Una trentina di opere, scelte con grande attenzione e perizia, si incaricano di ricostruire per intero il lungo cammino dell’artista che inizia poco dopo un incontro giovanile con una figura di primo piano che con il mondo dell’arte aveva, per la verità, veramente poco a che vedere.
Mentre ricordo questo episodio, non posso nascondere una certa commozione perché lo appresi dalla viva voce di Renato, di cui ho avuto il privilegio e la fortuna di essere amico. Federico Fellini era il nome di questo personaggio, che si fermò alla pompa di benzina dove Renato lavorava. “Dottò so’ er mejo tacco der Quadraro”, fu la risposta alla domanda del regista che chiedeva al giovanotto che gli stava davanti, alto e di bell’ aspetto, se sapeva ballare.
Fu un attimo e Mambor già era nel cast della Dolce Vita. Insomma: dalla pompa di benzina alla storia del cinema in un colpo solo. Dal mondo del cinema a quello della cultura, della mondanità e dell’arte il passo fu altrettanto breve. Gli incontri con Paola Pitagora (che su quegli anni ha scritto un bel libro, Fiato d’artista), Tano Festa (con cui condivise lo studio), Lo Savio, Mario Schifano, Franco Angeli, Kounellis si succedono in rapida successione coinvolgendo, un po’ alla volta, pressoché tutti i protagonisti del mondo dell’arte che, agli albori dei fatidici anni Sessanta, ruotavano attorno a Piazza del Popolo e a tre gallerie speciali: La Tartaruga di Plinio de Martis, la Salita di Liverani e più tardi l’Attico di Sargentini.
Dopo le prime mostre propedeutiche (Premio Cinecittà del 1958, la mostra alla galleria Appia antica con Emilio Villa), ci furono quelle importanti: 13 pittori a Roma nella nuova sede di Piazza del Popolo de La Tartaruga nel ’63 e, nello stesso anno, quella storica, sempre a La Tartaruga, Una mostra di tre giovani pittori romani (Mambor, Tacchi e Lombardo). Dopo il periodo dei Legni, influenzato dalla ricerca minimalista sulla luce di Lo Savio, segue quello degli Uomini statistici, dei Timbri, dei Ricalchi, deiDiari e dei Filtri.
È questa l’“età dell’oro” di Mambor che viene definendo i lineamenti del suo linguaggio: bidimensionalità, antipittoricismo, antiespressionismo, rifiuto di qualsiasi cedimento ruffiano e naturalistico. Gli artisti, quelli a fianco dei quali Mambor lavorava, allora si definivano “freddi nell’arte e caldi nella vita”. Il mondo investigato era quello dell’uomo-massa. Le modalità di scavo erano opposte rispetto a quelle della Pop internazionale. Al posto della serialità e dell’elogio del mercato, c’era l’occhio dell’artista che “freddamente”, e in modo impersonale, sezionava il mondo di allora, lo stesso che Debord e Pasolini condannavano denunciandone la ferocia consumistica e il dispotismo omologante.
Asciutto, “politico”, intransigente, oggettivo, analitico, attento al significante come al significato, sperimentatore infaticabile ma insieme dispensatore di un’energia umana irresistibilmente empatica, Mambor fu l’artefice di un'”ideologia umanizzata” che guiderà tutte le sue imprese. Poi esplode l’amore per il teatro. Sono anni in cui Renato cessa di dipingere perché scopre il calore e il senso del lavoro collettivo (fonda il Gruppo Trousse).
Del resto la relazione con l’altro da sé, con il volto dell’altro, direbbe Levinas (un filosofo che si deve tener presente quando si parla di Mambor), ritrova proprio nel teatro il suo habitat naturale. Dopo un grave problema di salute fortunatamente superato, anche in virtù di uno stato di grazia ottenuto attraverso la pratica di un personale percorso spirituale, nell’87-‘88 Mambor ricomincia a dipingere. E nuovi cicli si delineano: dall’Osservatore al Viaggiatore.
Ancora una volta l’ambiente che circonda l’artista appare definito dalla relazione che intrattiene con la soggettività. Mambor intuisce con esemplare lucidità che l’ambiente si modifica a seconda delle posture che l’uomo assume, che l’artista assume, inaugurando una nuova e produttiva stagione, documentata da scatti fotografici o inverata da un procedimento che unisce e armonizza performance-pittura-scultura. È attraverso questa procedura che si riduce la distanza fra arte e vita, fra uomo e artista. L’entrata della sagoma dell’autore nelle sue opere pittoriche e scultoree è un’epifania.
Così l’uomo statistico, quello dei Timbri e delle Sagome, acquista una sua individualità che non aspira, però, ad introdurre elementi autobiografici ma, piuttosto, filosoficamente, definisce il perimetro di una categoria: quella dell’individualità che si confronta con l’altro da sé. Un “altro” che rende esperibile l’esperienza stessa dell’esistere. Un altro senza il quale ciascuno di noi non è. Un limite quindi: una fragilità. Ma anche il presupposto dell’unica “felicità possibile”.
L’ultima parte della ricerca di Renato Mambor si intrattiene produttivamente su questa linea di indirizzo, raggiungendo livelli non comuni di sintesi fra estetica e riflessione sulle origini e i destini del mondo. Un caso più unico che raro di arte concettuale liberata da ogni dipendenza epigonica dall’esperienza duchampiana.
Questa mostra dà, meritoriamente, ampio spazio alla conoscenza di questa parte della produzione del grande autore romano. Essa si conclude con la splendida Fili (2012), dopo aver avuto l’abbrivio con una carta del 1958, Senza titolo, ancora intrisa di influenze informali. Un viaggio di oltre Sessanta anni che ci ha consegnato un tesoro che ancora aspetta la meritata consacrazione, ben oltre i limiti dei pur memorabili anni Sessanta.