Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.
Rispondo con una non risposta. “Meister” (macro-contenitore cui dentro orbita tutta la ricerca), ovvero come nessuno è padre a un altro. É un macro sarcofago onniscente, il cui riciclo d’opere è condannato al disperato e maldestro tentativo di non avere maestri, pur avendone avuti numerosi, giusti o sbagliati non conta. “Meister” è un master-padre-mostro ubiquo che alla richiesta del figlio-artefice di indicargli la fonte, lo fa morire di sete. É anche una macchina per produrre scarti, disfunzioni, e incidenti di percorso. Quindi maestranze e masterizzazioni, padroni e padronanze, sovranismi e sudditanze, vengono irrimediabilmente liquidati e impastati in un corpo a corpo informe, sintesi poi affidata al ritocco stillicida della pittura. Il proprio corpo si mescola così al linguaggio, producendo un sotto genere del parlessere lacaniano, ma prestato alla visione. Qualcosa di prossimo ad un “vedessere”. Se teniamo conto che il fondamento di ogni tèchne è basato su un saper-fare, questa conoscenza materiale, una volta posseduta, infetta, corrompe. Essendone posseduti, si può procedere al rovescio, scongiurando il rischio d’abitudine a suon di indisciplina e martellate eretiche. Serve solo tanto disapprendimento.
Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore?
E perché?
Fare mostre non è mai (stata) una priorità, né un’esigenza. Lo si capisce solo facendole. Sono come pietanze riscaldate, scongiurano la concentrazione riguardo l’incarnare quel che si fa: produrre e produrmi ovvero in atti di osceno solipsismo pittorico, il tutto inebriato dai fumi di sorgenti tanto precise quanto diverse tra loro. Cosa potrà mai centrare la pittura con l’antropotecnica di un atleta, un veicolo off road, la teratologia, la teologia negativa, con doppiatori e controfigure, disinfestatori, alienati e guardiani notturni, con il trucco prostetico, un tavoliere da backgammon, la teoria dei giochi e delle catastrofi, la strategia militare, la parassitologia etc? Nulla di tutto questo sicuramente andrebbe spiegato, ma solo dispiegato, srotolato e riassemblato come un cut-up analogico di un nastro di celluloide. L’automatismo diventa così impersonale auto erotismo: in questo senso esiste un’evidente prossimità tattile e generativa tra olio e sperma. Considero le mostre solo come scatole nere per la mera registrazione e playback di guasti. Ne “ascolto” le tracce come fossero solfeggi musicali, conquiste di un inutile fare e disfare senza fine.
Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?
Andiamoci piano con l’arte, penserei solo a sopravvivere. Sopravvivere è resistere ad esperienze esenti da distinzioni. Quando si tratta di sopravvivere l’esistenza di un uomo, di un animale, di una pianta ed un sasso si equivalgono. In questo senso le sole parole degne d’essere ascoltate sono quelle dei sopravvissuti al deserto del reale, che è il lato cieco, primitivo e insensato della nuda vita.
In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?
L’isolamento è l’unica condizione propedeutica al lavorio pittorico: occorrerebbe semplicemente guardare lo studio di un artista per intendere il rispettivo assoggettamento al lavorio (il lavorio è anzitutto quel dis-occuparsi di sé a cui fanno eco gli ammonimenti nietzschiani “esercizio, esercizio, esercizio” o poetici di Dino Campana “fabbricare, fabbricare, fabbricare, preferisco il rumore del mare che dice, fare e disfare è tutto un lavorare, ecco quello che so fare”). Intendere comunque non vuol dire capire, in questo senso basterebbe osservare da vicino gli studi-athanor d’artista (mi vengono ad esempio in mente quelli extraordinari di Roberto Cuoghi e Nicola Samorì) per sintetizzare in modo bruciante ciò che incorporano ed espellono. L’isola è sempre stata l’archetipo del laboratorio di sperimentazione ideale. Isolarsi è una risorsa che non porta a comprendere alcunché, ma gioco forza, solo ad esserne compreso, ammantato cioè dalle proprie irrespirabili coazioni a ripetere. Isolare è guardare il nemico invisibile (che si è) al microscopio: lo puoi sì guardare meglio “in faccia”, ma come un virus, non lo si comprenderà mai per eccesso di somiglianza. Godere fisicamente di una chiusura (quella perimetrale del proprio tabernacolo), ha per me sempre corrisposto al massimo d’ apertura, analogo alla paradossale condizione di un nomade stanziale, un punto fermo, dove nulla lo potrebbe far andare via dal proprio deserto. Non si può sfuggire dal proprio deserto.