Il 3 Maggio 1808 di Goya è, a mio modo di vedere, la testimonianza più viva dell’orrore universale. Senza di esso, dipinti come la Fucilazione dell’Imperatore Massimiliano di Manet o il Massacro in Corea di Picasso o, più vicina a noi, la Fucilazione in campagna di Guttuso non sarebbero mai stati concepiti. Come tutti i capolavori che si rispettino, il quadro parte infatti dal reale, ma per conseguire l’ideale. Nulla, nella sua struttura, è lasciato al caso. A cominciare dallo sfondo: la cosiddetta Collina del Principe Pio dove, il giorno dopo una rivolta scoppiata a Madrid contro i francesi, questi ultimi radunarono tutta la gente che passava per via per fucilarla.
Quei luoghi Goya li conosceva bene: la sua dimora di campagna, la Quinta del Sordo, sorgeva proprio in quella zona, all’epoca rurale, solcata dal Manzanarre, il fiume che, recitando a memoria il Cinque Maggio di Manzoni, avevo sempre immaginato navigabile, ma che è poco più di un ruscelletto. L’invenzione, e quindi anche la derivazione da un esempio, supera sempre la cronaca. Non nel senso che sia più attendibile: semplicemente, la rende più vera. Così i colli e in lontananza i palazzi di Madrid, nella pittura di Goya si presentano, come accadeva nei suoi arazzi rococò, sotto forma di scenografia teatrale: sono gelidi, spenti, inespressivi. Del resto, a che sarebbe servito abbondare in dettagli? Il fatto che le fucilazioni avvengano lì conta pochissimo. A Goya non interessa neppure la cattiveria dei francesi, che nella sua pittura sono poco più che sagome: automi senza volto, totalmente sprovvisti di ogni umanità. A Goya interessano il bene, il male, il senso di una vita che, forse, non è possibile comprendere in tutto il suo valore se non prima di morire. Non a caso il protagonista del dipinto è un uomo che sta per lasciarci, una specie di Cristo contadino con indosso dei pantaloni gialli e una camicia bianca. Che sia Cristo, e non un tizio qualunque, lo testimonia una sua mano, in cui si distingue chiaramente la ferita di un chiodo, e lo testimoniano altresì due figure al suo fianco, un uomo che inveisce e un altro che prega, in cui è davvero facile riconoscere il buono e il cattivo ladrone, o meglio le loro versioni contemporanee. Le figure sono infatti al centro di una sorta di via Crucis, che inizia con dei poveracci in attesa di esecuzione e finisce con un fucilato prono al suolo in una pozza di sangue: quasi l’ombra speculare del Cristo contadino in attesa della morte. Ciò che sta accadendo, è già accaduto, e ancora riaccadrà.
L’evento rappresentato è dunque l’anello di una catena infinita, che non si può spezzare? Sembrerebbe di sì. La tela, lungi dalle intenzioni del committente, il re Ferdinando VII, è infatti la constatazione chiara, totale, disarmante – tanto più amara per un illuminista convinto quale era stato Goya sin dalla prima gioventù – che la ragione non salva l’uomo. La sua luce, simbolicamente rappresentata da una lucerna adagiata al suolo, non può far altro che rivelargli – le bestie mi perdonino – la sua bestialità. E tuttavia c’è un però. I colori della lanterna sono gli stessi, il bianco e il giallo, del Cristo contadino, che, paragonato al lume, rischiara la scena con una forza di gran lunga superiore. È a lui che bisogna guardare per ritrovare la speranza. Un Goya religioso? Magari. Ma a modo suo. A differenza del Cristo evangelico, quello di Goya non sceglie di morire, ma come morire. Si trova, in altre parole, in una condizione simile agli abitanti di Gaza, che possono scegliere se morire di sete, di fame, fucilati mentre aspettano il cibo, in ospedale, o tra le macerie di quella che un tempo chiamavano casa. Il Cristo di Goya muore guardando negli occhi chi lo uccide, riversandogli dentro il suo grido: perché? A questo grido, testimoni giorno dopo giorno di abomini sempre più efferati, non possiamo far altro che associarci. Nella speranza – non nella certezza: impauriti, potremmo scegliere di abbassare gli occhi, o di voltarci di lato – di riessere umani.