Albrecht Durer Acquaforte, [1518], mm. 321 x 215, carta vergellata, filigrana, monogramma

Plagiarism machine (AI), ovvero il situazionismo del capitale

Che cos’è una macchina del plagio? Quali condizioni deve soddisfare? Di quali proprietà può e deve tener conto? In questo nuovo ciclo di articoli, propongo una risposta a tali domande. La nozione di “macchina statistica del plagio” vera e propria non verrà definita nel corso del ragionamento iniziale, ma soltanto circoscritta: verranno indicati i motivi in base ai quali un insieme di pratiche statistiche chiamate “machine learning” sia riconducibile a uno stesso modo di appropriarsene.
Questo lavoro è dominato da un pre-fatto (alla memoria di Luigi Baggi-representative), da una concezione del materialismo culturale che esporrò in breve e senza giustificarlo di nuovo: le capacità di apprendimento umano sono filogeneticamente determinate e culturalmente determinanti; esse sono determinate per tutti i membri della specie, e quindi non sono determinanti di variazioni culturali. La specie umana è resa possibile dalle capacità di apprendimento e al tempo stesso ne costituisce il limite: sono precisamente quelle possibilità e quei limiti ad essere simulati dalla tecnologia più sofisticata come oggetto di ready-made. In questa prospettiva, la cultura visiva che presenta maggiori interessi al plagio è quella della riproduzione AI. Mi terrò sui bordi del delitto in un senso del tutto particolare. Descriverò un percorso apparentemente distante dalla pubblicità della AI, ma che tuttavia potrà introdurre, in guisa di prolegomeni, verso ulteriori «sgarri». Si tratta qui di abbordare la provenienza politica del plagio capitalistico; l’arte nei primi momenti dell’agire generativo, in quanto sorgente assoggettata, ma anche origine e maniera, eccede.

1. Per definizione l’arte è quella che sta nella sua forma. Occorre dire che è accolta? In che senso? Con l’AI questo è accettabile? Se per qualche artificio garantito non riesce in nessun senso ad essere soggetto della sua simulazione, sia pure prima di poterla precisare vocalmente, come acquisirebbe allora la possibilità di arrivare al dato? Il simbolico tradotto dalla “machine learning” non ha reciso il cordone ombelicale con la copia che la lega al campione statistico. Qual è dunque il legame tra arte senza codice e codice plagiato (generativamente)? In questa strutturazione, quale ruolo ha il plagio nell’oggetto, prima che intervenga l’immagine visiva pronta alla stampa, per assicurare in modo definitivo, fra «quantitativo concettuale del procedimento» e «quantitativo della serie riprodotta», la qualità del risultato? La statistica, se non è l’oggetto di queste pagine, si profilerà però virtualmente all’orizzonte della mia attenzione, poiché esiste potenzialmente in quel dispositivo quantitativamente strumentalizzato nel corpo dell’arte, che intendo indicare con il paradosso: voce del plagio o voce dell’eurisko.

Due criteri sono di volta in volta serviti a delimitare il campo del simbolismo universale dell’arte: secondo l’uno, appartiene al simbolico tutto ciò che ha carattere mentale, tranne ciò che è tecnico/scientifico; secondo l’altro appartiene al simbolismo tutto ciò che è medialmente comprensibile al di fuori del nulla. In entrambi i casi, un residuo.

Nella concezione rappresentativa, come in quella concettuale, le credenze rappresentative sono il frutto di esperienze difettose, di inferenze non giuste, perché fondate su dati insufficienti. Così “l’artista”, o operatore creativo, dalle proprie riflessioni sull’esperienza del sogno, avrebbe dedotto la nozione di un entità immateriale, l’anima dell’opera, e l’avrebbe successivamente attribuita ad altri materiali, in forma di astrazione. Secondo il Medialismo, la magia della medialità avrebbe due forme, l’omeopatica e la contagiosa, entrambe fondate sul caos generativo: nel primo caso della similarità insidiosa, nel secondo caso della contiguità quantitativa, con la causalità effettiva; le figure (figurali) e le pratiche artistiche a cui danno luogo sarebbero di conseguenza un insieme di imperfezioni dovute a mancanza di empiricità! Ad eccezione dell’illusione Intelletto-Macchina, niente impone una segmentazione del fenomeno AI in simboli totalitari. La nozione di plagio è culturale e politica, non universale, presente o assente, diversa da cultura a cultura e persino all’interno di un dato apprendimento; essa rientra in quel tipo di analisi critica, analoga a quella formulata da Gianfranco Sanguineti con lo pseudonimo di Censor, riguardo alla nozione di plagio situazionista. Propongo quindi che la nozione di situazionismo quantitativo sia discussa, almeno provvisoriamente e confrontata col vocabolario descritto dalla teoria AI, per essere considerata soltanto un oggetto eventuale, tecnologicamente definito, della stessa quantizzazione empirica. 

Ora si può meglio comprendere per quale motivo le concezioni artistiche criticate siano destinate alla mediamorfosi storica. Entrambe accettano, senza alcuna critica preliminare, di rispondere alla domanda: «che cosa significa plagio post-ready-made?». Questa domanda presuppone innanzitutto che i simboli artistici siano definitivi e, in secondo luogo, che significhino. Poiché tali presupposti sono “imperfetti” (come direbbe A. J. Greimas), la domanda non ammette una vera risposta. Ma proprio qui sta la portata simbolica dell’arte universale, poiché l’inevitabile fallimento di tutti i tentativi contemporaneamente fa sì che questi si moltiplichino. I tentativi statistici e deep learning sembrano così ubbidire a un progetto culturale del capitale: in apparenza assimilano il simbolismo dell’arte, ma di fatto lo campionano, perché qualsiasi chiave di simulazione attinge dalla vecchia arte analogica. Quando coloro che detengono questa cultura sono in grado di formularla esplicitamente, parleremo di apprendimento implicito alla macchina e funzionale alla copia del tool machine (della AI). Il plagio esplicito e apertamente divulgato potrebbe in teoria essere imparato a memoria, e quindi offre una testimonianza diretta soltanto dei limiti qualitativi delle capacità di simulazione generativa. Il nuovo plagiarismo della machine learning costituisce, a questo riguardo, un campo esemplare, poiché le sue forme esplicite, se considerate isolatamente, sono intelligibili, e il loro ready-made ha sempre presupposto l’esistenza di una cultura pre-fatta. Possiamo definire come ricerche artistiche e quantitative, quelle che consentono di raccogliere, per un certo insieme di soggetti, informazioni utili a comparare un oggetto con l’altro. È questa comparabilità delle informazioni che permette poi l’enumerazione dall’interno di un nuovo ready-made e, più in generale, l’analisi quantitativa dei dati. La condizione necessaria per l’applicazione dei metodi quantitativi è, quindi, che l’osservazione venga fatta su di un insieme di oggetti, in una certa qual maniera comparabili: molto spesso questi oggetti sono dei tool, ma possono essere anche dei programmi di apprendimento, delle attrezzature informatiche, delle piattaforme di ready-made o altri tipi di unità algoritmiche.

Il punto di partenza di una qualsiasi ricerca di plagio quantitativo è in generale un perché della simulazione. Perché la copia varia secondo il tempo e il luogo? Perché si decide di campionare un dato candidato all’immagine? Quali sono i fattori del furto informatico autorizzato dal capitale? Come mai il giallo della copia di Magritte è più giallo del solito? Indicheremo in questa prassi la serie di procedure che consentono di passare dalla presentazione di interrogativi del vecchio plagiarismo del Novecento alla formulazione delle risposte del plagiarismo AI (detto anche plagiarismo neo-capitalista). Quando è possibile si decide di utilizzare una tecnica di rilevamento quantitativo, queste procedure sono sostanzialmente le stesse per tutte le ricerche e possono essere distinte nelle quattro seguenti fasi: 1) formulazione dei frammenti di copia; 2) predisposizione del piano di copia; 3) costruzioni delle variabili di montaggio (analogico e AI); 4) gestione delle relazioni tra variabili. Il problema della costruzione delle variabili plagiarism è quello della trasformazione dei concetti artistici in indici. In altri termini, si tratta di passare dalla definizione astratta o dalla connotazione intuitiva depositata nella storia dell’arte mondiale come banca dati a criteri concreti di compilazione. N. Chomsky ha schematizzato molto bene questa trasformazione, distinguendo il discorso dell’ingegneria plagiarista in situazionismo e contro-situazionismo: «La mente umana non è, come ChatGPT e i suoi simili, una macchina statistica e golosa di centinaia di terabyte di dati per ottenere la risposta più plausibile a una conversazione o la più probabile a una domanda scientifica». Viceversa:  «La mente umana è un sistema sorprendentemente efficiente ed elegante, che opera con una quantità limitata di informazioni. Non cerca di danneggiare correlazioni tra dati, ma cerca di creare spiegazioni. […] Smettiamola di chiamarla allora “Intelligenza Artificiale” e chiamiamola per quello che è e fa, un “software di plagio”», perché  «Non crea nulla, ma copia opere esistenti, di artisti esistenti, alterandole abbastanza da sfuggire alle leggi sul diritto d’autore. Si tratta del più grande furto di proprietà intellettuale mai registrato da quando i coloni europei sono arrivati nelle terre dei nativi americani.» (Noam Chomsky, New York Times – 8 marzo 2023). Agire in comune nel plagiarismo post-ready-made, riprende e richiama un passaggio del primo libro del Capitale, nel quale con Marx si insiste sull’esigenza “insita nel comune” di pensare ad una forma di azione di tutti che, ponendosi in alternativa a quelle realizzate dal sistema di produzione capitalista, sia in grado di valorizzare le singolarità salariate e la loro dissomiglianza. Da una parte Marx mette in luce la complessità e la pluralità assunta dalla categoria di soggettività nell’epoca del capitalismo, della rottura delle forme e dei vincoli che legavano il singolo a contesti territoriali e a rapporti umani ben definiti. Dall’altra, egli rifiuta ogni comunitarismo, ogni semplicistica riproposizione dei legami pre-capitalistici, così come ogni chiacchierata confortante sulla possibilità di eliminare l’alienazione prodotta dal capitalismo. Nell’analisi marxiana, il capitalismo si basa su un atto “originario” di separazione (Trennung) che riguarda i lavoratori e i mezzi di produzione, ormai dominio del solo capitalista; ma al contempo, ed in modo ben più incisivo, essa si riferisce anche all’individuo che si trova come distanziato rispetto alla sua capacità lavorativa e creativa. Dunque, il capitalismo produce rottura e scissione dell’individuo rispetto alla comunità e ai sistemi di riferimento del passato, ai mezzi di produzione, alla sua stessa capacità lavorativa e, quindi, anche la produzione AI, con le sue condizioni di plagio forzato e generalizzato produce divisione, riproduzione e separazione dalla matrice. La brillante affermazione di Chomsky contro l’autenticità dell’AI si inserisce in questo campo problematico, indagando l’incontro-scontro tra aspetto individuale e comune a partire dalla produzione marxiana degli anni ’60, senza perdere però il riferimento alle opere e alle fasi precedenti del pensiero sociale progressista. L’essenza delle cose e la loro forma fenomenica non coincidono immediatamente. In Marx, a differenza degli economisti classici, è presente l’individuazione dell’opacità del reale: quindi essenza e fenomeno dell’AI non risultano identici. La presenza fenomenica dei prodotti dell’AI, così come del denaro che li accompagna, cela la propria essenza, il valore, che non è empiricamente percepibile, o meglio che è “un’astrazione dai concreti valori d’uso, dagli individui e dai bisogni; un’astrazione che avviene in modo inconscio e dipende dagli ordinamenti giudiziari interni al sistema capitalistico. Il feticismo dell’AI (il passaggio da intelletto vivo simulato, intelligenza collettiva a macchina del furto e del ready-made autorizzato) non è dunque una comprensione erronea della realtà, un errore soggettivo, ma una illazione necessaria del rapporto tra il pensiero e l’opacità del reale. L’apparenza mistificante è, infatti, il modo stesso in cui la realtà si manifesta. Questo punto ha una conseguenza decisiva, secondo la lettura del mio “sensorialismo” (Il sensore che non verde, Paginauno, Milano, 2023): essa ci impedisce di contrapporre alla “falsità” della prospettiva borghese, una presunta “verità” libertaria, che sia capace di togliere l’opacità del feticismo e ricondurre il reale ad assoluta trasparenza.

2. Per creare un’arte bisogna anzitutto volerla inventare. Non è una tautologia: parecchi artisti visivi hanno enunciato segni che sarebbero stati sufficienti a formare una nuova arte, ma non era nelle loro strategie il presentare come un nuovo strumento il programma “manierista” per inventare un nuovo medium. Ciò significa che, per lavorare ad arte, occorre avere un progetto di invenzione artistica o un medium attrezzato. Un prompt (o una strategia prompting) non è necessariamente una pianificazione sistematica della propria cassetta degli attrezzi: la formula della “abstractio totus”, a parte la simulazione plagiarista, è quella che oggi più si presta a fungere da “matrix meta-artistica” o metaversus. Sono le prime parole della decima delle ventun Regulae ad directionem ingenii di Cartesio: “Affinché l’ingegno diventi sagace, si deve esercitare nella ricerca delle stesse cose che altri hanno già inventato … (Regulae ad directionem ingenii, ed. Crapulli, La Haye, 1966, p. 34).

Il quesito posto da Cartesio – perché mai si debba inventare – è basilare per la nostra trattazione della AI, e si deve dire che l’input da lui ricevuto può essere quello che viene più spontaneo, anche se nella sostanza risulta paradossale. Dopo che abbiamo delineato il procedimento di base di quella alchimia moderna che è l’invenzione artistica, è inevitabile che sorga la domanda: perché è meglio che anche una macchina inventi anziché presentarsi come uno sterile tool? La nostra civiltà occidentale e liberista stenta infatti ad ammettere delle artisticità che non siano goal oriented, finalizzati al raggiungimento di qualcosa. L’unica attività artistica, per la quale la mentalità occidentale ha sempre ritenuto di dover fare eccezione al suo finalismo generalizzato, è l’ampio gioco del ready made, e abbiamo visto come l’attività del “già pronto” sia strettamente imparentata con l’enigma a priori del già definito (un già pronto che per gioco è diventato tutto e il contrario di niente). Alla luce del finalismo, la risposta di Cartesio al quesito perché inventare se tutto è già pronto, la AI ha introdotto un’ulteriore ambiguità. Essa potrebbe intendersi nel senso che l’ars-inveniendi sia soltanto un esercizio intorno ad una nuova simulazione della scatola degli attrezzi, indirizzata allo scopo dell’azzeramento e ricostruzione di una storia dell’arte rifondata dall’algoritmo. In tal caso, Cartesio avrebbe anticipato la concezione della AI dei modelli di lavoro ibridi che ridefiniscono i processi e necessitano di architetture, soluzioni e strumenti adatti per aumentare l’efficienza e migliorare la performance degli artisti: anche in ambienti lavorativi complessi.

Nella pratica pittorica del Rinascimento e dell’età barocca, per risolvere la rappresentazione prospettica e tridimensionale, gli artisti sono stati sostenuti dal Trattato sulle proporzioni di Albrecht Durer, in cui si applica un modello disegnativo ideato da Jacob de Kaiser. Tra i sistemi più sofisticati e diffusi dobbiamo ricordare le due regole della prospettiva (1583) di Vignola-Danti; La perspective pubblicata ad Amsterdam nel 1628 da Samuel Marlois e la Perspective pratique di Jacques Dubreuil edita a Parigi nel 1642. Jan Vermeer di Delft usava un sistema prospettico introdotto da Marolois e da Abraham Bosse. Nel corso dell’Ottocento, il genere della veduta sperimenta nuove possibilità, servendosi di originali apparecchi ottici, realizzando i cosiddetti diorami, pleorami, cosmorami, panorami. Erano vedute totali, quadri immensi, estesi a 360 gradi, i cui limiti fisici coincidevano con quelli dell’orizzonte visivo degli spettatori, posti al centro del grande cilindro dipinto. Utilizzarono queste apparecchiature artistiche come Carlo Bossoli, K.W. Gropius, T. Grieve e William Telbin. L’evoluzione e il rinnovamento delle tecniche artistiche ha alla base la fede da parte dell’artista in un progressivo sviluppo e miglioramento, protesi a raggiungere la perfetta mimesi del reale e il superamento di questo. L’idea di progresso artistico è legato al concetto di progresso scientifico e si manifesta con l’attenzione per la scienza, la tecnologia e la mimesi. Gli artisti nel corso dei secoli, si sono serviti delle scoperte e dei tool più avanzati, che venivano offerti da scienziati ed operatori per avvicinare invenzione e spettatore, creazione dell’Opera e concettualità della cassetta degli attrezzi, osservatore e estremismo del plagio. La strategia politica della copia tratta un periodo precedente all’avvento della fotografia, nel quale, attraverso i nuovi dispositivi dell’osservare – come il fenachistoscopio e lo stereoscopio, indissolubilmente legati ai coevi interessi della fisiologia ottica – si afferma il progressivo abbandono della discontinuità interno/esterno presupposta dall’esperienza visiva della camera oscura. Jonathan Crary sottolinea in Techniques of the Observer (On vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT, Boston, 1990) come l’opacità corporea della visione subentri alla trasparenza dell’occhio cartesiano e come il soggetto osservatore divenga il luogo della produzione delle immagini, dando vita a nuove sperimentazioni artistiche e a nuovi soggetti sociali.

A parte il desiderio di dare un ordine alla materia dell’Arte, è evidente il grado di riconoscimento di importanza proprio dei diversi procedimenti tecnici. L’abitazione, lo studio dell’artista riflettono dei rapporti sociali, la fabbrica li genera. Tradotto in linguaggio meno astratto, ciò vuol dire che la manipolazione dei diversi elementi interessati, e delle loro relazioni, ha per risultato delle trasformazioni sociali, politiche o anche ideologiche. Il termine abbreviato normalmente in IA o AI (all’inglese) era stato usato per la prima volta da John McCarthy del MIT, nel 1956, per indicare il settore dell’informatica che si occupa di simulazione intelligente del comportamento umano. McCarthy inventò il linguaggio di programmazione LISP e pubblicò i suoi progetti sul Communication of the ACM nel 1960. Nel 1962 alla Stanford University creò i laboratori di intelligenza artificiale e fu per molti anni amico-rivale del progetto Mac, ma la sua inefficienza politica McCarthy la mostra quando commenta i fatti di cronaca internazionali da una prospettiva di destra. McCarthy sembra impegnato a sostenere un progetto liberale, pronto a giustificare il desiderabile e sostenibile di una classe tecnica sull’altra.

Le ricerche sull’AI sono focalizzate in alcune aree: in quella linguistica si è tentato di costruire testi sensati su alcuni argomenti, oppure si è mirato alla sintesi vocale, alla comprensione del linguaggio parlato, alla capacità di effettuare automaticamente traduzioni da una lingua all’altra! Può essere interessante cercare di confrontare i criteri seguiti dalla persona e quelli adottati dalla natura nel progettare rispettivamente il computer e il cervello: con tutti i limiti che può avere un confronto del genere, si può dire che si tratta di due approcci diversi. I computer derivano la loro velocità dal fatto di essere costituiti da dispositivi elettronici, il tempo di risposta di un circuito logico elementare, nel 1996 era intorno al miliardesimo di secondo. I neuroni del cervello sono molto più lenti, essendo basati su meccanismi di natura elettrochimica; essi hanno infatti un tempo medio di attivazione di circa un milione di volte di meno. Va detto però, che la relativa lentezza del neurone è più controbilanciata dal parallelismo operativo della struttura cerebrale. La velocità ha ovviamente un costo in termini energetici. Così, mentre l’attivazione di un neurone richiede meno di un miliardesimo di watt, i dispositivi elettronici dei computer sono su livelli ben maggiori. Ciò ha un importante effetto sulla compattezza del sistema; infatti, poiché l’energia viene dissipata in calore, la struttura deve avere dimensioni adeguate per smaltirlo.

Un’efficace metafora dell’arte generativa è costituita da un racconto di Jorge Luis Borges intitolato La biblioteca di Babele (in Finzioni, Einaudi, Torino, 1967). In questa smisurata biblioteca, i volumi sono tutti materialmente uguali (stesso numero di pagine, di righe per pagina, di caratteri per riga), ma ognuno contiene una diversa combinazione delle 25 lettere dell’alfabeto. Non vi sono, dunque, così come le fonti da cui attinge la la, due volumi identici per contenuto. Poiché sono realizzate tutte le combinazioni e i supporti possibili, garantendo che nella biblioteca, accanto a un enorme massa di materiale senza senso, esiste tutto lo scibile. C’è quindi – come per Alexa – la risposta a qualsiasi quesito corrisposto nella sfera (euristica-statistica) data. Il reperimento delle informazioni è comunque un problema risolvibile con la tecnica di plagio statistico, in particolare con l’ausilio dei cosiddetti “agenti”, ossia di entità (programmi) che eseguono la ricerca in base alle istruzioni ricevute dall’utenza. In sostanza, il sistema operativo che si va instaurando e potenzialmente in grado di assorbire la conoscenza generata ovunque nel mondo, ma man mano che essa si crea, e di metterla a disposizione degli utenti in un processo di auto-alimentazione! Per dirla con Gregory Bateson, un automa a pochi vincoli simili a percorsi obbligati; un organismo, al capo opposto, ha una pluralità di risposte adattative che si modificano continuamente. L’obiettivo è quello di realizzare una completa simulazione del sistema nervoso, integrando gli aspetti di cooperazione delle varie aree del cervello, partendo dall’enorme mole di dati fornita dal sistema nervoso. L’assioma nascosto del costruzionismo: identificate le strutture elementari, assemblare rischiando, ancora una volta, di confondere il gatto con il modello del gatto. Nel 1942, Isaac Asimov escogitò, per i suoi mondi immaginari popolati da robot intelligenti, tre leggi comportamentali. La prima, e la più forte, recitava che un robot non può nuocere alla persona, né permettere che a causa del suo mancato intervento, la persona (l’artista) comune subisca un danno. Oggi possiamo completarla aggiungendo che può divenire tool plagiarist autorizzato, attingendo alla memoria della storia dell’arte, ovvero un ready-made alla seconda.

Durer, Figura in scala, 1528