Arco Madrid 2025
DANIELE FRANZELLA, Qualcuno non sia solo, 2013, terracotta policroma

Pinakothek’a. La collezione Elenk’Art a Palazzo Sant’Elia

Fino al 30 marzo 2025 la Fondazione Sant’Elia di Palermo ospita “Pinakothek’a. Da Cagnaccio a Guttuso, da Christo e Jeanne-Claude ad Arienti”, la grande mostra che, negli spazi di Palazzo Sant’Elia, espone per la prima volta parte della ricca e documentata collezione Elenk’Art della famiglia Galvagno. Oltre duecento opere e centocinquantatré artisti selezionati dai curatori, gli storici dell’arte Sergio Troisi e Alessandro Pinto, attingendo a un corpus di più di quattrocento pezzi.

Palermo è bellissima, ma quando piove è ancora più bella. Contrariamente a quanto accade in altri luoghi, in cui il traffico impazzisce, i saggi palermitani sanno che quando il cielo è grigio bisogna rimanere a casa, e i visitatori di passaggio hanno licenza di circolare. Sia come sia, una giornata uggiosa mi ha regalato una sorta di visita privata: mi sono ritrovato in compagnia delle guide e ho potuto ammirare in tutta tranquillità una rassegna che ripercorre i momenti salienti dell’arte italiana, e non solo, in un arco temporale di poco più di un secolo. La mostra, intitolata “Pinakothek’a”, è stata allestita da Sergio Troisi e Alessandro Pinto nelle sale di Palazzo Sant’Elia. Espone una parte della gigantesca collezione della Elenka, nota ditta palermitana di dolciumi ed essenze per dolciumi. L’abbondanza è tuttavia un aspetto quasi secondario rispetto alla qualità delle opere, selezionate secondo un criterio che meriterebbe di essere studiato tenendo conto dell’intera collezione, posto che le scelte espositive hanno riguardato esclusivamente i curatori. Come ha dichiarato Francesco Galvagno, amministratore unico di Elenka S.p.A., “quella per l’arte è una passione che nasce con mio padre Antonino – fondatore dell’azienda Elenka nel 1959 e scomparso nel 2009 – che per primo ha iniziato a collezionare alcune opere ancora presenti nella raccolta: un nucleo concentrato su artisti siciliani della fine dell’Ottocento, prevalentemente paesaggisti.

Quando, alla fine degli anni Novanta, ho raccolto il suo testimone entrando a lavorare in nell’azienda di famiglia, ho recepito anche questa attenzione per il mondo dell’arte. E, mantenendo alta l’attenzione sugli artisti siciliani contemporanei, ho iniziato a sviluppare e ampliare la ricerca curiosando nel panorama più vasto di autori italiani e stranieri. Senza una rotta predefinita, piuttosto assecondando l’onda emotiva del caso e dell’incontro fortuito con un’opera in un momento particolare della mia vita. Un’avventura che ho condiviso con mia moglie Silvia, figura strategica in questa operazione di collezionismo e, come me, appassionata di arte contemporanea”. La mostra inizia con un asinello di Davide Franzella: la bestiola del presepe, ma che alla grotta non è ancora arrivata, impegnata com’è a trasportare elmi, armi e cannoni per la guerra di turno; in fondo, e per contrasto, un auspicio di speranza, posto che l’asino vuole uscire dal museo, lasciando il campo libero all’arte e alla bellezza. Una bellezza quasi palpabile nei locali al piano terra della ex Cavallerizza, dove un Giobbe di Francesco Messina emerso nudo, sebbene già avanti negli anni, dal grembo della madre e in attesa di tornarvi, tende le braccia verso i visitatori, quasi invitandoli ad entrare. Inutile dire che di morte non si deve neppure parlare. La mostra è un inno alla creatività, un inno alla vita, ai suoi colori sgargianti, alle sue linee sincopate. Gli occhi volano subito a un crostaceo pungente di Cagnaccio da San Pietro, ai genitori di Savinio, agli Uomini Rossi di Sassu, a un Fausto Pirandello che non ha niente, ma proprio niente da invidiare a un Lucien Freud. Lasciata con rimpianto la sala, mi imbatto subito, lungo le scale, in un’istallazione realizzata dai ragazzi dell’Accademia di Palermo sotto la guida di Francesco Simeti: il paradiso in una stanza – ne fanno fede le pareti decorate a motivi vegetali – in cui tornare bambini dondolandosi sull’altalena. E non è forse il collezionare arte un gioco, come riempiere – ce l’ho, mi manca – l’album delle figurine? Chiunque abbia esercitato questa pratica, sa che di un gioco in effetti si tratta, ma di un gioco molto serio. Io, ad esempio, bambino delle elementari, avevo sempre bisogno di pezzi da scambiare per la mia collezione di francobolli e, non riuscendo a procurarmeli onestamente, avevo escogitato una bella trovata: acquistare per cento lire delle bustine della Filatelica Pavone, con 10 francobolli provenienti da paesi tropicali, che poi rivendevo a cento lire ciascuno, con un ricarico non indifferente. Erano soldi veri, mica noccioline, e potevo comprarci gli annulli postali. A lungo andare la cosa insospettì i miei genitori, che mi indussero al pentimento e a una doppia confessione: dovevo dichiarare i miei torti – pecuniam pecunia non facere – a Dio e agli uomini. A Dio fu facile. Il mio confessore era infatti un carmelitano di Padova, un vero imprenditore, che non riconobbe nel mio commercio alcuna colpa: “ma che truffa e truffa, è senso degli affari”. Ben diverso fu il giudizio degli uomini, segnatamente della mia compagnetta di banco, che mi piaceva pure, cui avevo venduto un foglio di minuscoli francobolli trovato nella solita bustina per ben duemila lire: non solo rivolle i soldi indietro, per qualche tempo non mi rivolse la parola! Non so se l’artefice, anzi gli artefici, di questa enorme raccolta abbiano avuto simili trascorsi, cui si potrebbe addebitare l’eterogeneità di certi acquisti; di sicuro le opere non sono prese a caso.

Ho visto tante collezioni di Guttuso, ma nessuna che vantasse insieme uno studio per Fuga dall’Etna e un altro per Crocifissione, due pietre miliari del disagio e dell’insofferenza maturati dall’artista nei confronti del fascismo, cui seguirà, nel dopoguerra, la sua adesione al Fronte Nuovo delle Arti. Appartengono a questo periodo anche un piccolo Autoritratto e una Cucitrice: lavori selvaggi in cui il Realismo prende in prestito il linguaggio del Cubismo. Lavori che non avranno un seguito, e sono perciò sintomatici di una tensione tanto maggiore quanto negata nei dipinti successivi, a cominciare dai Pescatori a riposo, all’apparenza didascalici – era d’obbligo immortalare i poveri, dare loro dignità – ma in realtà carichi della medesima furia animale degli occhi dell’artista, che l’Autoritratto sembra celare dietro una maschera africana. E ciò senza citare le opere degli anni cinquanta e sessanta, in cui il distacco dal realismo tout court viene misurato prima dai cromatismi esasperati, poi da un’impaginazione figurale “moderna”, che rimanda anzitutto al cinema e alla pubblicità. La sezione si chiude con Nella stanza donne vanno e vengono, il cui titolo riprende un verso di Eliot: capolavoro interrotto dalla morte dell’artista. Nella sala adiacente un “cinegiornale” girato in super8 per la regia di Salvo Cuccia narra la passione per il collezionismo dei Galvagno e l’intrecciarsi della loro collezione con l’attività aziendale: prima di soggiornare negli immensi saloni di palazzo Sant’Elia, i dipinti sono stati infatti appesi dagli operai sulle pareti dell’Elenka. L’idea, perfettamente riuscita, è mostrare come l’intera collezione sia una di quelle imprese collettive – dall’organizzazione della gita fuoriporta per la pasquetta al cenone di natale – in cui tutti, padroni e servitù, sono coinvolti. Il fatto stesso che il video, sfocato come i video di repertorio, rimandi a un simbolico passato – quando i Galvagno collezionavano soltanto per se stessi e la delizia dei propri dipendenti – suggerisce che a quel tempo seguirà un presente in cui la raccolta verrà intesa come un bene comune e condiviso. Auspicio, quest’ultimo, non così campato in aria: Francesco Galvagno in persona mi ha confidato la sua volontà di costituire una fondazione anche allo scopo di rendere fruibile al grande pubblico una messe di opere che, per quanto concerne questa mostra, ho appena iniziato ad elencare. La rassegna, di fatto, prosegue con gli artisti non figurativi di Forma 1 (Accardi, Consagra e Sanfilippo, per citare solo i principali) e con il Gruppo degli Otto (Afro, Vedova, ecc.), fino all’Informale, con autori italiani e stranieri. Nelle sale successive entrano in scena gli anni ‘60 e ‘70 con l’arte cinetica, la Op art, le tele estroflesse, la Pittura Analitica e le poetiche dell’oggetto. Il grande salone alla fine della lunga enfilade del piano nobile è dedicato al Nouveau Réalisme di Christo, Arman, Cesar, Oppenheim, e si conclude con una grande tela di Hermann Nitsch. Il viaggio giunge al termine? Ma neanche per idea. C’è tempo per un’immersione molto palermitana nel mondo di Bruno Caruso, e di altri pittori figurativi come i freatelli Bueno e Sciltian, o per una stanza dedicata a Piero Guccione – con una rarissima Attesa di Partire – e a Franco Sarnari, da poco scomparso. L’ultimo piano, la cosiddetta Sala delle Capriate, è dedicata all’arte dei nostri tempi, con un occhio di riguardo per la Scuola di Palermo – De Grandi, Di Piazza, Di Marco, Bazan in primis – e altri artisti, specie della Sicilia occidentale, come Loredana Longo, Andrea Cusumano, Andrea Buglisi, Linda Randazzo e Nicola Pucci. Ma non mancano neppure gli occidentali, da Iudice a Roccasalva a La Cognata, sebbene i curatori abbiano deciso di appenderne le opere a quadreria, mescolandole a dipinti di maestri del passato (in modo analogo, in un’altra sala sempre dell’ultimo piano, lavori di artisti italiani sono in compagnia di un mirabolante, quanto apparentemente fuori posto, Peter Halley). Il messaggio è molto chiaro: una collezione come questa non è un regesto esaustivo, né una lezione di storia dell’arte; è, al tempo stesso, un “affare di famiglia” e il “tesoro” del collezionista; un tesoro cui anche noi, bontà sua, possiamo attingere, traendo dal suo forziere “cose nuove e cose antiche”. Da non perdere, se vi trovate a Palermo, neppure in pieno sole.

×