Muta e mutevole è un evento che ho avuto modo di apprezzare nei giorni finali della sua programmazione e mi ha molto colpito. Ne scrivo ora per condividere le impressioni che mi ha suscitato e anche per segnalare l’inaugurazione di un nuovo importante evento espositivo dello stesso autore che si è inaugurato il 12 febbraio a Campombasso, promosso dal Museo Laboratorio per l’Arte contemporanea dell’Università degli studi del Molise, Galleria Gino Marotta. Quest’ultimo, curato sempre da Lorenzo Canova, in collaborazione con Piernicola Maria Di Iorio, dal titolo Architettura e natura, si protrarrà fino al 5 maggio.
Ciò che più mi ha impressionato nell’ampia retrospettiva di Roma – circa settanta fra pitture e sculture, di cui una decina create appositamente per l’occasione – è la sintesi, magistralmente raggiunta, di sperimentazione e rispetto per l’essenza, direi quasi per la sacralità, della pittura e della scultura per come si sono venute esprimendo nel corso dei secoli. La storia stessa della pittura, così come la natura, sono al centro dello scavo di un pittore che non considera figurazione e astrazione come mondi separati e in competizione tra di loro. Così come non considera realtà e fantasia, prassi e dimensione onirica, realtà distinte e sconnesse.
Al contrario, il tratto che sembra distinguere questo artista, che ha raggiunto il pieno della sua feconda maturità, è quello dell’accoglienza mentale di un intero, di una totalità integrale da cui non si può prescindere. Contenuti e stile, in questa prospettiva, appaiono strumenti di un approdo al tutto rispetto al quale l’arte risulta essere la via di accesso privilegiata. Un’arte che non rifiuta il manufatto, come fanno le sin troppo folte schiere di funzionari noiosi dell’epigonismo iper-concettuale. Anzi, lo esalta con i riferimenti alla pittura tre e quattrocentesca. Con la manipolazione plastica, di sapore poverista, del legno di quercia che lui recupera segretamente. Oppure con l’uso della carta, anche stampata, attraverso procedure lunghe e complesse di macerazione, rigenerazione e modellazione.
A sorprendermi è stato il suo Giuseppe del 2023, la scultura che ricorda il padre dell’autore, realizzata con carta rigenerata, colla e colori ad acqua. Un’espressione quella del volto di Giuseppe in cui è riassunta la saggezza dei vecchi di tutto il mondo; della misura, del lavoro, dei cicli delle stagioni, del calmo controllo degli eventi che deriva da una conoscenza empirica e affettiva che ha attraversato il mare del tempo. Ma poi la mostra si sviluppa come un’unica installazione in cui le opere sono accostate per affinità tematiche che prescindono dalla cronologia della loro realizzazione. Il percorso espositivo si snoda nel cuore dell’intero padiglione, scandito dal succedersi di stanze che conferiscono ritmo a una visione sempre sorpresa dalla silenziosa mutevolezza della pittura proposta.
Sono piccoli (quelli dedicati agli antichi maestri), grandi e grandissimi i dipinti proposti. Fino ai 9 metri di Opera del 1990, con le sue suggestive scansioni di pieni e di vuoto. Ininterrotta è la successione dei personaggi “liquidi” e dei reticoli di vegetazione che appaiono più mentali che fisici e raccontano di una natura naturans. Di una sostanza, cioè, che è l’unica ad essere causa sui. Il resto è leopardianamente dedicato a ciò che della vita dell’uomo è precondizione e teatro.
Un teatro ostile a volte (spesso), mai comunque intrinsecamente interessato a un fine teleologicamente programmato. Un mondo in cui il caso vale più della necessità. In cui la stessa evoluzione è sottoposta al dominio della contingenza e, oggi, dell’antropocene, cioè, dell’influenza patogena dell’uomo sulla natura stessa. Che poi, a ben guardare, si dovrebbe chiamare capitalocene (Jason W. Moore), visto che i guai veri all’ambiente non li provoca l’uomo ma il sistema economico-politico che si è dato (del quale non riesce a liberarsi) e che risponde, oggi più che mai, alle esigenze del capitale finanziario.
Sono questi orizzonti di senso che l’arte di Maurizio Pierfranceschi dischiude. Essi si sono appalesati al Mattatoio di Roma e oggi, ne sono certo, si trasferiscono presso la Galleria Gino Marotta di Campobasso. Per la gioia degli amanti dell’arte (che è pensiero).




