Arco Madrid 2025
Installation view. Bauen und Töten. Fondazione Morra Greco, 2024-2025. Photo by Maurizio Esposito. Courtesy Fondazione Morra Greco

Per un’estetica della de-costruzione: Gregor Schneider alla Fondazione Morra Greco

Fino al 22 febbraio 2025 è aperta al pubblico, presso la Fondazione Morra Greco, la mostra Bauen und Töten: un progetto espositivo antologico che ripercorre le tappe cruciali del lavoro e della ricerca dell’artista tedesco Gregor Schneider.

Perché il bello non è che il principio del tremendo,
che sopportiamo appena, e il bello lo ammiriamo così
perché incurante disdegna di distruggerci.
Ogni angelo è tremendo
Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi (1912-1922)

Il percorso espositivo richiama il celebre intervento alla Biennale di Venezia del 2001, che gli valse il Leone d’Oro. In quell’occasione, Gregor Schneider ha lavorato alla struttura del Padiglione Tedesco smantellandone gli interni, ricostruendolo come un labirinto domestico e sostituendo le lettere del nome del Paese con quelle della sua città natale, Rheydt. La nota autobiografica emerge come un topos che si ripete nella sua pratica artistica e, in un certo senso, si lega all’attitudine decostruttiva che lo contraddistingue. Questo, tra l’altro, consente di porre il suo lavoro in analogia con altri artisti tedeschi di diverse generazioni, come Hans Haacke o Joseph Beuys, che hanno riflettuto sulla distruzione e ricostruzione come metafora della rimozione e rielaborazione dell’identità nazionale. È sufficiente pensare al Padiglione Tedesco della Biennale di Venezia del 1976, in cui Beuys realizzava Tram Stop, opera criticata per la sua complessità, in quanto mescolava storia, autobiografia e memoria in una stratificazione narrativa eterogenea, priva di un’effettiva continuità di senso; o all’edizione del 1993, quando Haacke presentava il medesimo padiglione con il pavimento in marmo divelto, consentendo ai visitatori di inciampare metaforicamente sui detriti di un passato ingombrante.

Bauen und Töten (dal tedesco «costruire e distruggere») si presenta, dunque, come un’occasione per riflettere in modo complessivo sulla pratica di Schneider, attraverso un percorso che si snoda dal piano terra al secondo piano. La mostra offre una selezione eterogenea di opere che spaziano dalle installazioni delle sue celebri stanze a videoproiezioni e sculture, che si inseriscono armoniosamente negli spazi, creando un dialogo con le pitture settecentesche e gli ornamenti originali degli ambienti di Palazzo Caracciolo d’Avellino.

La pratica artistica di Schneider può essere letta, in una prospettiva più ampia, come una riflessione profonda sul significato dell’abitare, esplorando le implicazioni estetiche legate ai processi di costruzione, decostruzione e distruzione che egli attiva. Non è un caso che la sua opera più celebre, Haus u r, nasca da un progetto sviluppato a partire dalla casa – inizialmente sede del suo studio – al numero 12 di Unterheydner Straße a Rheydt. 

Haus u r rappresenta il nucleo attorno cui ruota e si sviluppa l’intera ricerca dell’artista, che raggiunge un’ulteriore complessità nella stratificazione spaziale di Totes Haus u r (2001). Qui la dialettica tra originale e copia – che rimanda alla nozione di doppelgänger – genera un profondo effetto di straniamento, spingendo lo spettatore a una riflessione critica sullo statuto dell’esperienza percettiva e sulla memoria spaziale.

Sebbene possa risultare riduttivo confinare la ricerca di Schneider a una mera riflessione sull’identità nazionale, è proprio in questa direzione che si colloca con particolare pregnanza la serie Goebbels House, un lavoro che si concentra sulla casa natale di Joseph Goebbels, ministro della propaganda nazista, riscoperta dall’artista nel 2001. In particolare, nei video Essen («mangiare») e Schlafen («dormire»), l’artista si appropria dello spazio della casa, documentando gesti quotidiani come il nutrirsi e il dormire. Attraverso la rappresentazione di questa ordinarietà, Schneider sembra ridurre l’orrore storico alla dimensione del quotidiano, invitando il pubblico a riflettere sull’inquietante prossimità tra memoria storica e routine domestica. Queste immagini, per certi versi, richiamano ciò che Hannah Arendt definì, negli anni Sessanta, come la «banalità del male» durante il processo a Otto Adolf Eichmann, enfatizzando la disturbante normalità con cui il male può radicarsi nelle pieghe della vita comune.

E ancora, se l’orrore appare confinato al di fuori della quotidianità rappresentata dall’artista, un ulteriore parallelismo può essere individuato nella recente trasposizione cinematografica del romanzo La zona di interesse (2014) di Martin Amis – autore scomparso nel 2023. In questa narrazione, le atrocità del Reich si configurano come un inquietante sfondo rispetto alla idilliaca rappresentazione della vita familiare nella casa di Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz per oltre tre anni. In entrambi i casi, ciò che affiora è un rimosso, un elemento latente e ingombrante che, nel suo dirompente straniamento, costringe lo spettatore a confrontarsi con la perturbante coesistenza di normalità e orrore. 

La permanenza nell’ex casa di Goebbels da parte di Schneider culmina nella sua demolizione, come documentato nei video Geburtshaus Goebbels (2014). Tuttavia, prima della sua demolizione, l’artista ha effettuato una scansione dell’edificio, preservandone le planimetrie su una chiavetta USB, la quale è esposta lungo lo stesso percorso di visita. Se da un lato si manifesta un impulso verso la distruzione, dall’altro persiste l’impellente necessità di confrontarsi con la memoria, mantenendola viva e accessibile, in un atto che allo stesso tempo ne evoca l’assenza e ne preserva la presenza.

Proseguendo, un’altra tappa fondamentale nel percorso espositivo è rappresentato dalla stanza High Security Cell n.4 (2005), installata al primo piano della Fondazione. Questa cella – che nella sua asetticità richiama vagamente gli spazi minimalisti del modello white cube – ricostruisce l’interno delle prigioni di Guantanamo, basandosi su documenti reperiti online. L’austerità dello spazio e il suo isolamento evocano l’inaccessibilità fisica e simbolica di luoghi di potere segreto. Schneider coinvolge lo spettatore in un’esperienza estetica straniante che destabilizza le coordinate spazio-temporali, replicando l’angoscia, la claustrofobia dell’isolamento e il controllo totale. In quest’opera, come in molte altre della sua ricerca, la comprensione non scaturisce dalla ricerca “filologica” di un significato esplicito, ma dall’esperienza estetica dello spazio ricostruito. Il concetto di aistēsis, «percezione» dal greco, diventa centrale: il coinvolgimento dell’individuo non avviene solo per via intellettuale, ma anche sensoriale, fisico ed emotivo. L’esperienza di un luogo si definisce attraverso la collocazione dello spettatore rispetto all’oggetto, in una relazione che non riguarda solo l’interpretazione razionale, ma la partecipazione corporea e la risposta emotiva immediata. Questo processo genera una riflessione che non si limita alla realtà storica, ma invita a interrogarsi più profondamente sul posizionamento dell’individuo rispetto a ciò che lo circonda, mettendo in discussione il ruolo del soggetto nel definire e interpretare il contesto in cui è immerso. 

Al secondo piano è esposta Kinderzimmer («stanza dei bambini», 2008), un ambiente che, inizialmente, si presenta con caratteristiche familiari: soffitto rosa e pavimenti in linoleum. Tuttavia, dietro questa apparenza di normalità, si cela un’atmosfera inquietante. Nonostante la luce calda e soffusa e il colore rosa delle pareti possano evocare una sensazione di accoglienza, lo spazio risulta spoglio e privo di elementi decorativi, con al centro un semplice materasso. Questo elemento richiama, a tratti, lo spazio desolato analizzato precedentemente da Schneider, situato al piano inferiore. Realizzata mediante l’impiego di materiali recuperati da abitazioni abbandonate nei dintorni di Rheydt, la stanza innesca una marcata dissonanza tra l’aspettativa di un ambiente familiare e la sua effettiva manifestazione, caratterizzata da una vacuità disarmante e alienante. Oltre al materasso, un altro elemento rilevante è la presenza di uno specchio che, inizialmente, si presenta come una parte integrante dell’ambiente. Tuttavia, una volta usciti dalla stanza, si rivela essere uno specchio unidirezionale. Questo dettaglio intensifica il senso di controllo e sorveglianza, alludendo a un meccanismo di oppressione che, pur collocandosi in un contesto domestico e familiare, non perde la sua funzione invasiva. questa dinamica amplifica l’idea di un osservatore nascosto e di una visione distorta della realtà, suggerendo che l’esperienza dell’intimità può essere attraversata da forze di controllo, anche in spazi che tradizionalmente si considerano privati e protetti. In tal senso il confronto tra High Security Cell e Kinderzimmer non è dunque solo una questione di collocazione spaziale, ma diventa una riflessione concettuale sulla natura del controllo e del potere. Le due installazioni, sebbene situate su piani separati, condividono una medesima tensione tra l’apparenza di uno spazio e la realtà di un meccanismo di sorveglianza e oppressione che lo pervade. Schneider invita lo spettatore a confrontarsi con le contraddizioni e le ambiguità della propria esperienza: la percezione di uno spazio apparentemente innocuo si scontra con la consapevolezza di una sorveglianza invisibile ma pervasiva. Il risultato è una riflessione intrinsecamente politica, dalla matrice eminentemente foucaultiana, sull’inalienabilità del controllo e sulla sua capacità di attraversare tutte le dimensioni della vita quotidiana, da quella pubblica a quella intima, interrogando il ruolo e la posizione dell’individuo all’interno di una realtà che può rivelarsi tanto domestica quanto totalitaria.

La mostra si conclude con le fotografie di Black Dead End (2006), opera che segnò l’inaugurazione della Fondazione quasi vent’anni fa. Un lungo tunnel buio conduceva i visitatori in un viaggio fisico e mentale verso un vicolo cieco, obbligandoli a fare ritorno verso la luce esterna, dando vita a un’esperienza che potrebbe richiamare il concetto di rinascita.

Detail. Kinderzimmer. Gregor Schneider, 2008. Bauen und Töten. Fondazione Morra Greco, 2024-2025. Photo by Maurizio Esposito. Courtesy Fondazione Morra Greco

In tutta la sua produzione, Gregor Schneider affronta tematiche politiche senza rivendicare un’agenda esplicita. Nell’intervista con la curatrice della Fondazione, Giulia Pollicita, l’artista afferma: «non mi definirei un artista politico. Tutto ha implicazioni politiche, ma l’arte non ha mai promosso un’agenda politica in modo efficace». Tuttavia, ciò su cui è interessante riflettere, in conclusione di questo scritto, riguarda la politicità che emerge come dimensione inscindibile da quella estetica. Se, in accordo con Jacques Rancière, si intende l’estetica come la maniera in cui si ripartisce il tessuto sensibile del sentire sociale, è fondamentale sottolineare che, pur avendo la ricerca di Schneider l’obiettivo di far accedere ed esperire il tabù, essa non si riduce a un semplice disvelamento dialettico. Al contrario, l’artista costruisce e de-costruisce spazi e immagini che interrogano lo spettatore, aprendo nuove possibilità di lettura e comprensione. Si prenda in analisi il caso della serie di sculture Golden Lion (2001-13), attraverso cui Schneider riflette su uno dei riconoscimenti più prestigiosi nell’arte contemporanea. Le nove sculture, realizzate con materiali diversificati come stagno, granito e pittura, diventano il mezzo per interrogare la natura arbitraria e contingente del valore artistico. Sulla scorta delle riflessioni di Maurizio Calvesi, espresse nel suo celebre intervento intitolato Iconologia come icono-logica (1978), ci si può accostare a questa serie attraverso un’analisi dei processi produttivi, che indicano come questi tendano in questo caso a evidenziare i meccanismi attraverso cui il valore artistico si configura come un valore sociale, dipendente dal contesto istituzionale, culturale ed economico che lo sostiene. Calvesi sosteneva infatti che l’analisi dell’oggetto artistico non dovrebbe concentrarsi solo sull’opera come tale, ma anche sui processi sociali che determinano e costruiscono il suo valore. In questo caso, la moltiplicazione del Leone d’Oro nelle sculture di Schneider suggerisce, metaforicamente, una frammentazione del valore stesso. Le variazioni nella posizione e nella scelta dei materiali vanno a destabilizzare l’idea di un simbolo assoluto e definitivo, enfatizzando invece la relatività e il carattere contingente di un valore che viene socialmente e arbitrariamente attribuito. Le sculture di Schneider, dunque, non si limitano a una critica superficiale o a una satira del premio ricevuto, ma agiscono come dispositivi critici che interrogano lo statuto del riconoscimento sociale, mettendo in evidenza i rapporti di potere e le dinamiche simboliche alla base del conferimento di un premio. In questo modo, Golden Lion si inserisce in un discorso più ampio che riguarda la costruzione e la distruzione, la creazione e la de-costruzione del valore artistico da una prospettiva squisitamente sociologica.

In sostanza, sebbene l’arte non possa rivendicare la capacità di affrontare frontalmente il discorso meramente politico, la politica dell’arte, dall’altro canto, contribuisce comunque a ridefinire ciò che è visibile e pensabile, modificando la percezione e fornendo in potenza gli strumenti per la comprensione della realtà.

Alessio Esposito

Alessio Esposito (Napoli 1999) è dottorando in Scienze del Patrimonio Culturale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. È cultore della materia per il corso di Storia e Metodologia della Critica d’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Scrive per varie riviste di settore.

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