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Vincenzo Trione @aurelioamendola immagine di profilo Facebook

Mostre, musei e pandemia – Vincenzo Trione

Il Black Out delle mostre “di ogni ordine e grado”, dalle esposizioni di quartiere alle grandi rassegne dei musei generalisti, ha avuto persino effetti positivi, come la cancellazione, si spera finale, di eventi solo di cassetta, economicamente, culturalmente e socialmente insostenibili. Ha altresì incoraggiato, anche attraverso l’impegno di tutti gli operatori del settore nel trovare canali alternativi, l’istaurarsi di una relazione più meditata e complessa con il pubblico. Che non può tuttavia prescindere, essendo le opere dei “corpi”, dalla fisicità del contatto. Ne abbiamo discusso, tra provocazioni mie e proposte operative del mio interlocutore, con Vincenzo Trione, storico dell’arte, critico (tra i suoi libri Effetto città. Arte cinema modernità, 2014; Contro le mostre, con Tomaso Montanari, 2017 e l’ultimoL’opera interminabile: arte e XXI secolo, 2019), firma assai nota del “Corriere della Sera” e curatore di mostre di prima grandezza come il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2015, Codice Italia, e ancora ordinario presso lo IULM di Milano, dove ricopre anche il ruolo di Coordinatore del Dottorato di ricerca in Visual and Media Studies e la carica di Preside della Facoltà di Arti e Turismo, nonché, dal settembre 2020, Presidente della Scuola del Patrimonio della Fondazione Scuola dei Beni e delle Attività Culturali: responsabilità che lo lega a doppio filo alle difficoltà e alle esigenze dei professionisti della cultura.

Che ne è stato delle mostre Block Buster, cui ha dedicato, con Tomaso Montanari, il suo pamphlet Contro le mostre?
Il fenomeno è in fase di estinzione.

Cosa è accaduto?
Da un lato, anche in Italia si è cominciato a dare importanza alla qualità. Dall’altro, con ingressi e incassi limitati dalle restrizioni, organizzare rassegne generaliste e con grandi aspettative di pubblico è diventata un’impresa proibitiva. La pandemia ha inferto il colpo di grazia a un Moloch che macinava diecimila mostre l’anno: una situazione ingestibile, che non ha confronti in qualsiasi altro Paese europeo.

Congedate le iniziative commerciali, come la mettiamo con la Netflix art, intendo dire con la virtualizzazione dilagante delle mostre?
Il trasferirsi in rete è una forma di sopravvivenza, che non va demonizzata. I musei, le gallerie, perfino gli artisti stanno cominciando a sfruttare le potenzialità del Web: inevitabile che accadesse. Dico di più. Sono convinto che questa scelta inciderà parecchio sulle dinamiche future. Andiamo in direzione di mostre blended, dove l’online e l’offline coesisteranno, arricchendosi a vicenda.

L’attuale impasse ha dunque trasformato gli artisti in influencer, in promotori di sé stessi, scavalcando – un po’ come le case d’asta le gallerie – critici, curatori, art dealer?
Sino a qualche tempo fa sembrava che il mondo dell’arte fosse fermo al Novecento. La pandemia ha rovesciato il banco. Le gallerie e le fiere hanno dovuto prendere coscienza di non essere poi così diverse dalle agenzie di viaggio, in un’epoca in cui i voli si prenotano da casa, comodamente seduti sul divano, e hanno pensato di correre ai ripari. Gli artisti hanno fatto altrettanto. Mutandosi in influencer? Forse. Ma vivendo sempre il Web come uno spazio di assoluta libertà: un modo per sottrarsi alle regole del mercato che li costringe a diventare, ha scritto Jerry Saltz, come macchine fotografiche impegnate a riprodurre all’infinito sempre la medesima immagine.

In un articolo apparso sul “Corriere” qualche tempo fa lei ha parlato di “ritorno del corpo”. Ha qualcosa a che vedere con questa libertà?
Il digitale non cancella le esigenze del corpo, anzi. Quando usciremo da questo incubo, non potremo fare a meno di accalcarci per stabilire un contatto fisico con opere che, non dimentichiamolo, sono esse stesse dei corpi.

I musei, già duramente provati, si dovranno impegnare.
La soluzione – autarchica, e quindi quasi a costo zero – è a portata di mano. Istituzioni come Brera, gli Uffizi, la Galleria Borghese conservano nei loro magazzini un patrimonio sterminato. Perché non valorizzarlo, magari affidandosi allo sguardo obliquo di guest curators come scrittori, filosofi, cineasti?

Alla Galleria Borghese, a quanto mi risulta, nelle sale principali si fa spazio ai lavori di Hirst…
Hirst è un artista che mi interessa molto. Nel mio ultimo libro L’opera interminabile: arte e XXI secolo (Einaudi, 2019, Euro 40.00) gli ho dedicato un lungo capitolo. Ciò, tuttavianon mi impedisce di nutrire una certa insofferenza per i crossover. Trovo che questi fuochi d’artificio creino solo confusione e alimentino approssimazioni.

Se dovesse firmare un’altra edizione del Padiglione Italia, a che artisti penserebbe?
Le rispondo con una battuta che Paolo Baratta mi lanciò proprio in quella circostanza: “La Biennale non è un luogo da artisti giovani, è un luogo di approdo”. Di sicuro mi rivolgerei a figure consolidate e guarderei con più attenzione ad autori che – come i protagonisti de L’opera interminabile – prendono le distanze dai linguaggi della tradizione.

Un’ultima domanda. Quali prospettive, in questo tempo di crisi, per i professionisti della cultura?
C’è una frase di Savinio che amo molto: “bisogna avere almeno tre idee per volta”. È chiaro che i nostri ragazzi – e i nostri docenti – debbano adattarsi a un mondo in cui tutto cambia. Abbiamo bisogno di professionisti che non abbiano esclusivamente competenze storico-artistiche, ma anche digitali, linguistiche, giuridiche, economico-gestionali. E glielo dice una persona che nasce come storico dell’arte puro. Se ci riusciremo, in un Paese ricco di bellezza come il nostro, il domani sarà luminoso.

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