Salvatore Cammilleri, Questo non è un uovo, legno, acrilico e pasta polimera, 20x20 cm, 2023

Sicilian porn food

La storia umana inizia con del cibo di traverso. Eva porge ad Adamo la mela proibita e il compagno, già completamente succube, non può fare a meno di obbedire.

Lo aveva ben compreso Wiligelmo nelle sue Storie della Genesi, dove Adamo si ingozza sotto gli occhi della donna, che lo guarda come farebbe una madre con il figlio vorace quanto goffo ed imbranato: “bravo, fai sempre ciò che dico”. Magari fosse stato un po’ più attento. Un pezzo di mela non va giù. E fu il pomo d’Adamo. Da quel giorno lontano, come hanno ben compreso Elisabetta Moro e Marino Niola nel loro Mangiare come Dio comanda, cibo e religione sono legati a doppio filo: dietro ogni ricetta c’è un comandamento, un precetto, una precisa prescrizione. L’uomo è ciò che mangia, e Dio non è da meno. Attraverso il cibo, ogni popolo costituisce la sua immagine dell’Altro, del divino o, come accade oggi, un tempo in cui “l’etica cede il posto alla dietetica”, di un Dio in forma e salutista. Chi pesa troppo è un peccatore e va punito: deve rivolgersi al personal trainer e al nutrizionista, che gli imporranno le dovute penitenze, o se, come i protestanti, non accetta mediatori, potrà bussare all’oracolo dei social e darsi anima e corpo al digiuno intermittente. In una parola, la fame. Quanto diverso questo mondo dalla tradizione dei miei avi! Hai la pancia? Beato! “Uomo di panza”, diceva mio nonno, “uomo di sostanza”. In una terra in cui il cibo non abbonda, ma è dura conquista, la pancia è segno di gloria, di predilezione divina. È, in un certo senso, la prova che Dio esiste. E che la tavola è il suo altare. Come tutti sanno, il Dio cristiano sacralizza le abitudini alimentari dei popoli del Mediterraneo, dall’olio santo al vino al pane. Ma il punto non è questo. Al di là di parentele generiche – che poi parentele non sono, se si pensa al rapporto travagliatissimo tra il vino e i musulmani – ciò che conta non sono tanto i cibi quanto la loro condivisione. La condivisione rituale, certo, da svolgersi in specifici momenti dell’anno come le cene di San Giuseppe. Ma soprattutto quella capacità di assimilare l’altro, il diverso, facendolo uguale a sé. Trasformandolo da nemico in compagno involontario di pranzi succulenti. Così, come per incanto, le teste dei predoni turchi che, catturati, venivano issate sulle picche e ostentate sulle mura cittadine, diventano nel ragusano dolci di pastafrolla farciti di crema a forma di turbante. Cannibalismo, antropofagia! E che dire delle mammelle di Sant’Agata, troncate dai suoi persecutori, croce e delizia per legioni di catanesi golosi devoti almeno quanto assatanati? Sono, per chi non lo sapesse, delle gustose cassate in miniatura. Mi taccio ovviamente dei cannoli di ricotta di Palermo, o delle sarde in salamoia, la cui somiglianza con certe parti del corpo è superfluo commentare. Su questi, e altri spunti, offerti da una storia antica e nuova, dai “cunti” popolari alle pubblicità hot di Zappalà, nota fabbrica di mozzarelle e di formaggi, ci sarebbe da fermarsi e meditare: altro che banane di Cattelan! Siamo tutti siciliani – o italiani, che è un po’ la stessa cosa – e ci piace mangiare. Buona riflessione e, soprattutto, buon pranzo.

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