Scultura lingua viva: Elena Mutinelli

Decenni fa Arturo Martini scriveva un pamphlet, Scultura lingua morta, in cui, con furia matricida, tracciava i limiti di un’arte “che non potrà mai essere spontanea tra gli uomini”. “Niente”, concludeva, “giustifica la sopravvivenza della scultura nel mondo moderno. Però si ricorrerà a lei ugualmente nelle circostanze solenni e per gli usi commemorativi…”. E dunque, tra un Davidcensurato e una Spigolatrice callipigia, la scultura è viva o morta? Lo abbiamo chiesto a una grande scultrice italiana, Elena Mutinelli, in una lunga intervista in cui parliamo di tanti lavori contemporanei. Prossima puntata, la settimana entrante.

Arte come incontro col pubblico in uno spazio pubblico. Firenze è utopia lontana e irripetibile?

Il lascito di Firenze è irripetibile e lontano in termini temporali, ma molto più vicino di quanto ce lo immaginiamo in rapporto a quanto è successo nel lasso di tempo che ci separa da un’eredità di tali dimensioni. 

L’utopia, forse, è pensare che qualcosa di nuovo possa essere all’altezza di una traccia così importante, e vorrei proprio capire quali saranno gli eredi di tanta grandezza e soprattutto se si riconosceranno come tali.

Il mecenatismo rinascimentale valorizzava totalmente l’artista ancor prima della sua opera, occupandosi di tutto ciò che era necessario per creare, in un totale accudimento del pensiero e delle virtù.

Oggi si è invece creato un divario enorme tra artista e committenza sia nel privato, gallerie o fondazioni, sia nel pubblico, istituzioni e musei. Alla figura del mecenate si è sostituita quella dello sponsor che consente di realizzare progetti culturali, eventi e comunicazione. I bandi di concorso per workshop, che potrebbero diventar un ambito per la formazione, faticano a decollare e mentre l’arte acquista una dimensione pubblica sempre più vasta, per gli artisti essa diventa un affare sempre più esclusivo, se non una chimera.

Il passato non torna. La Firenze attuale, nei suoi palazzi, è ormai quasi solo lo sfondo delle lastre di JR o dei finti gonfiabili di Koons.

Della Firenze medicea sono rimasti i nostri volti, sono cambiati i costumi.

Le ombre dei palazzi parlano del tempo, di noi, del nostro pensiero grande e unico che purtroppo rimane nel silenzio. Le sue mura vibrano, sono ancora intrise di quel vociare potente. Bisognerebbe ipotizzare un umanesimo contemporaneo, moderno, che non abbia paura delle virtù e delle capacità, che ci curi dalle ansie di protagonismo e che metta un freno alla solitudine dei social.

Nella Firenze del Rinascimento gli artisti rispetto ad oggi non erano poi così tanti ma avevano tutti la possibilità di operare, di vivere il loro pensiero e di assistere al dispiegarsi della loro arte nel tempo.
Oggi vedo piuttosto noi artisti come imprenditori affannati, che si accalcano in piccoli gruppi a seconda dei “mandati espositivi”, riducendosi a piccole società temporanee che, una volta terminata una mostra, si dissolvono completamente. 

È raro in questo momento storico entrare in dialogo duraturo con il critico, in sintonia con l’opera e l’artista; a volte l’artista si limita a seguire quella critica che è in grado di persuadere il mercato.

Eppure la figura autentica del critico, dello storico d’arte e dell’intellettuale è un grande supporto all’artista, noi siamo dove c’è pensiero.

Anche il mercato dovrebbe provare a confrontarsi con un’estetica sentita e non solo con l’artificio.

Non facendolo, rischia di inciampare in continue ipotesi espositive dal gran rumore mediatico ma di impatto molto relativo.

Molto intelligente e ironico mi sembra il lavoro di Vezzoli. E tuttavia, come Hirst, se dovesse realizzare manualmente le sue cose, non saprebbe da che parte cominciare.

Non mancano i geni pronti a delegare le proprie fatiche agli artigiani e sviluppatori in 3d senza riconoscerne neanche il nome, i crediti, come nei titoli di coda dei film.

Per fortuna artisti come Jenny Saville sono un respiro sul futuro, mi solleva il pensiero della grandezza che ci stanno lasciando. 

Questo nostro presente è l’incarnazione di quanto scritto dall’imperatore Adriano: “Abbiamo fatto di una fronte levigata l’equivalente di un pensiero”. Animula vagula blandula

In effetti la scultura odierna sembrerebbe del tutto asservita all’idea.

Vivere l’arte presuppone il dogma dell’idea per l’idea che rispetto all’atto creativo è completamente disgiunta da esso.

Io non mi do pace pensando come il mondo dell’arte sia fatto di compartimenti stagni.

Credo che il dualismo idea e concretizzazione abbia sempre avuto luogo fin dal periodo greco; diciamo però che, allora, l’arte era intesa come territorio di conoscenza che deve ispirare; oggi invece tende prevalentemente ad abbagliare, a stupire e, non ultimo, a bearsi di “like” inviati da inconsapevoli automi.

L’idea è insomma la “diva” del mondo contemporaneo.

Lo è perché così vuole l’artista, che, come una star, rimbalza con ansia da competizione nell’Hollywood di idee contemporanee o meglio estemporanee, con l’unica illusione che durino più di un ciak.

L’idea, unica protagonista tesa con ansia da prestazione a originare un “Nuovo” che non genera, vede solo la sua immagine riflessa in uno specchio che rimbalza e non penetra.

Ah, dannati Medici se sapessero che fine hanno fatto le loro fatiche con Botticelli e compagnia bella!

Trovo la diva contemporanea di Vezzoli già demodé; anzi non la trovo, non c’è…. 

Un’idea nasce anche strada facendo, si rivela, si fa largo nelle nostre mani, si delinea nei nostri animi, si impianta negli occhi degli altri, sino a diventare un patrimonio collettivo.

Il rischio opposto, di chi sa lavorare ma non pensa, potrebbe essere un formalismo sterile e banale.

Non vedo in giro legioni di virtuosi! L’idea, al contrario, è spesso schiava del consenso. Noi artisti che si sporcano le mani vogliamo essere liberi soprattutto nel processo, che è il luogo in cui il linguaggio si articola dando vita alle idee. Non vorrei mai pensare alla mia vita come a una pianificazione a tavolino. Se pure fosse grande, sarebbe miserabile. Odierei l’idea stessa che non mi ha resa libera.

E adesso cado in coraggiosa contraddizione dicendo che l’arte non si preoccupa di questo, si occupa del vero, che ha ancora molto da dire e che in tanti hanno ancora voglia di ascoltare.