Arte Fiera 2025
Installation view "The Artists House/La Casa degli Artisti. L’arte “viva” di Sally Smart", Museo Boncompagni Ludovisi, Roma, ph. Giorgio Benni, Courtesy dell'artista e di PostmastersROMA.

Sally Smart al Boncompagni Ludovisi. Nella simbiosi tra corpo, pensiero e cultura.

Il 29 ottobre 2023, si è concluso il progetto espositivo The Artists House/La Casa degli Artisti. L’arte “viva” di Sally Smart, in collaborazione con PostmastersROMA, a cura di Matilde Amaturo, di Valentina Filamingo, di Eugenia Carabba Tettamani e di Paulina Bebecka, al Museo Boncompagni Ludovisi.

Per chi, come me, è cresciuto tra la lavorazione del tessuto e l’artigianato, varcare l’antro d’ingresso del Museo Boncompagni Ludovisi, sito tra Porta Pinciana e Porta Salaria, è sipario di rinnovamento di un sentire che si accende nella coscienza dell’utilizzo di un materiale di raro ritrovamento nelle pratiche artistiche attuali. Il Villino, progettato nel 1901 dall’architetto e presidente dell’Accademia di San Luca nel 1911-1912, Giovanni Battista Giovenale, ha l’arduo compito di accogliere il visitatore come ospite e, sincronicamente, come parte di una famiglia, quella del Principe Luigi Boncompagni Ludovisi che lo volle come dimora di parte della famiglia nobiliare, abitante un luogo-casa in cui, ancora oggi, si respira il calore e l’animo che ne hanno caratterizzato gli ambienti interni ed esterni, distinti dall’architettura eclettica del “barocchetto romano” e dalla sua unione con gli elementi Liberty. La Villa rappresentò, per la sua peculiare bellezza, una tappa del Grand Tour.

È una danza che involve lo spirto del Museo Boncompagni Ludovisi, Centro di promozione e documentazione delle Arti decorative, della Moda e del Costume, quella denotata dalle opere di Sally Smart, tra le principali artiste contemporanee australiane, riconosciuta a livello internazionale per le sue installazioni di assemblaggio di ritagli su larga scala, performance, video e opere tessili che esplorano le relazioni tra corpo, pensiero e cultura. L’artista è rappresentata dalla Galleria PostmastersROMA, sede italiana diretta da Paulina Bebecka, sorta nel 2017 come galleria nomade, e dal 2019 permanente nel cuore della Capitale, come giovane estensione della galleria newyorkese nata nel 1984, con cui Sally Smart lavora da oltre dieci anni. I suoi lavori sono stati selezionati dalla Casa di moda italiana di lusso Marni, secondo una ricca collaborazione storica tra artisti e stilisti: da Salvador Dalì e Elsa Schiapparelli; Yves Saint Laurent e Piet Mondrian; Saint Laurent e Andy Warhol, al contemporaneo con Björk, con Alexander McQueen, Jeff Koons e Louis Vuitton… .  

Durante le GEP 2023 (le Giornate Europee del Patrimonio, 23-24 settembre), le sculture polimateriche in bronzo e tessuto, i lavori tessili e il video della performance CHANT (Choreography of Cutting) attraversano gli ambienti vissuti dal Principe Andrea Boncompagni Ludovisi e dalla moglie, rievocando una fiorente vividezza con un respiro simbiotico che, in un’unica trama, relaziona corpo, pensiero e cultura. La mostra coglie, dunque, il tema italiano GEP di quest’anno, “Patrimonio InVita” derivante dallo slogan europeo “Living Heritage”, scelto dal Consiglio d’Europa e condiviso dai Paesi aderenti alla manifestazione, e che invita a riflettere sul patrimonio culturale immateriale, inteso come sinonimo di patrimonio “vivo”. E quella dell’artista si può definire una pratica d’arte vissuta e viva per il suo condensare fenomenologicamente l’ingegno di figure femminili e di espressioni avanguardistiche.

The Artists House è la mostra romana dell’artista inaugurata a Roma, e successiva alle esposizioni The Choreography of Cutting (2017) e The Artists Family (2023), da cui provengono i lavori che sono stati selezionati per individuare il gruppo familiare composto da figure tratte da personaggi della storia del teatro, della danza, dello spettacolo, della mitologia romana, della commedia dell’arte fino ai Balletti Russi. L’implicazione dell’intimità focolare trae origine dalla funzione del Palazzo come abitazione della famiglia Boncompagni Ludovisi. Per capirne le ragioni e per sfiorare sommariamente la storia dell’edificio di tre piani, più seminterrato, circondato da un giardino chiuso con un muro di cinta su via Boncompagni e su via Quintino Sella, ripercorriamo in primis quanto ricorda Valentina Filamingo nella Guida breve del Museo: “Bisogna tornare indietro nel tempo, più di un secolo fa, quando il 17 dicembre 1901 la Commissione edilizia del Comune di Roma autorizzò il Principe Don Luigi Boncompagni Ludovisi (1857-1928) a “costruire su un’area di sua proprietà, nel quartiere di Villa Ludovisi in via Boncompagni, un Villino (…)” e due anni dopo, il 16 maggio 1903 a costruire “una scuderia con rimessa”, ovvero una ‘dependance’ ad esso collegata. Don Luigi era il secondogenito di don Rodolfo Boncompagni Ludovisi (1832-1911), principe di Piombino che il 29 gennaio 1886 aveva firmato la convenzione con il Sindaco di Roma Leopoldo Torlonia e la Società Generale Immobiliare di lavori di utilità pubblica e agricola per iniziare la vendita, per lotti edificabili, dei terreni di Villa Ludovisi, considerata uno dei giardini più ameni della città… . La Villa fu il frutto di un lungo accrescimento a partire dal 1622 quando l’antenato cardinale Ludovico Ludovisi “fece acquisto”, come narrò il suo biografo Lucantonio Giunti “del bellissimo giardino di Porta Pinciana, il quale aggrandì in sito e di fabbriche…”. Si trattava della proprietà Orsini a cui nel tempo si aggiunsero le proprietà Capponi, Del Nero-Del Monte, Altieri, Cavalcanti, e in quest’ultimo la villetta Borioni… .

Innesti floreali dominano il portale d’ingresso del vestibolo e, al di sotto di un’ampia conchiglia, si distingue il drago alato, simbolo araldico della nobile famiglia. Sul lato di via Quintino Sella, il lato lungo del rettangolo della pianta è interrotto dalla bow window e dal busto di Antinoo che, occupando la nicchia in cui è inserito, ricorda il ritrovamento nell’Ottocento di alcuni reperti archeologici in quest’area, di cui alcuni sono esposti alla Centrale Montemartini di Roma. Varcata una doppia scalinata semicircolare che introduce all’atrio, il percorso della mostra inizia nella Sala di Papa Boncompagni o Sala del Mappamondo, così intitolata per la presenza del dipinto raffigurante il Ritratto di Papa Gregorio XIII Boncompagni (1572-1585), artefice della riforma del calendario, lavoro di ignoto pittore della seconda metà del XVI secolo. Nell’opera, figura il drago alato, lo stemma dei Boncompagni che compare anche sul globo terrestre, ricoperto dalle incisioni a spicchio di Matthias Greuter. Alla sinistra del dipinto del Papa, ha trovato nuova collocazione il pregevole olio l’Allegoria del tempo di Pietro Gagliardi, bozzetto per la decorazione del tratto nuovo del Casino dell’Aurora, raffigurante episodi della vita del pontificato del suddetto Papa, recente acquisizione del MiBAC per il Museo. Pendant è il dipinto del Ritratto di Cardinale Ludovisi di ignoto pittore romano della prima metà del XVII secolo, collocato alle spalle del Mappamondo che ha come base il medesimo mobilio di Surrealist Map (The Artists House), lavoro in filo da ricamo su tela di cotone di Sally Smart. Le Monde au Tempes des Surrealistes (La mappa surrealista del mondo) di anonimo, apparve per la prima volta nel 1929, in un numero speciale “Le Surréalisme en 1929” del periodico belga “Variétés” con le opere di René Crevel, Paul Éluard, Louis Aragon, Robert Desnos e André Breton insieme agli scrittori e agli artisti belgi Paul Nougé, ELT Mesens e altri. Denis Wood aveva visitato il sud-est asiatico e parti dell’Indocina, ove si era imbattuto in spaventose violenze coloniali commesse dalle potenze olandesi e francesi. La mappa è usata dagli artisti e scrittori surrealisti che – come affermano Dee Morris e Stephen Voyce in “Avant-Garde, II: Mappa surrealista del mondo” – utilizzano la Mappa in diretta opposizione a quelle deformazioni cartografiche sancite dall’impresa coloniale, dalla guerra e dal progetto globalizzante della modernità.  Una mappa del mondo, se fosse accurata, dovrebbe tenere conto delle controversie sui confini e degli accaparramenti di terre in continuo cambiamento. I contingenti surrealisti francese e belga tracciarono per la prima volta la loro causa comune in un manifesto del 1925, “La rivoluzione prima e sempre!” (La maggior parte delle persone presenti in Variétés erano tra i suoi firmatari.) “Il mondo”, dichiarano, “è un crocevia di conflitti”. Inoltre, ulteriore proposito della Mappa Surrealista è quello di ritenere, al pari dei cartografi, la proiezione di Mercatore non adatta a una rappresentazione globale dell’intero pianeta per i suoi effetti di distorsione delle aree. La consolidata traduzione inglese The Surrealist Map of the World è priva di quell’accento sul discorso del tempo surrealista come soggettivo e flessibile: le linee tracciate sulla carta possono spostarsi, scomparire e ricostituire le relazioni future. La labilità geografica e fisica rispecchia la poetica della nostra che, sin dai tempi del Victorian College of the Arts, aveva iniziato a realizzare opere sul genere e sull’identità, attraverso elementi dipinti simili a collage per riflettere sui costrutti culturali. In seguito, ha iniziato a realizzare ritagli di collage come associati a rappresentazioni del corpo. Il materiale tessile assume una valenza psicologica nell’azione del taglio e del cucito: ciò che rimane come segno di deposito e alterazione diviene simbolico dell’operazione dell’artista, come la riparazione con il rammendo a vista che ne rende visibile la storia, ogni volta diversificata e ogni volta appannaggio di un’identità individuale.

Daughter Architect (The Artists Family) apre la storia del percorso per i suoi materiali d’impiego tradizionali (bronzo, ricamo e acciaio) uniti in una combinazione simile a quella dei membri familiari che si intensifica per la presenza di Artist Architect (The Artists House). L’allusione immaginifica richiama il mondo dechirichiano in tutta la sua possente e, al tempo stesso, misterica presenza metafisica, lodata già da Picasso nei primi anni Dieci del Novecento. Le Muse inquietanti sembrano abbandonare le loro lunghe ombre oblique della Ferrara degli anni della Prima Guerra – che spinse il Pictor Optimus a rifugiarsi in   un’accentuazione della dimensione della visione – per fuoriuscire e manifestarsi negli assemblaggi tessili delle due figure, in cui capitelli ionici si fondono con strutture murarie per creare i loro abiti e corpi. Riferimento più esplicito sono i costumi che Giorgio de Chirico ha realizzato per Le Bal, un balletto in due scene scritto dal librettista e scrittore russo-francese Boris Kochno, basato sul tema di un ballo in maschera, con musiche di Vittorio Rieti e coreografia di George Balanchine, del 1929, per i Balletti Russi.  Al centro della trama del balletto c’era il concetto di doppiezza e inganno. I costumi sono oggi conservati al V&A Museum.

Sergej Djagilev e de Chirico lavorarono insieme per Le Bal. La produzione si rivelò iniziatica per de Chirico che intraprese il suo percorso nella scenografia teatrale, rivoluzionando un nuovo approccio al balletto, e fondendo il classicismo dell’antica Italia con i linguaggi di avanguardia del modernismo parigino. Per Djagilev fu l’ultima produzione prima della sua morte, avvenuta nello stesso anno. La maestria degli scenografi, dei costumisti, degli artisti e dei musicisti dei Balletti Russi si trasfigurò fino a formare una categoria artistica a sé stante che sfidò il provincialismo artistico e culturale russo dell’epoca, orientandosi verso le nuove tendenze europee.

I Balletti Russi permeano tutta la ricerca dell’artista. Tuttavia, il lavoro di Sally Smart non si riduce a un semplice revival ma ne afferra il portato intrinseco per spingerlo oltre i confini finora tracciati e abbracciare il soggetto femminile nel suo vincolarsi e svincolarsi, non solo da quelle complessità strutturali familiari, ma anche da un ruolo culturale di “architetto”, sovvertendo così lo sguardo femminile, e investendolo in quadri culturali più ampi. L’ambiente domestico è riconosciuto come il luogo storico della femminilità ed è stato sviluppato concettualmente dagli anni Novanta dalle artiste femministe, momento in cui la politica dell’identità ha fatto il suo ingresso nell’arte contemporanea, ma anche di crisi economica e d’incertezza che verifica un ritorno alle pratiche artistiche abbandonate dal mass market come il collage, il disegno e la performance. E dato che ci ritroviamo nella Sala da Pranzo del Villino è impensabile non citare la video-performance femminista Semiotics of the Kitchen pubblicata, nel 1975, da Martha Rosler e considerata una critica nei confronti dei ruoli femminili tradizionali della società moderna. L’artista si occupa, da oltre trent’anni, del soggetto femminile a cui, talvolta conferisce abiti che ne esplicitano l’afferenza sessuale, talvolta il soggetto è riconoscibile attraverso l’attribuzione didascalica, ponendo il femminile in un’ambiguità esistenziale e in una ricerca privata d’identità, e trovando ulteriormente corrispondenza in un principio d’impermanenza. Una geografia dell’anima che recupera quella combinazione di testo, movimento, immagini e immediatezza emotiva in collages articolati della massima esponente del teatro-danza tedesco e tra le più note coreografe mondiali, Pina Bausch. Ancora una volta, quel senso di desolazione ferrarese torna nella Caput Mundi della Bausch, in un drammatico Sud, in cui si aggrovigliano gli inferni metropolitani, tali da far volar via vittorioso Viktor. I riferimenti sono anche alla storia antica di Roma, attraverso il dramma e la tragedia, in cui il personale si salda alla mitologia. Nella pièce del 1986, i corpi vengono sollevati come manichini insensibilmente, perdendo il loro valore umano. Così, il volto della Daughter Architect si priva di tratti somatici riconoscibili in cerca di una nuova identità, quella perduta da una figura archetipale e seduta allo stesso modo di una sua ombra solenne alle spalle. Vi si riconosce un’essenziale spontaneità, affrontata anche dagli artisti simbolisti, impressionisti e cubisti e che cancella l’idealizzazione neoplatonica della natura, per giungere all’alterazione proporzionale e a un primitivismo di matrice arcaica che spinge al riconoscimento di un’iconicità che ignora i dati del reale per un trasporto in mondi, tanto arcaici quanto universali, per rispondere all’analisi d’identità dell’artista e a quelle vie interiori freudiane. La narrazione diviene medium verso l’ignoto e gli atavici segreti dell’io. Gli abiti sono esternazioni delle proprie sensazioni, del dolore e della ribellione. Le donne vestono abiti maschili per contrastare i ruoli tradizionali, i finti moralismi e l’ipocrisia.

La tensione verso il femminile si espande in un’atmosfera che coinvolge il Salone delle Vedute, fino ai suoi affreschi trompe l’oeil di Alberto Chiarotto, in cui sono presenti pitture murali dei viali alberati e del parco che rievocano la perduta Villa Ludovisia, e lo splendore degli antichi orti sallustiani, con le tre opere Daphne (The Artists Family), Flora (The Artists Family) e Green Flora (The Artists Family). Con Daphne entriamo nella vena mitologica del lavoro e della sua consonanza alla più generale poetica di Sally Smart. La Naiade indossa un abito, in cui sembra aver già subito la metamorfosi ovidiana in albero d’alloro, come suggeriscono i motivi dell’abito che alludono a forme ramificate. Che Daphne voglia preservare la sua castità o, come ha osservato l’antropologo e psicoanalista di derivazione freudiana Géza Róheim, sfuggire a un incesto, in quanto Artemis Daphnaia, sorella del dio, non possiamo saperlo con precisione. Ciò che appare è l’evidenza di un colore che rispecchia il momento narrato e una sua trasformazione in un viola che si corona come volo di farfalla. In prossimità vi è Flora, dea romana e italica della fioritura e della primavera. L’abito è sgargiante di colori e riprende le tonalità dell’azzurro-cobalto e del rosa del giovanile Ritratto di Alice Blanceflor de Bildt Boncompagni Ludovisi (1925), iniziato un mese prima del loro matrimonio da Philip Alexius de László, e che raffigura l’ultima proprietaria del Villino, la moglie del principe Andrea Boncompagni Ludovisi, all’esterno del giardino sul lato di via Quintino Sella. Ma la ghirlanda di fiori rosa, indossata dalla principessa, è riecheggiata dall’ornamentazione fiorita che decora la parte finale dell’abito di Green Flora, i cui elementi corporei del piede e del volto sono di colore verde come parte del tessuto lavorato dall’artista. Il loro materiale non è più il bronzo – che sembra plasmato dalle mani dell’artista – ma la cera. Sally Smart afferma: “The heads I modelled in wax – with personages in my mind. I did create drawings from photos of people I know and other sources- I was not looking for likeness. I modelled the wax – sometimes with my representational details others more abstract. The process of wax modelling I used had a speed and I used tools to carve and gouge the elements of the head.” (“Le teste che ho modellato in cera – con i personaggi nella mia mente. Ho creato disegni da foto di persone che conosco e da altre fonti: non cercavo somiglianze. Ho modellato la cera, a volte con i miei dettagli rappresentativi, altre in modo più astratto. Il processo di modellazione della cera che ho utilizzato aveva una velocità e ho usato strumenti per intagliare e sgorbiare gli elementi della testa.”). Flora, nel famoso olio di Tiziano conservato agli Uffizi, sorregge un drappo rosa con motivi floreali, con la mano sinistra, ricordando la posa della Blanceflor.

Nella Sala della Culla dei principi di Savoia, o salotto decorato con parati di gusto orientaleggiante, vivono Sister Blue (The Artists Family), Puppets (The Artists House) e Mother/Puppet (The Artists Family). L’ambiente è così chiamato per la culla dei principi reali, realizzata in bronzo, argento e oro dallo scultore romano Giulio Monteverde, nel 1901, per la nascita della primogenita Jolanda della famiglia reale italiana, regnante dal 1861 al 1946. E la Culla non è l’unico elemento ispirato a una presenza femminile. Nella medesima sala vi è, infatti, il Ritratto bronzeo della Regina Margherita, lascito fatto al Museo dall’Istituto femminile Margherita di Savoia da Marcella Lancelot Croce. A fianco del camino che reca, al centro della fronte, un medaglione con testa femminile dal pregevole intaglio e al di sopra di una consolle dorata vi è la Video performance CHANT (Choreography of Cutting), in cui la donna-artista comincia a tagliare una sagoma di cartamodello che indossa in mezzo a una serie di materiali di lavoro, disposti sul pavimento, secondo un ordine casuale. Rientrando dalle quinte, il video esce da una dimensione passata, resa in bianco e nero, per assumere i colori di un presente, in cui interagiscono due donne, e in cui il costume muta in tessuto ma rimane della stessa forma del cartamodello, spingendo le due performers a indagare continuamente il proprio corpo in relazione al costume, allo spazio e alla connessione di legame tra le due identità che interagiscono con movimenti e legami spontanei, ancestrali e liberi da ogni prefigurazione. Gli abiti bidimensionali della performance ricordano la proposta in controtendenza con il lusso borghese occidentale applicata, da Alexander Rodchenko e da Varvara Stepanova con gli abiti usa e getta di carta. I collages coreografici di Smart si intrecciano dentro e fuori temporalità diverse. Chiedono, inoltre, allo spettatore di navigare nella materialità di azioni che annullano la fissità di un punto di vista. Storicamente sono spesso serviti come dispositivi formali che rivedono le pratiche dei primi artisti sperimentali modernisti come Hannah Höch, Hans Bellmer e Sonia Delaunay. I praticanti dei movimenti Dada e Costruttivismo erano particolarmente attratti dal teatro di figura, come espressione della loro arte. Tra loro Ekster, Otto Morach, Sophie Taeuber-Arp e Hannah Höch.

Ed è proprio Hannah Höch a ricongiungerci con le altre opere nella sala: Puppets (The Artists House), Mother/Puppet (The Artists Family), Cabinet 1 e Cabinet 2. Tre sono i topoi nella ricerca di entrambe le artiste: la donna, la marionetta e il montaggio. Uno dei focus per la Höch è la donna come “come spettacolo e spettatrice, come soggetto e oggetto”. All’interno dei suoi collages decostruisce gli stereotipi femminili ed esplora le rappresentazioni della “donna nuova”, diffuse nei mass media. Le “Nuove Donne di Weimar” erano indipendenti, sessualmente avventurose, vestite in modo androgino e conducevano uno stile di vita non tradizionale; erano simboli della modernità. Höch ha indagato le idee su ciò che definisce le donne e gli uomini e ha mescolato insieme, nel suo lavoro, figure femminili e maschili, confondendo i confini tra i due sessi. Come molte altre artiste Dada, ha progettato bambole realizzate con diversi tessuti, chiamate Dada Puppets. Il suo interesse per i tessuti è evidente anche nel collage del 1922, Sketch for a Monument to an Important Lace Shirt, realizzato con motivi ricamati. Altra figura femminile importante che introdusse la marionetta nel suo lavoro è la stella del Cabaret Voltaire, Emmy Hennings, moglie di Hugo Ball, con cui fondò il Cabaret da cui prese vita il movimento Dada. Ha fatto parte del movimento DADA recitando, ballando, cantando, e presentato spettacoli di burattini. Anche la pittrice, scultrice, designer tessile e ballerina Sophie Taeuber-Arp si esibiva negli spettacoli di teatro-danza e disegnava anche le scenografie e i costumi per molti spettacoli dadaisti messi in scena nel locale, sperimentando geometrie semplici. Quando, nel 1918, l’architetto e direttore della Scuola di Arti Applicate di Zurigo, Alfred Altherr, decise di realizzare un teatro di burattini, chiamò Sophie Taeuber-Arp per realizzare i pupazzi del “Re Cervo”. Il movimento Dada, infatti, si nutre di un’estetica performativa mista, fatta di non sense, danza, teatro e avanspettacolo. In Sister Blue, le parti sensoriali del volto (occhi, naso, bocca e orecchie) sono applicate su un oceanico blu intenso.

È Dress (Sonia) (The Artists House), opera ispirata a Sonia Delaunay, a introdurci nella Galleria degli Arazzi, così chiamata per gli arazzi “a verzure” di manifattura fiamminga del XVII secolo. Sonia divenne famosa come disegnatrice di tessuti e apprezzata dal mondo della moda. I suoi disegni per la stoffa furono ricercatissimi dall’alta società parigina. Gli abiti simultanei della Delaunay sono caratterizzati dall’influenza della pittura sulla moda e dall’uso del colore con forme dritte e taglio lineare che mettono in evidenza le composizioni geometriche e valorizzano il cromatismo. Dialoga perfettamente con gli arazzi della Galleria l’opera Danser Brut (The Artists Ballet) che condivide il titolo con una mostra del 2018 al LaM di Lille, e con un progetto del 2020 al BOZAR di Bruxelles che ha cercato di rivelare le connessioni tra la danza e i movimenti involontari e ripetitivi. Certamente Smart incoraggia i ballerini a esplorare i propri movimenti e i gesti unici. Tuttavia, le sue istruzioni coreografiche provengono chiaramente da un orientamento da artista visiva, e i lavori presentati in Danser Brut evidenziano la ripetizione, gli schemi e la rappresentazione corporea, attraverso gli stati psichici.  L’improvvisazione domina sia la metodologia della danza sia il nesso corpo-costume, arrivando a smussare e confondere i confini tra danza e vita quotidiana.

Salendo al Piano Superiore, si colgono ulteriori analogie tra le opere di Sally Smart e il tesoro conservato nel Museo, come nel caso dell’opera Mater che recupera lo sfarzo floreale della maestosa La primavera di Chini, in cui Galileo Chini mescola modelli klimtiani con influenze orientali, Liberty e memori del viaggio nel Siam, in un gruppo di diciotto pannelli, realizzati come decorazione del salone dedicato allo scultore Ivan Mestrovic, nell’ambito della XI Biennale di Venezia del 1914, e di cui quattro sono esposti. Il corridoio e la sala dedicati alla Belle Epoqué ci conducono prima alle opere della nostra Eye e Eye (with Red Part) che incorniciano il bell’olio Nella cabina di Arturo Noci, punta dei lavori di ritrattistica di Grosso, Innocenti, Gelli e Bertieri che spiccano nel vano, oltreché Chant costume, e immediatamente dopo alla Sala Gli affetti, che include rappresentazioni di bambini adolescenti e di affetti familiari in dipinti di artisti come Spadini, Carena e Oppo, ma anche di animali in ceramica di Martini, Biagini, Antonelli, Rosati e Palazzi, in bronzo di Tofanari, di Bugatti e altri.

Ancora a tema animalesco sono delle opere esposte nella Sala Cambellotti e il Modernismo romano, in cui vi è la mostra permanente Il Modernismo a Roma (1990-1915), i cuscini e i pannelli disegnati da Umberto Bottazzi e altre tipologie di materiali artigianali prodotti con tecniche e abilità artistiche, acquisiti in comodato dalla Scuola professionale femminile Margherita di Savoia, nel 2001. In questa sala è stata elegantemente alloggiata Modern Ghost (The Artists House) dinanzi alla vetrata Visione eroica o I Guerrieri, lavorata da Duilio Cambellotti in collaborazione con la vetreria Picchiarini, di cui celebre è la produzione, fra il 1912 e il 1929, in comunione d’intenti con Cesare Picchiarini. La vetrata è quinta di uno tra i personaggi più colmi d’implicazioni della scena teatrale di tutti i tempi, lo spettro, con il suo status a metà tra il mondo dei vivi e quello ultraterreno, e segno dell’intervento del soprannaturale nel susseguirsi delle vicende umane. Il fantasma fa la sua comparsa nel teatro occidentale già nella Tragedia Greca, a partire da Eschilo e con funzione drammaturgica, fino ad arrivare nel teatro elisabettiano, con una variazione del modulo antico. Si dispone, coerentemente, a breve distanza Goat (The Artists Family), ulteriore operache parla del teatro greco e delle sue origini. Tuttavia, la radice trag-, prima di riferirsi al dramma, vuol trarre l’essere “simile a un capro” nei termini nuovi di libidine. E se così fosse, dovremmo guardare al teatro euripideo e al suo trattare le dinamiche psicologiche, secondo le quali l’eroe non è privo di conflitti interiori, e il femminile, visto nelle figure di Andromaca, Fedra e Medea, diviene protagonista di una tormentata sensibilità che si scontra con il mondo della ragione. Congeniale è anche la disposizione – dinanzi alla vetrina – che prosegue l’esposizione di importanti ceramiche ispirate al mondo animale.

Un ulteriore pregevole esemplare, ispirato al tema animalesco, è lo Stambecco di Gatti, nella Sala tra Futurismo e Deco. Qui è sita l’opera Suit (Balla), (The Artist House) di Sally Smart che, con una rivoluzione coloristica, rivede “Il vestito antineutrale” del Manifesto futurista. La trama dell’opera si interseca perfettamente con il dipinto Brionbruna di Giacomo Balla, ossia l’elegante signora Valentina Alatri ritratta secondo lo stilema capricciosamente futurista di un’immagine di modernità quotidiana. Il futurismo è stato uno stile di vita italiano tra il 1909 e il 1915, quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale e, nelle arti decorative, il vitalismo si fuse con il Deco con forme geometriche. Poco più avanti, nella sala, è visibile l’opera Maschere di Malerba che rappresenta, con il realismo magico, un gruppo di persone all’interno di un luogo mondano, esprimendo quel gusto per le maschere teatrali della commedia dell’arte, tanto amato nel corso degli anni Venti. Così trova sua collocazione adepta e connaturata l’opera Harlequin (The Artists Family), tributo alla maschera bergamasca della commedia dell’arte, con il costume a losanghe colorate. Il personaggio di Arlecchino è sicuramente rappresentativo dei cambiamenti culturali che mutano, di volta in volta, i costumi nel tempo. Il realismo magico è perseguito anche dal solipsistico ritratto Figura di donna di Antonio Donghi.

Chiude questo viaggio, in un prezioso binomio di scoperta artistica, l’opera Chout costume nella Sala Gli anni Trenta o Salle de bain degli anni Trenta, rivestita con marmi pregiati e con una prevalenza di arredi con toni giallo e verde, fatta realizzare da Andrea Boncompagni, in occasione dei lavori del Villino del 1932. La sala è arricchita dalle opere La fattoressa di Vagnetti, La signorina di Marchig, il Ritratto delle amiche di Giorgio de Chirico e I gerani di Pasquarosa Bertoletti Marcelli, dal vaso della manifattura Cantagalli di Vietri e dagli abiti degli anni Quaranta.

Breve nota è da dedicare al Piccolo atelier della moda che, contenendo la donazione di Palma Bucarelli, da cui è scaturita la mostra tutt’ora allestita La palma dell’eleganza, La donazione di Palma Bucarelli al Museo Boncompagni Ludovisi (27 giugno-30 settembre 2012), sancisce, ancora una volta il trait d’union con la mostra personale di Sally Smart.

The Artists House/La Casa degli Artisti | L’arte “viva” di Sally Smart
A cura di Matilde Amaturo, di Valentina Filamingo, di Eugenia Carabba Tettamani e di Paulina Bebecka
23 settembre – 29 ottobre 2023
Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti decorative, il Costume e la Moda dei secoli XIX e XX
Via Boncompagni 18 – Roma
Mail: dms-rm.museoboncompagni@cultura.gov.it
Tel. 06 42824074

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