è dato – al fondo, un conteggio spazializzato del tempo – che giustifica numero, taglio e sequenza degli scatti, in una preconizzazione dei Paragraphs on Conceptual Art del 1967. Sol Lewitt vi sosterrà, con ormai avvertita cognizione di causa, che l’opera non è altro che la conseguenza, non obbligatoria e neanche necessariamente autoriale, di un sistema di regole procedurali, preventivamente redatto, e dipendente dai codici linguistici e risorse tecniche del mezzo con cui si opera. Del resto siamo negli anni dell’assunto macluhaniano che “il mezzo è il messaggio”.
Il libro fotografico nasce allora, non come raccolta rilegata di scatti-opera, ma come libro oggetto in sé computo, privo di rimandi extra-referenziali, altri dalla logica intrinseca alla propria messa in atto. Nasce spontaneo un altro quesito che Silvia Bordini prontamente si pone: perché un libro fotografico? cosa in particolare lo istituisce e lo differenzia rispetto alla più generale pratica del libro d’artista, dove testi e immagini vengono a interferire su più livelli o gerarchie? Bordini prende l’esempio di un caposaldo italiano del genere: Km 0,250 di Luigi Ghirri del 1973, costituito da una sequenza di trentadue stampe a colori, concepito, nelle parole dell’autore, da un progetto di comunicazione. Cioè l’immagine in sé, come il suo insieme, è contraddistinta da un’icasticità, pregnanza, leggibilità immediata, che la rendono altra, dotata di un diverso gradiente di incidenza ed efficacia, rispetto ai nessi logico-consequenziali, alle astrazioni concettuali, del discorso verbale. Si tratta di mettere in atto col libro fotografico un pensare per immagini, talmente specifico che uno dei principali, attuali, testi di riferimento, tirato in causa da Bordini è, appunto, Understanding Photobooks, pubblicato da Jorg Colberg nel 2016. Altro termine pertinente per il libro fotografico è l’agambeniano ‘dispositivo’, e qui entrano in ballo le sue modalità di confezione, quindi di funzionamento secondo un determinato, stabilito, progetto. Nell’analisi di Bordini il libro fotografico si presenta come un prodotto estremamente complesso, un medium frutto della convergenza di saperi interdisciplinari: non conta tanto la selezione, quanto l’articolazione delle immagini nella sequenza discorsiva e soprattutto la loro impaginazione grafica nella forma-libro. Ecco che per l’esito finale per lo più non è sufficiente un fotografo, ma altrettanto incidente, rispetto all’autore e responsabile dell’idea progettuale, è il ruolo di un curatore/editore, come quello di un grafico/designer.
Siamo all’ultimo paradosso di questa ricostruzione, quello di cui Bordini si occupa, con estremo aggiornamento di informazione e altrettanto, militante, piglio discorsivo, nell’ultimo capitolo del suo studio intitolato Strategie digitali e oggetti immateriali, dedicato alla recente, diffusa fortuna commerciale, oltre che editoriale ed espositiva del libro fotografico. La democratizzazione pervasiva delle fotocamere cellulari, come le risorse digitali di elaborazione ed edizione delle immagini, hanno portato a un’indiscriminata sovrabbondanza dei cosiddetti ‘dummies’, fotolibri autoprodotti e autogestiti, non più prodotti sofisticati, ma frutto di un onnivoro do-it-yourself, dove la disponibilità di strumenti legittima e investe d’aura supposte capacità creative della collettività degli utenti, mai come ora così sbrigliate e a buon mercato. Non mancano le pubblicazioni enciclopediche sul photobook (Andrew Roth, Martin Parr) e i manuali, come il Self-publishing in the digital Age: the hybrid Photobook, di Doug Spowart del 2011, che proprio nella contaminazione delle competenze ripone la specificità e invalsa praticabilità di questo medium. Per legge consequenziale il libro fotografico non sfugge, come il resto della produzione artistica attuale, a una sua artata messa in spettacolo: dai festival che vi sono dedicati, da Cosmo Arles in poi, a grandi mostre come Fenomeno Photobook a Barcellona, dove all’originario, individuale, coinvolgimento del prendere in mano o sfogliare un libro-oggetto, è succeduta la più quantitativa pratica del touch-screen e addirittura la proiezione di maxi-ingrandimenti, che snaturano al fondo la ragion d’essere eminentemente concettuale di questa produzione. Con lo spirito vigile di chi sia coinvolto in prima persona, Bordini segnala possibili percorsi alternativi come il recente laboratorio Photobook Reset di Berlino, del 2018, motivato dalla necessità di una rimessa in questione critica di una ricerca che minaccia lo stallo. Si tratta di riportarne in primo piano il possibile spessore di adesione al frangente culturale in cui si opera, e che si riverbera nel progetto dell’opera: sottolineare, quindi, l’incidenza di storia e memoria, come della risposta alla situazione ambientale e socio-politica. Il volume è così corredato in appendice di nove schede dedicata ad altrettanti fotolibri che esemplifichino l’assunto dell’autrice: la fotografia come strumento di interpretazione e, quindi, di trasformazione del reale e la capacità reattiva del libro fotografico, grazie al suo articolare in un contesto riflettuto degli insiemi di immagini, altrimenti disseminati nell’anarchia anonima della rete.
Photobook
L’immagine di un’immagine
di Silvia Bordini
postmedia books 2020
144 pp. 72 ill.
formato 196x146mm