Due ambienti, differenti per forma e dimensione, caratterizzano la rinnovata sede espositiva della Fondazione VOLUME!, ubicata in zona Trastevere, ove è ospitato il progetto “Quando il bambino era bambino” di Davide Dormino (Udine, 1973 – vive e lavora a Roma) con testo di Silvano Manganaro. Al suo interno l’osservatore è invitato ad entrare indossando un cappuccio nero velato e perforato nella sola zona degli occhi limitando, così, non solo la vista ma anche gli altri sensi che quotidianamente ci aiutano a percepire la realtà in ogni suo dettaglio. Percezioni, poi, ulteriormente invalidate dall’illuminazione, eccessiva o quasi annullata, che denota questi spazi. Passando dal quasi buio della prima sala al bianco accecante della seconda lo spettatore torna/ritorna a esplorare sensazioni parzialmente dimenticate come la precarietà della mobilità corporea oltre che quella visiva compensandole con quella olfattiva, uditiva e tattile. Obiettivo di Davide Dormino è invitare il pubblico a perdersi per ritrovarsi tornando per qualche minuto bambino come affermato nel titolo “Quando il bambino era bambino”. Un’esperienza che ho fatto personalmente e che invito ognuno dei lettori ad effettuare…
Per approfondire il progetto ho avuto il piacere di intervistare l’artista: Davide Dormino.
Maila Buglioni: «“Quando il bambino era bambino” è il progetto site specific che hai ideato e realizzato per il nuovo spazio espositivo di VOLUME! ripensato attraverso la suddivisione in due diversi ambienti: uno più grande, poco illuminato, familiare ma straniante e l’altro più piccolo, bianchissimo e destabilizzante. Come è nata l’idea di questo progetto? Sei stato ispirato dai tuoi figli o dalla tua voglia di tornare bambino?»
Davide Dormino: «Non posso rispondere con precisione. Questo è il mio modo di fare, qualcosa arriva da sopra e mi muove le mani come un burattinaio. Cerco la forma con la mente sgombera, non conosco la direzione. Solo dopo riesco a recuperare il senso, e in questo bambino c’è sicuramente un’attenzione maggiore all’infanzia, alle difficoltà legate al momento che stiamo vivendo, essendo padre l’argomento mi tocca in maniera più forte, il bambino ha le sembianze di mio figlio. Ma allo stesso tempo ci sono anche io, non per la voglia di tornare bambino, ma per la continua sensazione di esserlo ancora oggi. “L’Artista è un bambino sopravvissuto” diceva Picasso, questa frase mi segue da anni…»
M. B.: «Perché hai deciso di intitolare la mostra Quando il bambino era bambino?»
D. D.: «Questo titolo è arrivato dopo come mi accade spesso. Come già detto comprendo il mio lavoro solo quando ho terminato, e così, ad un certo punto, mi sono ricordato di questa poesia di Peter Handke, Elogio all’infanzia, scritta appositamente per il film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino. Sembrava riassumere ciò che avevo nella mente, come se riaffiorasse dal mio inconscio.»
M. B.: «Ho personalmente esperito questa nuova rivisitazione dello spazio di VOLUME! grazie al tuo progetto: un’esperienza che consiglio vivamente perché solo attraverso il parziale oscuramento della vista, tramite il cappuccio velato da te pensato, ho potuto provare sensazioni ed emozioni forse mai provate che attivano ed ampliano la percezione attraverso altri sensi. In breve, se in un primo tempo il visitatore si sente perso (per via della precaria mobilità corporea e visiva) e poco dopo finisce per acquisire le informazioni percettive grazie ad altri sensi come l’olfatto, l’udito e il tatto. Quali sono state le reazioni delle persone che hanno esperito la mostra?»
D. D.: «Quando si partecipa ad un’installazione esperienziale, nonostante l’artista abbia creato delle coordinate ben precise, la percezione del visitatore è sempre intima e personale. Nel caso di questo progetto c’è stato un comune denominatore: in qualche modo gli “invitati” sono stati scossi. Ognuno a suo modo. Chi uscendo ha preteso di allontanarsi, restando in silenzio, chi in lacrime mi ha regalato un abbraccio. Per me è stato emozionante assistere a tali reazioni. Incredulità e annullamento dello spazio e del tempo, credo sia stato questo il sentire comune, nessuno si aspettava di vedere quello che ha visto, non era prevedibile.»
M. B.: «Un lavoro, questo, differente rispetto alle opere presentate in precedenza ed in cui si nota la tua propensione per la scultura ed il disegno cercando nuove forme e sfruttando le possibilità liriche e plastiche di materiali come il marmo, il bronzo e il ferro. Tuttavia, la dimensione umana ed ambientale è sempre stata al centro della tua poetica: penso ad esempio a “Anything to say?” (2015-2020), a “Poltergeist_monumento all’invisibile” (2019) o a “Naviganti Monumento all’immaginazione” (2017). Ambiente ed essere umano sono anche il fulcro di Quando il bambino era bambino. Grandi dimensioni che mi fanno capire che non ti basta effettuare una semplice scultura come fecero molti scultori del passato penso a Rodin, a Donatello o agli scultori dell’epoca classica. Perché hai sentito l’esigenza di indagare la dimensione ambientale e metterla in relazione con l’essere vivente?
D. D.: «In genere il mio approccio è “monumentale”, pubblico, ambientale, in questo l’essere umano viene sopraffatto. È forse un senso di spaesamento quello che mi ha sempre affascinato, in generale della scultura, non solo nella mia ricerca, ma in chi prima di me ha lasciato il segno. Come a sentire di poter superare i limiti, allontanandomi dal recinto del conosciuto, dalla piccola provincia in cui sono cresciuto. Lo spaesamento è tanto più grande quando il gigantesco è reale, quando l’unità di misura è l’essere umano, per questo bisogno le mie sculture nascono in ascolto dei luoghi. Poi è cambiato qualcosa: meno di un anno fa ho realizzato “Quello che non ho mai detto”, un progetto che si formalizzava con l’opera “Incluso”, un muro di ferro, un monolite alto due metri e lungo cinque, in cui si poteva guardare dentro. C’era, infatti, uno spioncino nascosto che invitava al gesto erotico di sbirciare. All’interno di questo, inaspettatamente, si scorgeva una perla. È stato un lavoro che ha spostato la traiettoria della mia ricerca, volgendo il mio sguardo verso l’interno, formalmente più piccolo, intimo, ma allo stesso tempo colossale e sconosciuto come un universo. È cambiato qualcosa nella forma, nel momento in cui, come una rivelazione, ho compreso che la monumentalità la si può esprimere anche in piccolo. Mi viene in mente uno strumento ibrido che da un lato inizia con un microscopio e dall’altra si conclude con un telescopio; è il continuo dialogo tra dentro e fuori. Anche in Quando il bambino era bambino anzi, ora più che mai, lo spazio e la scultura si fondono a creare un’ambientazione. È una storia che non viene solo raccontata: si vive in prima persona.
M. B.: «Nel testo di Silvano Manganaro centrale è lo sguardo interiore, innocente, censorio che ci pone di fronte al nostro Io, a relazionarci con un ambiente duplice ove oscurità e luminosità ci rendono coscienti di vivere due differenti intimità, mondi, viaggi, sensazioni e emozioni contrastanti. Un viaggio che dalla perdita e dalla paura arriva alla presa di coscienza: un viaggio che ogni bambino affronta per divenire ‘Uomo’. Qual è la finalità ultima del tuo intervento?»
D. D.: «Quando Franco Nucci mi ha invitato a fare un progetto per Volume! ho visualizzato la scultura di un bambino, non a grandezza reale, ma tanto piccola da esasperare il suo bisogno di nascondersi. Un piccolissimo bambino senza malizia attende, nel suo nascondiglio precario, che qualcuno lo trovi, oppure no. In questo cercare ho considerato il pericolo di essere tanto vulnerabili, per questo, infine, ho aggiunto l’elemento del cappuccio. Volevo che lo spettatore si sentisse l’uomo nero dei suoi stessi incubi. Il censore della propria purezza. Fondazione Volume! da 25 anni promuove la sperimentazione, e richiede di realizzare un progetto site-specific nel vero senso della parola, in cui il fruitore possa vivere l’ambiente, anzi il volume in tutta la sua struttura, per cui è stato naturale per me seguire questa nuova direzione.Silvano Manganaro ha scritto un testo perfetto in cui ci interroga, ci invita a sentire più che ascoltare, perdersi più che a mettere a fuoco. Poiché passiamo la nostra vita a cercare il senso, a dare un nome a qualsiasi cosa, qui, invece viene richiesto di vagare, senza fretta e perdersi.»
M. B.: «Cosa ti aspetti che rimanga all’osservatore?»
D. D. «Non lo so cosa aspettarmi, ma so che l’immaginario che ne viene fuori è spesso un sentire collettivo, così come il mio è stato un tentativo di raccontare il nostro tempo. Quello che mi auguro è che restino degli interrogativi a cui si senta l’esigenza di dare risposta; questo è il fine dell’arte: piantare i semi che destabilizzino le certezze.»
M. B.: «Progetti futuri? Puoi anticiparci qualcosa?»
D. D.: «Ho tanti progetti che mi auguro vedranno la luce presto e poi, disegnare sempre.»
“Quando il bambino era bambino” di Davide Dormino
Con testo di Silvano Manganaro
fino al 30 aprile 2022
Fondazione VOLUME!
Via di Francesco di Sales, 86-88 – 00165 – Roma RM
Tel: +39 06 6892431