Inaugurata lo scorso sabato 7 maggio, la mostra, a cura di Cristian Porretta, costituisce la prima vera occasione per confrontarsi costruttivamente con la ricerca di questo autore, il quale ha realizzato un ciclo di lavori espressamente concepito per conferire corpo al pensiero che è all’origine dell’esposizione. Il tutto, inoltre, è inserito nel perimetro di un progetto ben più ampio, di cui la mostra identifica certamente il culmine, che ha già visto anche un momento performativo partecipativo in collaborazione con l’Associazione culturale Il Villaggio Globale insieme alla Falegnameria sociale K_Alma e che ha ancora in previsione una conferenza di approfondimento sul lavoro di Matsuoka.
Come deducibile dal titolo dell’evento, il novero delle opere prodotte dall’autore per tale circostanza verte sulla condizione odierna del rifugiato. Uno status, quest’ultimo, che ha sollecitato la sensibilità dell’artista durante il periodo di studio e lavoro da lui trascorso, fra il 2016 e il 2017, a Roma, successivamente alla vincita del premio governativo “Followship under the Pola Art Foundation Overseas Study Program”. Colpito dalla figura, dalla eco tanto epica quanto romantica, dell’esule in balìa degli eventi e trapiantato in una dimensione socioculturale a lui aliena, l’artista, il quale non aveva mai assistito fino ad allora alle conseguenze del fenomeno migratorio così come si verificano in Europa, sente di eleggere tale soggetto, parafrasato tramite il suo linguaggio plastico, a referente simbolico dell’essere umano contemporaneo. Dunque, la categoria esistenziale del rifugiato diviene l’oggetto dell’interrogazione estetica di Matsuoka, fino a venir posizionata al centro della serie di lavori eseguiti per la mostra in questione.


La sua indagine, a partire da premesse siffatte, si muove a favore del tentativo di definire, da una prospettiva sia morfologica che antropologica, una nozione di individuo dalla validità universale, in grado di prescindere dalle relatività che determinano le differenze di genere, etnia, estrazione; quindi da tutto ciò che possa particolareggiarla. Risulta interessante, invero, denotare come la ricerca di un’entità unanime dell’uomo passi attraverso una pluralità tecnica così accentuata, sinonimo dell’assidua sperimentazione praticata dall’autore. Difatti, in mostra convivono materiali quali legno, ferro (anche polverizzato), magneti, titanio e pigmenti di varie tipologie, spesso ibridati nella fisicità di un’unica scultura. Ne deriva un alfabeto indubbiamente complesso, dove le parti anatomiche sono ora forzate e ora stemperate nella loro riconoscibilità, nei ranghi di sculture non immediatamente intelligibili con un solo sguardo, che per essere correttamente lette richiedono lunghe tempistiche di fruizione. Queste, talvolta, sono modulate fino alla loro frammentazione, giungendo a frazionare l’unità costitutiva originaria, come se dotate di un clinamen endogeno.
Pertanto, l’espressione di Matsuoka termina nel tradurre principalmente la caducità ontologica dell’essere umano e, a tal fronte, non è un caso che il suo lavoro tematizzi la condizione del rifugiato, considerato stigma dell’incertezza causata dal nomadismo contemporaneo.

