Il primo impulso è cercare la pelle appesa con l’autoritratto di Michelangelo. Che però non c’è. La grande tela davanti a noi, proprio all’ingresso della sede romana della Fondazione Filiberto e Bianca Menna, è un impasto di cinabro cielo rinascimentale, romano e tuttavia rumeno, contemporaneo e transfrontaliero, e nel Giudizio Universale che sembra richiamare i corpi galleggiano nelle loro carni, aranciate o bronzee, rese con poche pennellate di sapienza tecnica misurata e matura.
Suspensions (Réflexions sur le Jugement Dernier), l’olio su tela di Florin Ștefan, illumina e idealmente apre Eretica e retorica, la mostra curata da Antonello Tolve che sembra fatta apposta per riconciliarci tutti con l’idea stessa di pittura, quale mezzo pienamente compatibile con l’arte contemporanea.
Ștefan del resto dirige la facoltà di arte dell’Università di Cluj-Napoca, centro indiscusso della scuola pittorica rumena. La padronanza della tecnica risalta quando ci si avvicini alle pennellate, ma il secondo sguardo, sempre il più disincantato, ci farà scoprire la poesia che va ben oltre la tradizione e si fa divoratrice di ogni catalogazione temporale: la delicata cronofagia di cui parla Antonello Tolve nel testo introduttivo alla mostra. Nelle scene ritratte da Florin Ștefan vive infatti l’incertezza fluida del nostro presente.
La malinconia soffusa nei grigi e nelle ocre – scopriremo presto che Suspensions è un’eccezione azzurra in un cromatismo più spento – racconta sottovoce della difficoltà di enucleare nel magma ontologico contorni certi: la modella sorpresa due volte nel disordine della camera da letto nella duplice versione del Principe de plaisir e de réaliténon cerca tanto di nascondere la sua nudità con il più classico dei gesti di pudore, quello che dalle Afroditi greche in poi attraversa la storia dell’arte occidentale: il suo è piuttosto un interrogativo, sospeso tra le labbra socchiuse, su quel che resta dell’umanità nel viluppo degli eventi, qui metaforizzato dalle lenzuola arrotolate alla bell’e meglio. Una domanda eretica e retorica, perché tocca i massimi sistemi, risuona come uno scandalo evangelico e lo fa sapendo che una risposta non c’è.



Così in Lamentatio (omaggio a Mantegna) la carne densa del nudo femminile schiacciato da una prospettiva analoga a quella del Cristo morto cinquecentesco nasconde tra le lenzuola (le stesse?) una riflessione profonda e desolata sull’inevitabile provvisorietà di tutto: non c’è qui perciò tanto una sensualità goduta quanto un memento moriche esplode infatti più avanti nella magnifica Ofelia, galleggiante come una gigantesca ninfea di Monet su di un vassoio di acque sapientemente scolpite, più che dipinte, a tagli di spatola.
È sempre un omaggio a Mantegna che accompagna Inversione dello sguardo, nel quale l’apparente volgare banalità del selfie che tante volte abbiamo visto impazzare nelle reti sociali – le gambe distese e i piedi del fotografante in vacanza, spaparanzato su una spiaggia o a bordo di una piscina – diventa invece riflessione sulla permanenza dello sguardo nell’esperienza esistenziale: dall’esterno, come nel caso del Mantegna dinanzi all’illividito corpo del Cristo, o dall’interno, nel caso dell’Inversione, di fronte a una finestra, metafora antica dell’occhio quale apertura della mente oltre la gabbia del cranio, verso un’immanenza che sovverte (rovescia) il paradosso platonico della caverna.
Né è un caso che sia tutta finestre la casa in Brassai 7: piccolo raffinato paesaggio urbano, costruito con essenzialità geometrica e su un montaggio cromatico senza stacchi violenti, terre vagamente aranciate su un cielo di pallido azzurro, come pallido è per propria ineludibile natura ogni nostro ricordo.

