Tra le tante possibili definizioni di gabbia, la più chiara e sintetica mi sembra quella del dizionario online del Corriere della Sera: la gabbia, spiega, è essenzialmente una “struttura di metallo, legno o vimini che consente di tenere chiusi animali vivi”, o al limite i matti, essendo pure, metaforicamente, un luogo “in cui regnano disordine e confusione dovuti a comportamenti irrazionali o contraddittori”; è, infine, sempre e comunque, uno spazio di mancanza, di deprivazione, in cui i contatti con l’esterno sono limitati. Chi di noi non si è mai sentito in gabbia? Chi non ha mai pensato di aprire la gabbia di un canarino lasciandolo fuggire? A me, da piccolo, è successo. Ne avevo due, di canarini, che avevo affettuosamente battezzato Cip e Cip: uno era giallo, l’altro arancione. Me li avevano regalati come maschio e femmina, e io aspettavo con ansia di imbattermi, da un giorno all’altro, in qualche piccolo uovo. I canarini però non volevano saperne. Anzi, si azzuffavano furiosamente, come stessero combattendo per la supremazia sul territorio. E in effetti era così. Come mi spiegò un amico più esperto di me, dopo aver preso in mano i canarini e aver frugato attentamente tra le loro zampette, i due esemplari erano entrambi maschi. Questo voleva dire due cose: in primis, che potevo sognarmi i piccoletti; in secundis che forse, per evitare spargimenti di penne, la cosa migliore era fornire a ciascuno la propria “abitazione”. Non che la cosa mi piacesse. Più crescevo, più questa storia degli animali in gabbia mi pesava. Valutavo persino – immaginate l’orrore di mia madre – di adibire a voliera una stanza della casa. A darmi una risposta fu il destino. Un giorno, la porticina della gabbietta rimase aperta, e uno dei due canarini prese il volo. Siccome la gabbia era adagiata alla finestra, l’uccellino uscì proprio di casa, saltando, più che volando, da un cornicione all’altro di un cavedio. Il suo destino era segnato. Prima o poi qualche gazza, o qualche gatto di passaggio, se lo sarebbe pappato in un boccone. Le cose però andarono diversamente. L’altro canarino prese a intonare un lamento così struggente che il primo, lasciandosi alle spalle l’ebbrezza della sua breve escursione, tornò in gabbia. Così finisce la storia dei canarini.
Un racconto che mi è tornato in mente l’ottobre scorso in occasione dell’ultima giornata del contemporaneo, il cui filo conduttore è stato appunto il tema dell’accessibilità, a richiamare tutte quelle barriere (culturali, sensoriali e architettoniche) che ruotano intorno all’ambito sociale, con la necessità di “ripensare” il sistema dell’arte, attraverso l’apertura di uno sguardo consapevole sul suo intorno. L’immagine-guida di tale manifestazione ha ripreso, non a caso, Donna in gabbia (1975/2024) di Tomaso Binga, una testa di donna in una gabbia per canarini, imboccata da mani maschili, che riflette sul concetto di subalternità costrittiva e di disuguaglianza, e sull’abuso del controllo. Su questa falsariga, la Galleria La Nuvola ha presento un’istallazione realizzata in situ dall’artista Matteo Peretti (Roma, 1975) intitolata My Dear AI…, in una esposizione a cura di Alice Falsaperla. L’opera di Peretti recupera tali tematiche in una chiave più strettamente contemporanea: My Dear AI… consiste infatti in una gabbia da uccelli in ferro nero contenente una struttura elettronica simile a un essere robotico, collegata a un’intelligenza artificiale limitata a siti dal contenuto semplice selezionati direttamente dall’artista, e che da quest’ultimo viene “allevata”. Difatti questa IA è progettata per evolversi gradualmente, come un compagno domestico, sviluppando capacità di discernimento morale e interagendo con gli spettatori. La gabbia simboleggia inizialmente protezione e crescita, ma diventa anche un luogo di confinamento, rappresentando le paure e le limitazioni del sapere umano, personali, etiche e sociali, da cui l’intelligenza artificiale, come il mio canarino, potrebbe volersi liberare.
Premesso che non condivido la crudeltà di lasciare “sola” l’intelligenza artificiale, senza un suo simile rinchiuso nella gabbia, e che non si capisce se, in questo caso, la gabbia protegga la coscienza che abbiamo fatto prigioniera o noi che stiamo ad osservarla, non ci resta che aspettare.