Rethinking Nature al MADRE di Napoli

È stata prorogata fino al 5 giugno la mostra Rethinking Nature, inaugurata lo scorso 17 dicembre al Museo MADRE di Napoli, un progetto a cura della direttrice artistica Kathryn Weir insieme alla curatrice associata Ilaria Conti.

Al MADRE di Napoli Rethinking Nature, una mostra in cui si ripensa al nostro ecosistema, a partire dalle colonizzazioni ambientali, passando per le politiche contemporanee fino ad un’interpretazione in chiave filosofica e spirituale del nostro rapporto con la natura.

La mostra coinvolge opere di oltre quaranta artisti e collettivi del calibro di Ana Mendieta, Jimmie Durham, Gianfranco Baruchello, Maria Thereza Alves, Giorgio Andreotta Calò, Ivano Troisi, Alfredo & Isabel Aquilizan, Adrián Balseca, Adriana Bustos, Sebastián Calfuqueo Aliste, Cao Minghao & Chen Jianjun, Denise Ferreira da Silva & Arjuna Neuman, Fernando García-Dory & INLAND, Ximena Garrido-Lecca, Gidree Bawlee – Kamruzzaman Shadhin – Salma Jamal Moushum, Edgar Heap of Birds, Karrabing Film Collective & Elizabeth Povinelli, Sam Keogh, Francois Knoetze, Elena Mazzi, Marzia Migliora, Jota Mombaça & Iki Yos Piña Narváez, Sandra Monterroso, Niccolò Moronato, Tabita Rezaire & Amakaba, Zina Saro-Wiwa, Karan Shrestha, Buhlebezwe Siwani, Yasmin Smith, Tricky Walsh, Zheng Bo.

Più di cinquanta opere provenienti da ventidue paesi – Argentina, Australia, Bangladesh, Brasile, Canada, Cile, Cina, Cuba, Ecuador, Filippine, Francia, Germania, Guatemala, Iranda, Italia, Nepal, Nigeria, Perù, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa e Venezuela – per raccontare il dramma dello sfruttamento delle risorse naturali dovuto alla colonizzazione, alla globalizzazione e al disinteressamento delle tematiche ambientali da parte delle superpotenze mondiali.  

Questioni che è necessario ed urgente indagare e che si pongono al centro delle ricerche delle curatrici ma anche degli artisti invitati, con lo scopo di ridefinire i fondamenti etici sociali e, per mezzo dell’arte contemporanea, si propongono di ridiscutere il ruolo dell’essere umano attraverso il filtro dell’ecologia politica. 

Il percorso si articola al terzo piano del museo, ma invita il visitatore sin dal piano terra con una barca capovolta dalla quale viene fuori una cascata di case di cartone che galleggiano nella tromba delle scale. È l’installazione site-specific Pillar, degli artisti filippini Alfredo e Isabel Aquilizan che trae ispirazione dai marinai del Mare di Sulu. L’opera è stata sviluppata nel corso di una serie di workshop con gruppi di adolescenti, a Napoli, difatti la mostra ha lo scopo di coinvolgere quanto più pubblico possibile, a partire da quello prossimo, attraverso laboratori e visite guidate, ma anche tavole rotonde e talk in presenza e online.

L’ingresso alle sale del terzo piano ha inizio con la ricerca storica e filosofica dello sfruttamento economico delle fonti naturali, come Paradossi dell’abbondanza #38, opera di Marzia Migliora, parte di una serie che dal 2015 indaga le trasformazioni avvenute negli ultimi cento anni sui sistemi di produzione e consumo del cibo.

Questa introduzione storica si evolve lungo il percorso verso una denuncia di politiche attuali inquinanti e dannose per l’ecosistema, come mostrano gli artisti della sala centrale come Yasmin Smith che espone la sua ricerca sull’intelligenza ecologica, prelevando campioni di legno di pioppo, di cui realizza un calco in ceramica che poi brucia per ricavarne la cenere. La polvere ottenuta dalla trasformazione è poi unita allo smalto steso sui calchi, per dimostrare come il legno conservi ciò che assorbe nel corso della sua esistenza, informazioni che emergono grazie a dei processi chimici. L’opera dimostra come il bio-risanamento conferisca agli organismi la capacità di riabilitarsi nonostante la distruzione umana, anche nella Terra dei Fuochi, nome che attribuisce all’opera.

Nella stessa sala Ivano Troisi, attraverso un’installazione composta da nove strati di fogli di carta fatta a mano adagiati su rocce raccolte nella Val d’Agri, notifica una situazione di sfruttamento ambientale insostenibile, ovvero, le fuoriuscite di idrocarburi conseguenti alle trivellazioni di raccolta del petrolio. Cova è un lavoro nato in seguito ad un’indagine iniziata nel 2014 durante un sopralluogo nell’area lucana dove l’ENI estrae 75000 barili di petrolio ogni giorno. Tale sfruttamento delle risorse ha modificato irreversibilmente il territorio che oggi vive una disastrosa situazione socio-economica.  L’opera è in divenire; l’artista ha versato gli idrocarburi prelevati in loco, che permeano costantemente gli strati di carta che, come strati di terreno ormai esausto da cui il petrolio fuoriesce, lo filtrano assorbendolo in parte fino ad allargare la macchia, monito per le conseguenze dell’inquinamento che, se non arrestate, possono allargarsi incontrollatamente.

Un’opera viva e distruttiva come le azioni dell’uomo che non accennano a fermarsi nonostante i forti allarmi che stiamo ricevendo dall’ecosistema.

La mostra è un percorso ricco di messaggi trasmessi con linguaggi diversi ma convergenti nel tema proposto, è un discorso la cui importanza non può essere compresa da una lettura superficiale e, proprio per questo, spiegato e ribadito attraverso gli eventi collaterali che si sono sviluppati e si sviluppano dal giorno di apertura, per una mostra che non si esaurisce nel senso delle opere, ma che si impegna a coinvolgere ed accompagnare il visitatore.