Nathalie Heinich

«Paradigma» arte?

Il paradigma dell’arte contemporanea. Strutture di una rivoluzione artistica, di Nathalie Heinich (Autore) Ximena Rodriguez Bradford (Traduttore), edizioni Johan & Levi, 2022. In un articolo del 1999, Nathalie Heinich proponeva di considerare «l’arte contemporanea come un genere dell’arte», con precise specificità e distinto tanto dall’arte moderna quanto dall’arte classica.

La nuova immagine dell’arte contemporanea non più come meccanismo perfetto, regolato da leggi semplici e universali, ma semmai come motore che procede per provocazioni, piccoli spostamenti, adattamenti, superamenti imprevisti; le “nuove concezioni” e i “nuovi modelli” trasparenti cui è approdata la riflessione artistica e lo strutturalismo o l’analisi strutturale contemporanea, hanno implicazioni – lo abbiamo letto né Il paradigma dell’arte contemporanea (strutture di una rivoluzione artistica), Johan & Levi 2022 – che non riguardano soltanto la classe scientifica ed intellettuale, i ricercatori, ma tutti noi: il nostro modo di concepire il rapporto col mondo, con la natura, con l’ambiente.

Per cogliere il senso profondo del «meta-pamphlet», occorre mettere in relazione le due espressioni che ne compongono il titolo: paradigma e arte contemporanea, strutture e rivoluzioni artistiche. Nel loro rapporto, infatti, è implicita la domanda: in che modo e per quali vie la ricerca sull’arte contemporanea (o sulla distanza e l’imparzialità dall’arte contemporanea, come dichiara la Nathalie Heinich) può aiutarci ad affrontare il problema cruciale di come epistemologizzare l’arte (contemporanea) e di come sostituire l’illusione del terremoto e il regime di singolarità, può aprire una sorta di “relativismo sociologico” (in una sola parola il nuovo narcisismo). Ormai la ferita che la società umana, lo sviluppo tecnologico, la rivoluzione storica delle avanguardie, l’azzardo manierista delle neo avanguardie, hanno inferto alla vita dell’attualità artistica appaiono così profonde da risultare quasi insanabili. E le forze che inducono nel processo artistico questo comportamento distruttivo sembrano così inestricabilmente legate alla più intima natura del fondamento espressivo, che nessuna aggiustamento pare più possibile, nessuna scelta semplicemente razionalizzatrice (o viceversa irrazionalizzatrice) sembra adeguata a salvare il salvabile, a interrompere la spirale.

È indispensabile una vera e propria svolta etica e culturale, che imponga la rinuncia e l’abbandono dei nostri pruriti radicali di possesso, di dominio, di pianificazione, di assolutizzazione del gusto, ma anche il rifiuto di tutte le nostre pochezze intellettuali e morali. Ma in che consiste questa svolta? E che cosa ci ha veramente chiesto questo meta/panphlet di Nathalie Heinich? Anche il paradigma dell’arte ha fatto l’esperienza del disincanto, del dubbio, della domanda; ci ha insegnato a rinunciare al mito di una certezza assoluta, di una conoscenza universale, definitiva, e a tollerare invece l’ambiguità, l’idea di un margine di incertezza e di incompletezza del nostro imparare l’arte; accettando concetti come quelli di «disordine», «rischio», «catastrofe», “irreversibilità della costruzione della forma”, «entropia», “relatività di bellezza e bruttezza”, “persona contro personalità artistica”, “eccellenza e visibilità”, “identità e disidentità”, “trasgressione e normalizzazione”, “indifferenza e interrogativi”, “mediatori e protagonisti”, “autori e anonimato”, “influenza ed andamento dell’universo che ci sta di fronte”!

La tradizione culturale occidentale ci ha abituato da secoli a pensare a ciò che è “finito e limitato” come a qualcosa di «imperfetto», come a un “valore/disvalore”. Ci ha insegnato a privilegiare come valori positivi ciò che è infinito, illimitato e irraggiungibile: lo spirito dell’arte, la coscienza del linguaggio artistico, il progresso della tecnica espressiva, lo sviluppo dei campi di coltivazione significante, l’accumulazione del sapere e del potere al posto di altre, strane, privazioni. Basti pensare al paradigma velleitario individuato da Nathalie Heinich. Un «infinito trasgressivo» che ammette di fronte a sé un «finito parimenti reale», dotato della stessa dignità (leggi strategia) di sussistenza e indipendenza, sarebbe soltanto un particolare accanto a un altro particolare: dunque, anch’esso finito! La verità – per la sociologia con i baffi – è che solo l’infinito provocatorio, quello che sposta un attimo di rivoluzione dopo un altro attimo di rivoluzione, è reale; solo l’infinito «protagonismo singolaristico» è sapienza affermativa. Il finito, al contrario, è puramente ideale di bellezza, genere tra i generi sempre superato. La natura dell’ideale e del pragmatico – ciò che può morire, che è privo di coscienza, che è finito, limitato imperfetto – esiste solo come strumento, tappa, ostacolo provvidenziale, affinché l’infinito processo della storia, della coscienza artistica, dello spirito possa superare questo limite oggettivo, riaffermando la propria realtà e unicità. In un articolo del 1999, Nathalie Heinich proponeva di considerare «l’arte contemporanea come un genere dell’arte», con precise specificità e distinto tanto dall’arte moderna quanto dall’arte classica. Quindici anni dopo, durante la querelle dei prezzi, della crisi, della spettacolarizzazione delle proposte artistiche, la domanda sulla «genia di genere» non si è ancora rilassata! Ma cos’è un genere artistico, oppure tutta l’arte come genere? L’opera, salvo casi eccezionali, non vive isolata nella letteratura ma, proprio per la sua funzione segnica, appartiene con altri segni a un insieme, cioè a un genere artistico, il quale perciò si configura come il luogo dove un’opera entra in una complessa rete di relazioni con altre opere. Resta il fatto che, i generi artistici sono per natura conservatori, in quanto tendono a mantenere e perpetuare una situazione tematico-linguistica, per così dire, esemplare e astorica, talora topica.

Quando si attuano dei cambiamenti più o meno nell’assetto dell’arte, i generi artistici sopravvivono se sono capaci di cambiare funzione nell’ambito della nuova realtà artistica: si pensi alla transcodificazione del motivo della nobiltà nella pittura delle origini, della pittura manierista. La codificazione del genere implica una certa programmazione comune alle opere appartenenti al genere stesso. Ciò significa che un fruitore di arte contemporanea si predispone alla fruizione dell’opera con un certo modello di funzionamento dell’opera, con certi schemi generali, in una parola con una competenza artistica che gli deriva dall’assimilazione delle regole del gioco, cioè del genere-programma. È evidente che l’opera creativa, pur inserendosi in un certo genere, determinerà scarti e transcodificazioni rilevanti ma funzionali alla sua stessa esistenza di apparato (assoluto), acquisendo una informatività estetica o, se si vuole, polisemica, una connotatività, un valore che riguarda tutta l’identità del significante come identità dell’arte. Stando all’esempio della “sociologia con i baffi”: il genere subgenere diviene il genere sui generis. Se l’arte contemporanea viene considerata una categoria retorica, l’aspetto più vistoso della sua individualità sarà soprattutto la marca di onnipotenza della sua stessa provocazione, del suo stesso imperialismo: ad esempio, certi stilemi o stereotipi o luoghi comuni espressivi, che di per sé agiscono come spie informative dell’immagine codificata, si impongono come genere totalizzante (bella roba).

Luigi Gui e Robert Rauschenberg, leone d’oro Biennale ’64.

Più che un genere artistico – azzarda la Nathalie Heinich – l’arte contemporanea (o quella che per moda chiamiamo arte contemporanea, infatti nelle accademie, nei DAMS troviamo i dipartimenti di Stile e Storia dell’arte e del costume) ha inaugurato addirittura un nuovo paradigma. Naturalmente, nel libro della sociologa francese, si avverte un continuo riferimento al fisico ed epistemologo di Cincinnati Thomas Kuhn, ma poi non si capisce bene in che senso parla di paradigma e cosa intende per nozione di paradigma. Nella linguistica moderna il paradigma è l’insieme di unità che intrattengono fra loro un rapporto virtuale di sostituibilità. Questi rapporti sono in absentia, cioè potenziali, mentre quelli sintagmatici sono in presentia. Roman Jakobson, per esempio, ha studiato i rapporti sui due assi del linguaggio nell’ambito della poetica, indicando i processi metaforici (paradigmatici) e metonimici (sintagmatici) ad essi collegati. Ma siamo sicuri che queste categorie sono rapportabili allo scarno mondo simbolico della provocazione o della liquidità artistica contemporanea? Siamo sicuri che se per la letteratura il paradigma è un modello, può esserlo anche per il mondo simbolico e allegorico delle arti visive, fino al punto da trasformarsi in un unico genere? Meditate gente, meditate! Secondo l’accezione che l’epistemologo Thomas Kuhn ha dato a questo termine, ogni nuovo paradigma si impone sul precedente al costo di una violenta rottura e di una ridefinizione delle norme che regolano un’attività umana. Secondo la Nathalie Heinich, nel campo delle attuali pratiche artistiche, il terremoto che ha investito il sistema di valori che determinano «cosa sia legittimo far passare per arte», è ancora in grado di funzionare come propulsore sui generis o sub generi? Secondo la “scienza sociale con i baffi”, all’ordine del giorno non è più la bellezza nell’espressione dell’interiorità – come esigevano i paradigmi precedenti -, ma la tendenza a «trasgredire i limiti» «spostando l’orizzonte, del possibile, sempre un po’ più in là». Seguendo il discorso della studiosa francese, che nel 2021 aveva lanciato altra provocazione con un volumetto monografico su Harald Szeemann, oggi a essere in vigore, è il regime di singolarità che apologizza, per partito preso e sui generis, tutto ciò che è innovativo. Per assurdo, la genealogia dell’innovativo e del paradigmatico (dell’attuale) sarebbe storicamente contenuto nella premiazione di Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964! La trentaduesima edizione della Biennale di Venezia fu caratterizzata dallo “sbarco” della cultura artistica americana in quella Post-informale italiana. Sebbene anche l’Italia avesse trovato in Piero Manzoni l’esponente del Neo-Dada, questo non aveva certamente sopraggiunto agli esiti e le mescolanze Pop di Rauschenberg, che tanto furono gradite al punto da battezzarlo vincitore dell’evento artistico. Per il pittore, iniziatore della Pop Art americana, il successo riscosso nell’ambito della kermesse veneziana non fu però privo di polemiche. Tra le critiche mosse, quella legata all’esiguo numero di opere presentate da Rauschenberg nel padiglione statunitense: “soltanto” quattro, considerate da più parti poche per conquistare il Leone. La vicenda animò il dibattito artistico degli anni Sessanta, un decennio convulso anche sul fronte sociopolitico, nel corso del quale furono numerose le critiche mosse alla stessa Biennale di Venezia. Nathalie Heinich, partendo dalla genealogia delle provocazioni neo-avanguardistiche traccia i risultati degli effetti e delle reazioni del mondo dell’arte, sottolineando come dal ‘64 in poi sono mutati i «criteri di produzione delle opere», la «circolazione», lo «statuto dell’artista», il «ruolo degli intermediari sistemici» e la «politica delle istituzioni». Da quel momento storico, Nathalie Heinich rivendica un punto esterno dal sistema, presupponendo che «qualcuno è dentro» e «qualcun altro magari è ai margini», ma contemporaneamente ricordando perdite del centro, perdite delle mediazioni e perdite dei marginalismi di fondo. Secondo Nathalie Heinich, il problema della mutazione sta nel cambio di questo fantomatico paradigma – che deve comprendere, al di là di un senso «a favore» o di un «contro-senso», una metodologia di conoscenza dell’inconoscibile. La fantasia. invece, di permeare e di trasformare l’oggetto dell’opera, trasforma me stesso, l’Uguale e l’identità del nome. L’artista, in quanto portavoce di un nome del potere, del totalmente se stesso come persona e come operatore, presuppone un auto-trascendenza. Chi ha vocazione all’arte non può essere dimentico di sé, ma è sempre presente alla sua attualità e all’attualità spettacolare di se stesso. Vale la pena citare la constatazione sulla crisi di Michel Butor di qualche anno fa: “Da dieci o vent’anni non succede quasi più niente in ambito letterario. Esiste una marea di pubblicazioni, ma c’è una stagnazione spirituale. La causa di ciò è una crisi di comunicazione. I nuovi mezzi di comunicazione sono straordinari, ma provocano un immenso rumore” (inter. del Die Zeit del 12/072012). La “sociologia con i baffi” ha scambiato il cattivo uso dei mezzi di comunicazione, con l’accettazione della società dello spettacolo e con la proposta di sostituzione della provocazione con la medialità!

Ma non è sempre stato così. Anzi all’origine della nostra civiltà, presso i greci, «limite» e «finito» erano sinonimi di equilibrio, di misura. Il cosmo dell’arte – la dimora del fare artistico – era perfetta, proprio perché finita. L’infinito, invece, era assimilato a qualcosa di informe e di caotico: rinviava alla fusione con la natura e con l’essere, all’abbandono e al flusso della vita. Tutt’altro dall’infinito percorso lineare del progresso artistico e dello sviluppo; dall’infinita accumulazione di coscienza e di storia. Ogni costruzione artistica era tesa a mantenere un equilibrio tra la ragione e ciò che le sfugge, tra il limite e l’illimitato; era spinta a convivere con la ragione e con il suo contrario, col pericolo che rinasce incessantemente ogni volta che lo spazio del dubbio artistico e della domanda viene cancellata da una nuova pittura o da una nuova scultura, ogni volta che la consapevolezza del limite viene rimossa.

Alla luce del dibattito epistemologico che abbiamo qui delineato, questi punti potrebbero essere tradotti e processati ai fini di un contributo delle scienze artistiche della complessità, in una domanda sui fondamenti, sugli zoccoli epistemologici che propone Nathalie Heinich. Approfondire il grado di difficoltà del nodo di Thomas Kuhn potrebbe voler dire che ciò che conta non è l’applicazione di un piano epistemologico, che risale a due anni prima della provocazione di Robert Rauschenberg a Venezia, ma la recente efficacia di quello stesso elemento mutuato dalla critica e crescita della conoscenza. Cos’è oggi un paradigma e a cosa serve veramente? Cos’è oggi un commutatore linguistico? Cos’è uno schema di flessione? Cos’è uno schema di accentuazione nell’arte contemporanea? A partire dalla critica al falsificazionismo di K. Popper e alle teorie storico-epistemologiche dell’empirismo logico, cosa può sostenere veramente Kuhn? È possibile che lo sviluppo scientifico non deve essere interpretato come un continuo e irreversibile accrescersi dell’ambito della conoscenza, né come un progresso evolutivo disinteressato? La sociologia dell’arte con i baffi ha capito che, nella Stuttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn si oppone alla prospettiva teleologica? Cosa c’entra l’arte con la teleologia? Il nuovo paradigma che emerge (come nuova fase di normalità) è scelto attraverso un atto di fede, sulle sue capacità future di risolvere i problemi che hanno determinato la crisi del vecchio paradigma. Kuhn critica inoltre l’idea dell’esistenza di principi che non dipendano dalla precedente accettazione di una particolare struttura paradigmatica ([1962], Einaudi, Torino, 1969, poi: SRS).

L’arte può affermarsi come un modello di declinazione dell’arte stessa? Seguendo il discorso di Thomas Kuhn del ‘62, l’immagine o le immagini attuali della scienza non sono ricavate dalla storia, ma, anche da parte degli stessi scienziati dallo studio dei risultati scientifici definitivi, quali si trovano registrati nei classici della scienza e più recentemente nei manuali scientifici (SRS, p.19). L’immagine corrente della scienza è quella di una costellazione di fatti, teorie e metodi che gli scienziati si sono sforzati e si sforzano di approfondire, di arricchire e di depurare contribuendo così alla tecnica e alla conoscenza scientifica. Kuhn propone subito le categorie che userà nel corso della sua ricerca: scienza normale, manuali (classici), paradigma. Sono, dunque, paradigmi l’astronomia tolemaica (o copernicana), la dinamica aristotelica (o newtoniana), l’ottica corpuscolare (o ondulatoria), eccetera. Kuhn può ora meglio definire la natura della scienza normale e lo fa innanzitutto chiarendo meglio che cosa è, per lui, il paradigma e perché usa proprio questa parola. Del significato di modello e di schema, paradigma sta ad indicare (per esempio in grammatica) lo schema da usare nel coniugare altri verbi, e comunque la sua funzione consiste nel permettere la riproduzione di esempi. Nella scienza, invece, un paradigma è raramente uno strumento di riproduzione, ma è piuttosto («analogamente ad un verdetto giuridico accettato nel diritto comune») lo strumento per una ulteriore articolazione e determinazione sotto nuove o più restrittive condizioni. Kuhn usa questo termine («lacking a better world»), per esprimere un concetto nuovo e difficile e di qui la necessità di riformulare continuamente, in una serie di approssimazioni sempre maggiori, il significato in cui usa la parola. Dunque: «i paradigmi scientifici raggiungono la loro posizione perché riescono meglio dei loro competitori a risolvere alcuni problemi che il gruppo degli specialisti ha riconosciuto come urgenti»; ma questo non significa che riescono a risolverli tutti, e neppure una parte di essi. Ricorda Thomas Kuhn «il successo di un paradigma è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo (…) E la scienza normale consiste nella realizzazione di quella promessa» (SRS, p. 44). Quindi, mentre l’accettazione di un paradigma da parte di una comunità di scienziati è quindi soltanto il primo atto della ricerca (e da quel momento comincia il «mop-up work», il lavoro di ripulitura col: «to force nature into the preformed and relativity inflexible box that the paradigm supplies», per l’arte cos’è? Questa modalità di parallelismi presenta grandi pericoli, ha toni reazionari, come molti sociologi hanno sottolineato contro Nathalie Heinich, e io con loro. Anche se l’invettiva, dell’introduzione al libro della sociologa, contro Pierre Bourdieu ha i suoi perché: diciamo che il sociologo (o tuttologo) di Denguin ha avuto modo di sbagliarsi su Hans Haacke: “Anche se sei stato un grande scopritore dell’habitus in cui si trova inserito soggetto e oggetto del simbolico, questo non vuol dire che hai visto bene sull’artista più snob dell’arte concettuale”. Quello che Bourdieu ha riconosciuto in Haacke forse era lì da leggere nella maturità di Alexander Kluge, lo dimostra Die Herzlichkeit der Vernunf (2017).

C’è una preoccupazione legittima: in molte delle celebrazioni del personalismo, i reazionari erano molto interessati al culto dell’arte come osannazione della personalità. L’arte relazionale è un’arte di destra, di estrema destra. Il brave new world relazionale e provocatorio è, in definitiva, il punto d’arrivo logico della visione del mondo meccanicistico e del lavoro politico-culturale meccanico.

Come conseguenza di tutto questo noi oggi viviamo in un’epoca estremamente complessa dove l’arte non si può risolvere nell’azzeramento di «bellezza», «interiorità» e quant’altro, per sedimentare il paradigma della propensione a rompere! Cos’è la violazione di un dogma? Un nuovo «infrazionismo» sta lottando per venire alla luce e questa lotta produce forme molto curiose di sedizione! Vorrei solo accennare a due di queste tendenze. La prima è che – come ha sottolineato la stessa Nathalie Heinich – l’altra faccia dell’opera è la persona, ma non intesa come personalismo, ma come ipermerce, un universo al suo massimo grado di condensazione, costituito da eventi, personaggi, oggetti di consumo a cui viene attribuito un particolare significato artistico-estetico. In alcune merci, è infatti racchiusa una forza comunicativa, una potenza simbolica che va ben oltre il loro semplice contenuto utilitario. Dalla coca-cola alla Harley Davidson, dalle opere di Edward Hopper alla trilogia di Star wars la merce ha fatto il suo ingresso nella sfera personale, nel sistema delle singolarità (più che regime) e seguendo percorsi artistici spesso imprevedibili, viene restituita al mondo completamente trasfigurata, detiene uno stadio irreale del proprio valore. Davanti alle persone-opera di culto alle persone nell’opera di culto crollano parametri come quello di valore di scambio dell’opera, fino a poco tempo fa ritenuti indispensabili per valutare il mondo dei consumi, e si fanno avanti le multinazionali della performance, del comportamento.

Una moto, così come un’opera non sarà più allora soltanto un mezzo di trasporto, un particolare orologio non servirà semplicemente a segnare il tempo, ma a sottolineare la forza di un dispositivo-persona. L’arte contemporanea non è quindi solo un’ideologia, ma anche una mitologia della persona. Il termine meta-opera, meta-persona e meta-politica sono, quindi, appropriati per discutere della nuova visione artistica del mondo degli ultimi anni. Quindi, secondo la proposta di Nathalie Heinich, le accademie di Belle Arti potremmo chiamarle: «accademie di belle persone o semplicemente … accademie di persone»? Tipicamente, questa attività sociologica si identifica con la leadership di un unico paradigma di genere e i seguaci sono costretti ad essere fanatici che hanno trovato la salvezza nella loro nuova setta e hanno quindi rinunciato a qualsiasi riflessione critica, considerandosi nello stesso tempo come «culto del paradigma» e «paradigma personale di culto»! La Nathalie Heinich sostiene che un dottorando, da lei seguito confondeva arte moderna e arte contemporanea, ma lei stessa confonde manierismo storico e manierismo attuale, l’amor proprio con l’amor profano, visione contingente e paradigma strutturale, bolla e sistema, oggetto e soggetto, le mediazioni con i medialismi. La persona cult (dell’arte) non si offre solo ai sensi, ma anche all’attività interpretativa. La persona-arte suscitata dalla merce nei suoi fruitori è il complementare di un pensiero-interpretazione, che l’osservatore – soprattutto il sociologo o l’antropologo – sviluppa a proposito della merce, prendendola in considerazione come il più tipico prodotto della nostra cultura. In effetti, l’artista cult ha due pubblici, uno di adepti, più o meno intransigenti e interni al suo sistema di valore, l’altro di spettatori collezionisti: uno sul palcoscenico l’altro in platea. 

La seconda tendenza a cui desidero accennare è il sorgere di una letteratura sulla falsificazione del nuovo modello. Stiamo assistendo ad un tentativo deliberato e infamante di costruire una nuova modalità di narrazione della piattaforma provocatoria. La nuova era è piena di teoria dei sistemi provocatori, ologrammi di bugie, campi morfogenetici di ricerche e fuffagini, che mettono insieme l’istigazione all’integrazione con la società dello spettacolo. Siamo sollecitati ad avere una visione cibernetica della provocazione e degli spostamenti minimi, a considerare la vita e la natura dell’arte come flusso auto-organizzato di informazioni, senza il passaggio dalla comunicazione alla medialità! Molto di tutto ciò è urgentemente scettico, ma la domanda che dovrebbe porsi Nathalie Heinich è questa: si tratta veramente di una rottura rispetto all’arte modernista? Si considera veramente una provocazione senza capire il processo di medializzazione? La distanza tra Picasso, Malevich, Braque, Majakovskij, Schwitters, Duchamp e la neoavanguardia rivisitata dalla post-avanguardia, è davvero così strutturale? Non ne sono tanto sicuro. In entrambi i casi, la metamedialità, la visione del mondo, è disincarnata: la natura dell’arte rimane una nuvola di astrazione. La vita dell’arte vista come sistema frammentato dalle provocazioni non è la vita effettivamente vissuta. La “nuova reazionarietà” del mondo dell’arte è ancora basata, come quella borghese, su una strategia di tipo meccanico. Nel caso del vecchio sistema dell’arte si trattava di un orologio dello spettacolo; in quello della nuova era di un computatore di strategie usato male, un’ape al servizio del capitale. In ultima analisi, stiamo parlando ancora della natura dell’arte come una macchina scenica della provocazione. Non fa differenza che questa macchina pubblicitaria sia più sofisticata dell’orologio. Mi pare che si stia costituendo un nuovo club, nel quale i nomi di Nathalie Heinich, Nicolas Bourriaud ed altri sostituiranno quelli del potere precedente. Direi che nella maggior parte dei casi non era loro intenzione che accadesse questo; in generale la mia impressione è che la maggior parte degli intellettuali funzionalisti e organici al capitale, che propongono le nuove intuizioni, non hanno interesse a coltivare verifiche culturali, o a costituirsi in una nuova élite intellettuale, ma si preoccupano di azzerare la forza di determinazione del mediale. Tuttavia, pare che ciò stia avvenendo e, se avviene davvero, la domanda è: e allora? Cosa abbiamo realmente ottenuto sostituendo un’élite con un’altra? Forse la sfida vera è riuscire ad andare al di là della provocazione, al di là dei gruppi ristretti e del rifiuto della comunicazione vera. A me sembra che possiamo vincere il gioco dell’arte, solo concentrando l’attenzione sulla struttura dei nuovi linguaggi. Dobbiamo, in qualche modo, andare al di là del paradigma: questa sarebbe vera metà-arte (con almeno metà dell’arte), nel senso della pragmatica della comunicazione, discesa ai fondamenti stessi del mediale.

Walter Benjamin, in una lettera a un amico coniò l’espressione «capacità critica mediale», con la quale intendeva la capacità di tollerare l’ambiguità, di vivere in uno spazio di ragionamento senza cercare continuamente e freneticamente risposte provocatorie o spiegazioni che stimolano l’appetito pubblicitario. Installare il nuovo paradigma critico al posto del vecchio, inchiodando un nuovo sistema di sospetti nei confronti del capitale artistico, significa sottrarsi al sostituzionismo merceologico. Non lo abbiamo fatto in passato, perché non farlo ora? Mi sembra che oggi l’arte abbia un’opportunità veramente unica, quella di guardare la «natura del paradigma stesso della natura», e questa è una svolta molto più stimolante da fare. La tendenza a trasgredire i limiti di cosa, se i limiti sono totalmente saltati? Cosa si «può spostare, veramente, più in là», se non gli scatoloni della merce? Non riesco a non avere la sensazione che – se non riusciamo a fare questo tra i mondi, ad esaminare la natura stessa del paradigma della liberazione, la natura del nostro disperato bisogno di libertà, di spiegazioni e visioni del mondo espressivo – perderemo qualcosa di molto importante per il nostro sviluppo culturale.