Artista satirico se mai ve ne fu uno, Momò Calascibetta perseguita da tempi non sospetti critici, collezionisti, galleristi e curatori attraverso una pittura “impegnata”, che di crisi si nutre. Ma che non rinuncia, rivelando una pietas, una fiducia nell’umano davvero insospettata, a “riappropriarsi del senso della storia”.

Che cosa è cambiato per te in questo interminabile lockdown?
Lockdown, una parola che detesto; parola che nella nostra ricca lingua corrisponderebbe a isolamento, chiusura, detenzione, confinamento, e nel mio caso connaturata alla dimensione del mio operare. Un artista è sempre solo quando sta davanti alla sua nuova creazione; l’isolamento è una necessità per poter lavorare in piena concentrazione; per me quindi tutto è rimasto perfettamente uguale, ma osservando quel mondo che mi appartiene, una nausea istintiva mi ha invaso davanti a mascherine/museruole variopinte di opere di artisti “stitici”, quelli che non pensano e non hanno nulla da raccontare, quelli dei selfie che coprono il sorriso, quelli che non possiedono idee e contenuti, quelli dalle mani sempre pulite, quelli che spendono il maggior il tempo nelle pubbliche relazioni dei salotti buoni e sono costretti adesso ad una detenzione obbligata.
Iniziamo bene.
Come tu ben sai i virus culturali mi inquietano da sempre. Già quasi venti anni fa, alla cinquantunesima Biennale di Venezia, gli artisti italiani non erano presenti in nessuno dei padiglioni espositivi. Un’arte italiana morta, seppellita e dominata da un corrotto mercato monopolizzato da gruppi finanziari, imbalsamatori culturali, lontani dalla vita, disinteressato nei confronti dei valori artistici e intellettuali dell’opera il cui prezzo non è necessariamente proporzionale alla sua qualità. Oggi come ieri, un sistema dell’arte drogato i cui interessi dipendono da quelli economici e di moda, dalle strutture museali, da critici e collezionisti complici che contribuiscono all’affermazione dell’artista. Una “catena di Sant’Antonio”, per dirla con Bonito Oliva.
A quali progetti ti stai dedicando?
Negli ultimi due anni ho osservato attentamente il sistema dell’arte nella Sicilia che mi ospita per arrivare alla realizzazione di Cenere, la mia mummificazione cimiteriale che racconta, in un infernale travestimento, vizi virtù e godimenti dei “signori dell’arte” siciliani, adagiati su un fiorito alveare di loculi cimiteriali. È andata in tournée in una decina di musei dell’isola con un effetto dirompente.
In particolare, in quest’anno bianco…
Nell’ultimo anno la stessa indagine si è sviluppata affrontando il racconto ironico della responsabilità della critica – sette storici dell’arte sono stati presi di mira – e della globalizzazione del sistema, allargando la rappresentazione alle reti internazionali che hanno contribuito all’accrescimento degli interessi economici e commerciali che ruotano intorno all’arte; una sorta di Olimpo degli dei, con artisti-manager, critici, galleristi, mercanti, case d’asta, collezionisti, direttori di musei e media di tutto il mondo che riescono ad orientare gli interessi verso un artista piuttosto che verso un altro. Il progetto è pronto, ma le nuove mostre, programmate per il resto d’Italia, sono state rinviate, in attesa di un ritorno alla normalità.
Pensi che l’isolamento cui siamo costretti ti abbia influenzato: spingendoti, ad esempio, ad approfondire le tue radici?
Le mie radici da sempre hanno succhiato quel poco di buono o di marcio ancora rimasto nel loro sottosuolo di ipocrisia e di orgoglio. La Sicilia me la sono portata a Milano a partire dal 1982, è lì che mi è apparsa in tutte le sue sfaccettature; nel bene e nel male, è lì che i temi della mia pittura hanno attinto. Sono radici di piante secolari che resistono al sole accecante dell’isola e si nutrono della sua luce. Io sono un artista satirico dove i contenuti prevalgono, e la forma della rappresentazione è una conseguenza. La mia “farsa” è quieta, per niente rabbiosa, e contiene ancora, a mio avviso, un po’ di pietas e di speranza. Nonostante tutto credo ancora nell’uomo, alla sua intima bontà; non voglio rinunciare a questa fede forse irrazionale. L’isolamento fa aumentare le distanze ma il pensiero non ha misure e sì, sono convinto possa essermi d’aiuto a comprendere il mio mondo.
Di sicuro non potrai cambiare casa, come sei solito fare.
La sorte mi ha condotto da qualche anno a Mozia, un territorio duro e aspro con una bellezza sconvolgente. In realtà però non ho mai lasciato Milano, che mi ha formato e permesso di vivere del mio lavoro di artista e dove sono ancora residente. Diciamo che il mio sogno impossibile è stato sempre quello di possedere il dono dell’ubiquità. Ogni volta che viaggio mi innamoro dei luoghi in cui mi trovo e comincio a consultare agenzie immobiliari. Ho sempre un grande senso di nostalgia ricordando i paesi che ho conosciuto nella mia vita, così come le case dove ho vissuto.
La Sicilia in cui sei tornato è molto diversa da quella che hai lasciato quando, decenni addietro, ti sei trasferito a Milano?
La Sicilia è peggiorata: una finta facciata per lo straniero e un retro palazzo con gli scarichi a vista per la massa. Le strutture politico/sociali e di conseguenza quelle culturali non sono progredite, solo offuscate dalla solita maschera di superficialità e di clientelismo. Non esiste autonomia culturale e ancora peggio non v’è alcuna attenzione per le abilità creative dei siciliani, soprattutto di quelli che non possiedono un padrone….
Il Tancredi del Gattopardo avrebbe detto: “cambiare tutto perché tutto rimanga come prima”.
Il popolo siciliano è pronto ma stanco di aspettare. I siciliani sono meravigliosi come sempre, senza atteggiamenti di frustrazione, rabbia o rancore o insoddisfazione perenne; il loro animo non è inquinato dall’invidia, ma adulano come sempre il conquistatore del momento.
Questo per quanto riguarda gli animi. E per quanto riguarda il paesaggio?
I Quattro Canti, il cuore del centro di Palermo, capitale dell’isola e mia città natale, sono vissuti da un nuovo carnaio umano il cui unico affanno è quello di consumare cibo pronto. Sotto il sole cocente per rinfrescarsi o accarezzati da un clima favorevole, si fa il pieno di vitamine e minerali con un frullato di frutta di stagione tra i mille colori delle bancarelle. Si mangiano arancine di tutti i gusti, panini farciti con insalata, pomodori, cetriolini, maionese e prosciutti. Mancano solo il sashimi di rana, le zampe di gallina, i panini alle alghe, gli occhi di tonno, i testicoli di maiale crudi, la salamandra grigliata, il cracker alla vespa e il gelato al polipo. Manca, a pensarci bene, anche Guttuso con la sua Vucciria.
In che senso?
A differenza dell’ambiente che lo ha ispirato, ormai identico a un angolo qualsiasi di New York o di Brasilia, di Mosca o di Shangai, il quadro è ancora al suo posto. Ma non lo guarda nessuno. La stessa sorte tocca, a quattro passi di distanza, a due grandi musei.
Come muterà, se non è già mutato, il sistema dell’arte dopo il dramma della pandemia?
Essere un artista antisistema presuppone l’appartenenza a un gruppo di potere inteso a scalzare l’ordine costituito. Questa l’etichetta che mi appiccicano. Tuttavia, da buon verme solitario, direi che avrei potuto, nel mio lungo lavoro, cercare altre strade più comode e ruffiane: a pensarci bene, “Ruffianesimo” potrebbe essere il nome del più grande movimento artistico di sempre! Che le cose stiano cambiando, questo è certo. Il come mi è ignoto. Non so quale “nuovo mondo” ci attenda.
Che la pandemia rappresenti una accelerazione della storia?
Quello che è certo e che abbiamo sfiorato la punta del processo evolutivo dell’ultimo Homo Sapiens. La tecnologia ha rotto i suoi equilibri e procede più veloce del suo pensiero. Dobbiamo riprenderci la nostra dimensione animalesca per tornare alle cose più semplici. Si può vivere anche di poco con un rapporto equilibrato tra uomo e natura senza intaccarla o danneggiarla.
Tornare alle origini significherebbe quindi tornare alla natura.
Siamo in preda a un terribile declino economico, sociale e culturale e se i nostri politici useranno ancora i metodi antichi non ci saranno cambiamenti che favoriscano l’avvento di un mondo più a misura d’uomo, più ospitale, dove l’arte – quella che fa pulsare il cuore – riprenda la funzione per cui è nata: dare un nome alle cose, riappropriarsi del senso della storia. Sarà veramente un’ardua impresa.
I linguaggi tradizionali, come quello pittorico, vivranno una seconda giovinezza?
“Linguaggio tradizionale”, correggimi se sbaglio, è il termine che di solito si usa per designare la pittura, implicitamente offuscandone il valore. Se continueremo a distruggere il mondo, ci ritroveremo nuovamente a vivere nelle grotte e lasceremo ancora le nostre impronte rosse sulle pareti, per raccontare il nostro passaggio agli uomini che verranno. Non affideremo di certo la nostra memoria a stracci ammucchiati o escrementi inscatolati: vivendo già nella merda insieme agli animali, non sarebbe proprio il caso.
Immagini un’arte, se così si può dire, religiosa?
Nel passato l’arte ha goduto di una sacralità legata ad una forma di autonomia e di prestigio tecnico ed esecutivo che hanno favorito la creazione di capolavori assoluti. Oggi invece gli autori (non voglio chiamarli artisti) basano il loro lavoro sulla spettacolarizzazione e il gigantismo, sulla dismisura, su una “facilità” priva di valenze estetiche, delegando quasi sempre a terzi la decodificazione di ciò che è ormai, semplicemente, un prodotto.
Benjamin avrebbe parlato di perdita dell’aura.
Per definire quello che si trova nei grandi musei o nelle gallerie di moda – banane sbucciate, scarti industriali, animali imbalsamati, bidoni scassati, tappeti bruciati, vasi distrutti, escrementi in scatola autenticati, crocifissi immersi nel piscio o magari davanti una bacchetta appoggiata ad un muro (l’opera naturalmente è la sua ombra) – potremmo anche usare un altro termine, Arte Spazzatura. Che qualcuno si lanci con passione a riconoscere il limite di questo finto e artificiale sistema che non sa più parlare!
In che cosa l’arte – a cominciare dalla tua – può aiutarci a interpretare il presente e progettare il futuro?
No, io dipingo e basta. Dipingo quello che mi viene più spontaneo, cercando di coniugare le esperienze del mio vissuto con la mia naturale vena ironica. E tuttavia, alla vista di una mia opera finita, a ridere di me stesso non riesco proprio: l’ironia, o il sarcasmo, che mi ha permesso di crearla, non è infatti un gioco per suscitare il riso, ma la pura conseguenza di un dolore conosciuto vivendo, di esperienze reali e di cattiverie umane che hanno lasciato il segno. Cerco di interpretare, di denunciare, ma non mi sono mai posto l’obiettivo “di interpretare il presente e progettare il futuro”. Siccome il centro del mio interesse è l’uomo, e non mi pare che l’uomo di oggi sia tanto diverso da quello di ieri, sono quasi certo che il futuro/prossimo come il presente/passato, in questo momento, alle ore 16.20, siano la stessa cosa.


