Scultura lingua viva. Parte II

La scultura è viva o morta? Continua il nostro colloquio con Elena Mutinelli.

Hai lavorato come restauratrice e copista. In che misura queste esperienze hanno influenzato la tua creatività?

Ho lavorato tanti anni per sostituire i blocchi originali del Duomo di Milano con sculture scolpite ex novo. Ho attraversato i loro profili, ho sentito la fatica, il rumore degli attrezzi, il ritmo della battuta del martello e il filo dello scalpello sulla mola. Tutte le mie energie erano lì, nella mia mano, concentrate a replicare la scultura cui aveva dato vita un altro scultore. Un lavoro intenso di mimesi ed empatia non solo col primo artefice, ma con tutti quelli che, nei secoli, avevano riprodotto lo stesso pezzo prima di me: alcune basi riportavano incise a scalpello le loro iscrizioni. 

Questo tuo – posso dirlo? – apprendistato è durato due decenni!

In effetti ho iniziato a lavorare all’Opera del Duomo giovanissima. Ricordo che la ricreazione di una statua, il tentativo di restituirle l’espressione originaria, la sua anima, mi ipnotizzava. Questo lavoro mi è costato una fatica enorme, ma mi ha trasmesso tantissime emozioni. Avvertivo il privilegio di restituire un pezzo di storia, di entrare io stessa nella storia. 

Il Duomo mi ha insegnato che, pur sapendo quello che stai facendo, in realtà non sai mai cosa accadrà.

Anche se si è padroni dello strumento, della tecnica, se si possiedono le virtù, se si è dotati di talento, il bello è che qualcosa si svela sempre tramite il lavoro. 

Ti sei insomma riconosciuta tra le statue ai piedi della Madonnina

Ciò è accaduto in senso a dir poco letterale. Quando mi consegnarono la prima scultura, vidi un fiocco con una cuspide al cui interno vi era un viso simile al mio, con un naso pronunciato e zigomi pieni. Fu come un segno: sostituii il mio volto a quello dell’originale.

Valeva la pena di lasciare la mia faccia nel marmo, soprattutto per quelli che pensavano che non fossi io, a scolpire i miei pezzi. E non erano pochi!

Avevo venticinque anni e lavoravo il marmo da quando ne avevo quattordici, andando a bottega dallo scultore Gino Cosentino, allievo di Arturo Martini.

Quando consegnai il fiocco, Biem, il vecchio capo cantiere, capì subito, ne sono certa, che cosa avessi fatto, ma non mi redarguì. Mi disse solo che voleva i profili taglienti e che dal basso quelle sculture dovevano essere visibili. Aggiunse: “il Duomo non si deve impastare alla vista”. Diede due colpi di scalpello, affilò i ferri e concluse: “Il prossimo lo voglio così!”.

Non credo vi fossero molte donne, nel tuo ambiente di lavoro.

A parte quelle di servizio, nessuna. Non per porre l’accento sulla distinzione di genere, ma mi ritengo fortunata ad aver lavorato al Duomo, e ad esser riuscita ad aprire con le mie uniche forze uno studio di scultura a Milano. Nel mio laboratorio, dove le portavo per copiarle, osservavo le statue del Duomo a tutte le ore. La luce ne cambiava l’espressione. Di notte filtrava tenue e metallica dai finestroni e faceva diventare quegli enormi frammenti di bestiario medioevale, presenze. Quanta vita in quel Duomo: vita di me, vita di Milano, vita di tutti quelli che si sono spesi per realizzarle.

Rammenti, in particolare, qualche compagno di fatica?

Cosa dire… Biem ha compreso completamente la mia passione e mi ha accompagnata silenziosamente da lontano: senza di lui, non avrei mai potuto iniziare a scolpire e a creare le sculture in cui i galleristi e i collezionisti hanno in seguito creduto.

Un altro personaggio straordinario è stato il direttore della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, l’ingegner Benigno Mörlin Visconti Castiglione che, quando mi si presentava l’opportunità di grandi mostre, mi lasciava andare e una volta finite mi riprendeva sempre.

Dopo alcuni anni, su incarico del nuovo capo cantiere di Via Brunetti, mi proposero di dirigere il cantiere degli scalpellini presso il carcere di Opera a fine pena mai. È stata un’esperienza unica. Grazie ad essa, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con gli altri scalpellini all’interno del carcere. Lavorare in realtà simili mi ha resa forte, libera. E non parlo solo del carcere ma dell’intero mio percorso artistico e umano.

Ti capisco. Ho lavorato in carcere anch’io. Prescrivendo agli intellettuali il lavoro manuale, Mao forse non aveva tutti i torti. Rimboccarsi le maniche aiuta a cogliere le sfumature dello stile…

È molto difficile riconoscere sensibilmente le sfumature di uno stile in questo barocco virtuale moderato dalle mediazioni flessibilmente nozionistiche di curatori che tendono a definire una strategia al pari di un linguaggio.

Lo stile è la firma di un periodo, di un gruppo e delle ragioni che hanno motivato il formarsi di una corrente.

L’arte della critica che ha preso piede dalla metà degli anni ‘70, ha rubato la scena allo stile, preoccupandosi di ucciderlo prima ancora che nascesse. 

Oggi è come se parlassimo un’infinità di lingue senza conoscerne nessuna. 

La scultura, del resto, è sempre meno praticata.

Sì, grazie a tecnologie come la stampa in 3d, a scolpire sono rimasti in pochissimi. Ammetto che la tecnologia possa anche favorire lo sviluppo della creatività, ma di sicuro ci rende sempre più pigri e forse anche meno presenti a noi stessi. È sempre più ampio il divario tra l’artista e le maestranze. Eppure queste ultime non sono braccia meccaniche: sono le risorse più nobili della creatività.

Non dimenticherò mai quando da ragazza, al teatro di Pietrasanta, dopo una chiusura durata anni, l’apertura spettò a uno spettacolo di Giorgio Gaber, il quale acconsentì a che il pubblico assistesse alle prove.

Rimasi stupita ed ammirata dalla delicatezza con cui si rivolgeva non solo a tutti gli attori, ma a tutte le persone che stavano contribuendo alla creazione dello spettacolo, come gli addetti alla luce e ai suoni, presentandoli a uno a uno.

In quel periodo vivevo di fronte allo studio Cervietti e vicino allo studio Giannoni, laboratori in cui Mitoraj faceva realizzare le sue opere da artigiani grandiosi. Ricordo che il formatore, Castelli, suggerì a Mitoraj una soluzione plastica di superficie per un’opera monumentale che questi accolse molto favorevolmente, e adottò anche in seguito.

Chissà quante altre volte sarà accaduto. La collaborazione non è mai solo tecnica: è estetica.

Non dimentichiamo che le reti di Trotta non esisterebbero se non fosse stato per un artigiano di Pietrasanta.

L’artigiano morì e con lui le reti e l’artista cambiò stile…

Soluzioni simili erano state attuate già in passato: pensa alla Cappella Sansevero.

Questi piccoli aneddoti curiosi li racconto giusto per riflettere su come, dietro alle grandi mutazioni di stile, vi siano anche fatti, per così dire, oggettivi.

Poco tempo fa sul “New York Times” è apparso un articolo coi nomi di famosi artisti contemporanei che delegano totalmente a terzi la creazione della loro opera, sottolineando il fatto che il grande pubblico ammira in questi artisti, prima ancora delle idee, capacità che non sono loro proprie.

I nomi, da Cattelan ad Hirst, sono ben noti…

Andrea, per carità, facciano pure… Io creo le mie opere quasi sempre improvvisando su marmo e senza modello. Due volte, lo confesso, mi sono avvalsa del laser. Tuttavia non potrei mai tollerare che uno strumento si sostituisca alle mie improvvisazioni.

Non vorrei passare per invasata, ma mi accade così: scolpisco, scolpisco sinché sono presa da una follia allucinatoria. È un lampo che sta un po’ con me e poi se ne va. E se non lo afferro, ciccia…. Inoltre, mentre creo, non devo assolutamente nominare l’idea o l’immagine. La vedo e basta: è li. Ogni cosa che abbia un nome per me non vale più la pena di essere creata, ha esaurito il suo senso. È sempre stato così. Chi viene a trovarmi in studio e vede l’opera al suo nascere, a volte mi chiede cosa stia per fare e perché. Inutile dirti che non rispondo quasi mai.

(continua)